INTRODUZIONE: FLORA
di Tim Small (@yestimsmall)
Siamo ormai giunti al quarto classificone del mese, la rubrica in cui raccogliamo il meglio del mese appena terminato in termini sportivi, avvalendoci dell'aiuto di un ampio gruppo di nostri collaboratori. Personalmente, ho partecipato solo alla prima edizione, raccontandovi il perché di questa rubrica, e parlandovi del frutto del mese (si trattava di novembre; era il caco) e del fiore del mese (la calla). Dato che non penso che sia più necessario raccontarvi il perché di questa rubrica, ho deciso di concentrarmi sugli altri due aspetti.
Il frutto del mese: tompinambur
Il frutto del mese, per il mese di febbraio, è molto difficile da scegliere. A livello di frutta-frutta, non offre molto: limoni, pompelmi, stop. Non che non ami gli agrumi, anzi, ma fatico molto a trovar loro un uso. E soprattutto, soffrono, nella mia personale opinione, il confronto col re di tutti gli agrumi, aka l'arancia. Anche a livello di verdura, però, non c'è poi molto. Le bietole? Chi ama le bietole? I carciofi sono meravigliosi, deliziosi, ma sono in giro a febbraio quest'anno solo per via dell'inverno particolarmente mite: sono più verdure primaverili che invernali. Ergo, ho deciso di scegliere il topinambur, anche noto come il "jerusalem artichoke" o il "sun artichoke" in inglese, per via del fatto che, alla fine, stiamo parlando dell'unico tubero che può vantarsi di "sapere di carciofi", e perché cresce al sole. Il topinambur è conosciuto in piemonte, dove viene usato molto, ma se non lo conoscete ve lo consiglio. È molto ferroso, è buono crudo con un po' di limone, e tende a lasciarti le mani nere (proprio come il carciofo), quindi vi consiglio di tenere una ciotola d'acqa e limone a portata di mano quando lo preparate.
Secondo classificato: cavoletto di Bruxelles.
Il fiore del mese: biancospino
Le azalee sono elegantissime, e ho appena avuto modo di acquistarne una pianta immensa, bella, tutta fiorita, bianca. Il fiorista mi ha detto che si trattava di "azalee di fiume". Splendide. Purtroppo, sono più di marzo che di febbraio. Dato che, nella mia personale opinione, i fiori più belli sono quelli bianchi, ho deciso di scegliere il fiore di febbraio che è talmente bianco che ha pura la parola nel nome: il biancospino. Ma come, direte voi, e le rose? Bah, risponderei. Sopravvalutate.
Secondo classificato: bucaneve.
Terminato questo breve quanto inutile excursus nella flora di febbraio, vi auguro di divertirvi con le prossime otto classifiche.
I GOL DEL MESE
di Daniele Manusia (@DManusia)
10. Kwadwo Asamoah. 16 febbraio. Juventus - Chievo 1-0 (finale: 3-1). Assist: Fernando Llorente
Non so se dipende da una mia predisposizione in questo periodo ma ho l'impressione che questo mese ci siano stati davvero dei gol eccezionali. Ho scelto di cominciare con questo gol perché è il più normale del gruppo. È bella l'azione, il movimento esterno-interno di Asamoah, è bello anche il triangolo con Llorente ed è bella la nonchalance con cui calcia Asamoah (dall'inquadratura del video si vede particolarmente bene quella frazione di secondo precedente al tiro in cui “Asa” rilassa i muscoli del proprio corpo sicuro che ormai il più è fatto).
9. Emmanuel Badu. 8 febbraio. Udinese - Chievo 3-0. Assist: Bruno Fernandes
In questa stessa partita, vale la pena ricordarlo dato che ha già annunciato il ritiro al termine della stagione, Di Natale ha segnato uno dei suoi ultimi “alla Di Natale” (collo destro al volo sul secondo palo). Ma il gol di Badu è un ottimo esempio del meglio che il calcio verticale sa offrire. Sembra, anzi, un esercizio da scuola calcio. Solo che qui ci sono gli avversari. Prima l'incrocio tra Muriel e Bruno Fernandes, poi il no look di ritorno di quest'ultimo, e infine l'inserimento di Badu che arriva addirittura prima di Muriel sulla palla. L'Udinese non sembra in grado di risalire la classifica come ha fatto lo scorso anno, e non ho un'opinione precisa sull'ipotesi Guidolin selezionatore della Nazionale, so solo che la sua Udinese ci ha regalato bei momenti di calcio negli ultimi anni, e anche adesso è capace di belle cose come questa.
