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Il coraggio, l'intelligenza, il talento di Jasmine Paolini
18 mag 2025
Una tennista che ha scritto la storia.
(articolo)
8 min
(copertina)
Foto IMAGO / Avalon.red
(copertina) Foto IMAGO / Avalon.red
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In questi anni post-pandemia, se ci sono delle cose che abbiamo completamente rimosso dalla memoria collettiva per superare il trauma, ce ne sono altre che sono entrate nel nostro quotidiano. Per esempio i dehors su tutti i marciapiedi, i dpcm, e la parola resilienza. Il significato di quest’ultima, secondo la Treccani, è: “In psicologia, la capacità di reagire a traumi e difficoltà, recuperando l’equilibrio psicologico attraverso la mobilitazione delle risorse interiori e la riorganizzazione in chiave positiva della struttura della personalità”. Vale la pena ricordarlo, perché ormai sembra che non voglia dire più niente, un po’ come quel tatuaggio di una piuma che diventa uccelli. Ma se per una volta, una sola volta, si può usare prima di fare voto di non pronunciarla mai più, è per parlare di Jasmine Paolini negli ultimi mesi, culminati in questi dieci giorni.

Il 2024 era stato un anno di eccezionalità imprevedibile per Paolini. Parlando solo dei successi in singolare: aveva vinto il suo primo WTA 1000 a Dubai – solo la terza italiana in assoluto a riuscirci; aveva raggiunto la finale del Roland Garros, sconfitta da un’inarrestabile Iga Świątek; era stata a un set dalla vittoria di Wimbledon, contro un’ispiratissima Barbora Krejčíková; aveva partecipato alle WTA Finals e vinto la partita d’esordio contro Elena Rybakina; aveva conquistato la Billie Jean King Cup. In mezzo, c’era stato anche l’oro alle Olimpiadi in coppia con Sara Errani, unica concessione che faccio al doppio, per non far diventare l’articolo un elenco. Una stagione che da sola può bastare a definire una carriera.

In altre circostanze si sarebbe parlato della nascita di una stella. Ma Paolini non ha diciannove anni, ne ha ventinove. È di gran lunga la più bassa tra le prime venti giocatrici al mondo: a un metro e sessantatré, è tredici centimetri in meno della media. Per vincere una partita, ha bisogno di sapere cosa fare e poi di farlo perfettamente la maggior parte del tempo.

Ne è stato un esempio lampante la partita contro Diana Schneider nei quarti di finale degli Internazionali: dopo un inizio ottimo, sopra di due break contro la russa, si è fatta rimontare da 4-0 a 4-5. È poi riuscita a guadagnarsi l’occasione di servire per il primo set, perso al tie break. La partita stava scivolando via, velocissima come i dritti mancini di Schneider che Paolini non riusciva a disinnescare. Poi, la pioggia. Breve, quel tanto che è servito per parlare con Errani, unica rimasta nel suo box: «Gli altri erano negli spogliatoi per lasciarmi spazio, e lei è rimasta lì. Mi ha detto di restare calma, di giocare sul rovescio, che la palla arrivava lì e che dovevo tenerla semplice. In quel momento ho ritrovato la tranquillità e la lucidità».

Quando l’eccezionalità è costruita, quando arriva più tardi, è facile presumere che sia soprattutto frutto delle circostanze. Bisogna solo aspettare che i punti scadano e che si ritorni alla “normalità”, dove le migliori non le somigliano. Non è una stella nuova, ma una morta, che brilla in cielo più di altre ma già non c’è più, è questione di una stagione-luce. Durante il mese di pausa, me la sono immaginata un po’ come Capitan Uncino, inseguita dal ticchettio di una sveglia nella pancia di un coccodrillo supersonico, che la segue da un continente all’altro e si fa sempre più insopportabile ogni volta che scende da un aereo che la porta al prossimo torneo.

Tic-tac – come andrà in Australia? – tic-tac – ecco che arriva Dubai e i primi punti importanti da difendere scivolano via – tic-tac – siamo già in Europa manca poco – tic-tac.

Così, secondo pronostico di chi la sottovalutava, il 2025 era iniziato male. Fino al WTA 1000 di Miami aveva collezionato poche vittorie, tutte sofferte anche con giocatrici fuori dalle prime cinquanta al mondo. In mezzo anche la separazione dall’allenatore Renzo Furlan a fine marzo. Furlan aveva seguito la toscana per dieci anni ed era considerato il principale fautore del suo successo. Dopo due settimane di confusione e dicerie, era uscito fuori il nome di Marc Lopez come sostituto. Lo spagnolo, con alle spalle un’ottima carriera da doppista, è alla sua prima esperienza ufficiale da allenatore. Nonostante la difficoltà del momento e il periodo di transizione, erano arrivati i primi due tornei buoni della stagione a Miami e Stoccarda. E comunque quello che happened è happened, «here we are, we are in Rome».