8. Gonzalo Higuaín. 24 febbraio. Napoli - Genoa 1-0 (finale 1–1). Assist: Marek Hamšík
Tanto per cominciare qui c'è un gran filtrante di Hamšík che quando gioca fronte alla porta torna ad essere uno dei migliori giocatori del campionato. Poi il movimento del “Pipita” che, da quando ho scoperto che sua madre fa la pittrice e per non farsi rompere i vetri del salotto ha fatto costruire una piscina in giardino, non riesco a non immaginare bambino con la camicia bianca sbottonata, le guance rosse senza barba e la fronte sudata. Lo immagino buttare la cartella in terra e scattare sul filo del fuorigioco, guardare la palla per sincronizzare la propria corsa e al tempo stesso, con la coda dell'occhio, il portiere in uscita che poi scavalca con un tocco sotto cinico e raffinato. Da bambino benestante ma non per questo frivolo.
7. Stefan Radu. Lazio - Sassuolo 1-0 (finale 3-2). Assist: Cristian Ledesma
Da difensore che si spinge in avanti solo sui calci d'angolo e che tira più di una volta a partita da centrocampo spedendo la palla oltre le recinzioni del campo, non posso non rispettare un gol del genere. Questo è il secondo gol di Radu in Serie A in sei stagione e mezzo. Notevole la precisione con cui indirizza la palla, facendola girare appena verso l'esterno, all'incrocio del primo palo. È esattamente il tipo di tiro che penso uscirà dai miei piedi ogni volta, prima di perdere il pallone nel Tevere.
6. Adel Taarabt. 8 febbraio. Napoli–Milan 0–1 (finale 3–1). Assist: palla recuperata a centrocampo
Dal diario di Adel Taarabt: 9 febbraio 2014. «Caro diario, sono passato dalla panchina di una squadra di Championship all'undici titolare di una grande italiana. Anche se il Milan è in un periodo di crisi mi dà la possibilità di giocare gli ottavi di Champions League. Mi sento fortunato, al tempo stesso so di meritarlo, è il resto che non capisco, tutti quegli allenatori che... Ma adesso posso dire che è acqua passata. Ho esordito al San Paolo con il Napoli terzo in classifica; ho rubato palla a centrocampo dopo 7 minuti e ho puntato direttamente la porta avversaria come se non ci fosse stato un domani. Poi ho rallentato perché comunque non sono nella mia forma migliore, ah ah, anche il Maradona dentro di me sapeva che non sono ancora in grado di fare tutto da solo. Poi però ho cambiato idea sulla questione “fare tutto da solo” e ho calciato a giro rasoterra sul secondo palo. Voglio dire, la difesa del Napoli continuava a indietreggiare come se fossi stato un giocatore qualsiasi. Ho cercato di mantenere un atteggiamento professionale e sicuro al tempo stesso. Ho pensato a quando da piccolo papà mi portava al mini-golf di Marsiglia. Ero così più bravo di lui che mi avvicinavo alla buca il più possibile, poi la mettevo dentro da pochi centimetri tenendo la mazza con una mano sola. Papà si arrabbiava, ma adesso che ci penso magari mi lasciava vincere. Mi sono sentito come se la palla fosse solo a qualche centimetro dalla buca di porta. Perché la vita non è sempre così facile? Mentre esultavo ho ripensato a tutti quegli allenatori che... E sono corso ad esultare abbracciando Seedorf, anche lui è arrivato al Milan solo da qualche settimana. Sembra simpatico.»
5. Matías Fernández. 24 febbraio. Fiorentina–Parma 2–2. Punizione.
Come avete in parte visto e come vedrete nelle prossime posizioni di classifica febbraio è stato un mese di tiri da fuori incredibili. La punizione di “Mati” Fernández ha una curva opposta a quella solita, a uscire sul palo del portiere anziché a rientrare sopra la barriera. A volte una soluzione di questo tipo coglie impreparato il portiere pronto a tuffarsi dalla parte opposta, ma in questo caso specifico no. Mirante non si muove, parte forse un po' in ritardo ma la palla gira e accelera all'improvviso e se non arriva sulla palla è perché il tiro di “Mati” non solo lo scavalca ma finisce nella parte laterale della rete di porta (quella che i francesi chiamano petit filet, la “retina”). Anzi, se guardate l'ultimo replay si vede anche che Mirante la sfiora.
4. Rafal Wolski. 8 febbraio. Fiorentina–Atalanta 2–0. Assist: Matías Fernández
Secondo una definizione dell'Avvocato Agnelli, che non ricordo dove ho letto e che parafraso: l'eleganza dipende dall'impressione che non ci sia sforzo. Ecco, adesso proviamo a scomporre questo gol per capire quanta fatica ci sia invece dietro gol difficili come questo che però l'eleganza dell'esecuzione fa sembrare semplici. Lanciato in contropiede da una scivolata di Matías Fernández, Wolski percorre velocissimo i primi trenta metri della metà campo atalantina, si porta avanti la palla di destro, poi rallenta controllando di sinistro sulla trequarti, poi con il tacco sinistro [0:07] se la porta nuovamente sul destro quando vede arrivare il primo difensore; se l'allunga di nuovo e fa appena in tempo a tirare il freno a mano [0:09] ed eseguire un cambio di piede destro-sinistro con cui si infila nello spazio tra quel difensore e i tre che arrivano da dietro; protegge palla con il sinistro [0:10] dalla carica del secondo difensore; e poi, cadendo, conclude di destro rasoterra sul secondo palo anticipando il portiere in uscita. Vedete quante cose si possono fare in quattro secondi?
3. Emerson Ramos Borges. 16 febbraio. Livorno - Cagliari 0-1 (finale: 1-2). Assist: Benassi. Se si può definire assist un passaggio al centrale difensivo che tira in porta da 40 metri
Emerson ha esordito a 33 anni in Serie A e ha segnato due gol finora. Il primo era un tiro da trentacinque metri dritto sotto la traversa . Il secondo è questa cosa qui sopra, da ancora più lontano. Da dietro si vede bene che Emerson colpisce la palla di collo esterno e con una traiettoria a uscire, un angolo ottuso che di solito si vede in tiri sbagliati che finiscono in tribuna. Qui se preferite c'è un video con dei replay confusi tipo camera a mano, tipo Cloverfield, perché il cameraman non riesce a seguire la traiettoria del tiro, ma se guardate un numero sufficiente di volte la gif vedrete che succede qualcosa quando, da questa prospettiva, il pallone è più o meno all'altezza della bandierina del calcio d'angolo. Quasi impercettibilmente la palla si abbassa e si rialza stabilizzandosi finché non arriva in porta, Emerson in qualche modo è riuscito a dare alla palla la traiettoria degli aeroplanini di carta.
2. Stephan Lichtsteiner. 2 febbraio. Juventus - Inter 1-0 (finale 3-1). Assist: Andrea Pirlo e il misticismo nel calcio
Questo gol sarebbe potuto essere in cima alla classifica di febbraio non tanto per l'azione corale (che qui potete vedere per intero, facendo caso a come la Juventus recuperi palla con un pressing altissimo portato addirittura da Chiellini, accompagnato da Pogba, Tévez e Asamoah che costringe al rilancio Jonathan) quanto per la palla incredibile di Pirlo. Così incredibile da distinguersi, almeno a mio umile giudizio, dal resto delle palle incredibili date da Pirlo in una carriera prolifica sotto questo profilo. La palla di Asamoah viene da sinistra. È alta, anche abbastanza forte, Pirlo deve spostarsi di qualche passo per stopparla di petto e già il fatto che ci riesca non è comune. Pirlo poi aggiunge subito un tocco di sinistro per spostarsi la palla sul destro che lo prepara, come se già lo sapesse, all'assist per Lichtsteiner dalla parte opposta. Ho scritto come se già lo sapesse perché non è affatto normale sapere una cosa del genere. Pirlo ci ha pensato così rapidamente che sembra non averci pensato affatto, come se fosse un unico gesto. O meglio, sembra che Pirlo abbia fatto quel tocco di sinistro in funzione del movimento di Lichtsteiner che però non poteva conoscere.