Fino a dieci giorni fa, Paolini non era mai riuscita a vincere due partite di fila al Foro Italico. La terra di Roma è brutale, sfiancante: nell’era Open solo Serena Williams era riuscita a vincere il torneo femminile dopo aver compiuto ventinove anni. Poi la pressione di giocare un torneo del genere da italiana è schiacciante: l’ultima a raggiungere la finale era stata Sara Errani nel 2014, ma per un titolo bisogna risalire a Raffaella Reggi nel 1985, unica donna nell’era Open e ultima tra maschi e femmine – peraltro in un’edizione in tono minore tenuta a Taranto.

Poi, l’avversaria, Coco Gauff, è tutt’altro che semplice (checché ne abbia detto Adriano Panatta su Rai1 in un commento francamente deprimente): prossima numero due del mondo dopo aver raggiunto due finali consecutive in due WTA 1000 sulla terra, Madrid e Roma, rifilando nel cammino spagnolo 6-1, 6-1 a Iga Świątek che di sicuro, a prescindere dal momento di difficoltà, è una che sulla terra rossa ci sa giocare meglio di chiunque.

Gauff era avanti negli scontri diretti con la nostra due a uno (confronto ora portato in parità). E se è vero che Paolini l’aveva battuta per la prima volta poche settimane fa a Stoccarda, le condizioni e la posta in gioco non erano paragonabili. L’americana, che a soli ventuno anni è già una veterana del circuito, è molto più abituata alle grandi occasioni ed è una giocatrice estremamente competitiva. Gli anglofoni la definirebbero “gritty”, un termine difficilmente traducibile in italiano, anche per il suono onomatopeico, ma si potrebbe provare a unire una serie di aggettivi: grintosa, ostinata, caparbia, ruvida. Una che sa vincere giocando male, anche malissimo a momenti, superando dei difetti evidenti su servizio e dritto con tutto il resto. Lo ha dimostrato in semifinale contro Qinweng Zheng, sconfitta in una battaglia durata oltre tre ore e mezzo. Anche Paolini, però, è gritty. E se fino a dieci giorni fa non aveva mai vinto due partite di fila al Foro Italico, in questo anno e mezzo di eccezionalità ci ha fatto vedere quanto le piaccia stravolgere le statistiche tutte insieme, quando meno ce lo aspettiamo.

Jasmine Paolini è scesa in campo con una missione e un piano ben preciso per realizzarla: vincere soffocando, esponendo tutti i punti deboli di Gauff, che ogni tanto sembrava riuscire a fare punto solo con delle magie o dei siluri. Ma vanno accettati le magie e i siluri se a farli è la numero due del mondo. E Paolini li ha accettati, senza avere un solo secondo di smarrimento. Tutte e due le volte che Gauff è riuscita a recuperare un break subito, la nostra se ne è subito presa un altro. L’americana ha collezionato alla fine cinquantacinque errori non forzati, trentatré dei quali con il dritto, costantemente provocato dal gioco asfissiante dell’avversaria. Per tutta la partita la 29enne si è aperta il campo, costruendo lo spazio con diritti incrociati carichi di spin e rovesci lungolinea, cinica a esporre e forzare i problemi di Gauff, spostandosi sulla diagonale del rovescio solo quando era convinta di aver conquistato abbastanza spazio. Con pazienza, su ogni palla, senza affrettare gli scambi che è perfettamente in grado di reggere. «Mi sentivo bene, sono entrata in campo e sapevo che per vincere la partita dovevo fare una buona prestazione, dovevo colpire forte la palla perché altrimenti con un giocatrice come lei fai fatica, quindi lo sapevo, però devo dire che ho iniziato anche abbastanza tranquilla, con le idee chiare. Onestamente sono contenta di come l'ho gestita, perché dall'inizio alla fine ho mantenuto la tensione sempre alta: il braccio andava veloce e le gambe pure». Sempre in spinta, sempre in vantaggio, sempre in controllo: ha giocato una delle partite più belle della carriera, la più bella quest’anno, nel luogo più stressante che esista al mondo per una tennista italiana.

È diventata la prima azzurra a vincere più di un WTA 1000, uno sul cemento di Dubai e poi questo sulla terra brutale, sfiancante di Roma. Uno dei tornei più complicati, più ambiti dopo gli Slam. Uno di quelli che Paolini aveva paura pure di sognare, e invece eccolo qui, pesante sorretto in alto sopra la sua testa. Senza stancare troppo le braccia: «Non è ancora finita, domani abbiamo il doppio. Non me lo sto scordando! Spero che domani veniate un pochettino prima a vedere anche la finale del doppio perché abbiamo bisogno di voi». La regia ha inquadrato Sara Errani commossa, tanto da far pensare che forse quella che si è scordata la finale del doppio per un momento è stata lei.

Roma – che per qualche giorno è stata al centro del mondo – ha occhi solo per Jasmine Paolini e ancora per qualche ora sarà così. È questa la prima portata principale, non l’antipasto: un enorme piatto di spaghetti dentro al Colosseo, come nella goffa grafica pubblicata dall’account Instagram della WTA. Resterà per sempre, spero, nella memoria collettiva l’immagine di Jasmine Paolini che saltella in mezzo al campo a braccia aperte, circondata dalla folla adorante del Centrale tutto esaurito, tra cui spicca lo sguardo canuto e divertito di Sergio Mattarella.

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