Volendo si potrebbe scomporre il gesto in due parti: Pirlo prima si sposta la palla sul destro poi vede il movimento di Lichtsteiner. E magari sarà dovuto a una serie di schemi provati in allenamento (o dall'abitudine di Pirlo di passare il sale e il pepe a tavola a Lichtsteiner—come nel video geniale caricato dalla Juventus sul suo canale YouTube). Ma a me ha fatto pensare ad alcune letture mistiche svolte in passato secondo cui è possibile percepire il tempo invertito, ad esempio nei sogni. Credo che per Pirlo sia venuto prima il movimento di Lichtsteiner e poi il suo controllo di palla (prima la conseguenza poi la causa). Che Pirlo, insomma, sia un mistico che anziché meditare gioca playmaker.
1. Mario Balotelli. 14 febbraio. Milan–Bologna 1–0. Assist: Montolivo, ma ho molti dubbi che anche questo possa essere considerato un assist.
Considerate le differenze tra questo gol e quello di Emerson al terzo posto. Anzitutto Balotelli è più vicino. Ma anche più laterale. Quindi la porta, da dove la vede lui, è più stretta. Per questo se guardate Curci quando si tuffa, non resta molto spazio libero. La traiettoria del pallone è praticamente dritta (come si vede qui dal terzo replay). Curci non ci arriva perché la palla percorre il 90% del proprio tragitto a un'altezza per lui irraggiungibile. È un passo fuori dai pali, forse due, e la palla scende solo una volta che lo ha superato.
Scrivendo di Taarabt su queste stesse pagine il direttore Tim Small a un certo punto dice di amare i calciatori problematici, quelli con un talento che li potrebbe portare in cima al mondo ma che lottano con i loro demoni, perché: «Quando ci riescono, è quasi commovente. Quando non ci riescono, soffro per loro». Ho letto queste parole in un periodo complicato sul piano personale e mi è sembrato di vedere qualcosa di importante. Ho pensato che in Italia il calcio di solito viene interpretato in chiave morale, e la morale italiana dei calciatori problematici è che hanno sbagliato a sentirsi speciali, che a noi italiani non piace quando qualcuno non sta con i piedi per terra o non fa sforzi per piacerci. Noi italiani vogliamo vedere Balotelli fallire perché così si giustificherebbero tutti i compromessi e i sacrifici che, in un periodo storico complicato, siamo costretti a compiere quotidianamente, tutti i nostri sorrisi forzosi, quella fiducia nel futuro fatalista che ci fa essere educati. O che comunque non ci fa perdere la testa, piangendo ad esempio davanti a migliaia di persone.
Balotelli segna questo gol a cinque minuti dal termine di un pareggio a reti inviolate, lo segna in una situazione complicata (a trequarti di campo, calciando di destro da destra, senza giro), senza che a nessuno spettatore o avversario fosse venuto in mente che da lì Balotelli potesse tirare. Una cosa così inaspettata, nella monotonia di uno 0-0, che rende evidente quanto Balotelli sia speciale. E che anche se per lui è difficile essere sempre speciale, quando ci riesce «è quasi commovente».
I 3 GIOCATORI DEL MESE
di Fabrizio Gabrielli (@conversedijulio)
3. Mattia Cassani, Parma
Il Parma non perde dal 2 Novembre dell’anno scorso. Sì, andate a controllare. Tredici risultati utili consecutivi. No, per dire. A febbraio ha passeggiato a Bergamo sull’Atalanta due settimane dopo che l’Atalanta aveva passeggiato sul Napoli (la silloge è valida: il Parma ha passeggiato pure sul Napoli al San Paolo). E allora viene da pensare subito a Cassano. Certo, ovviamente. E poi Amauri, ça va sans dire. Il simbolo di questa inossidabilità parmense, però, va cercato altrove. In difesa, a destra della riga al centro di Paletta. Mattia Cassani da Borgomanero, nell’idea di gioco di Donadoni, interpreta (forse è rimasto l’unico in Italia?) il ruolo di terzino, appunto, all’italiana: uno per il quale la priorità è difendere, e saper scendere sulla fascia fino alla trequarti avversaria è un simpatico diversivo più che una conditio sine qua non.
Con Mattia Cassani, la fascia destra difensiva del Parma è ben coperta (anche senza ricorrere alla maglia in lana grezza)
2. Omar El Kaddouri, Torino
Figuraccia casalinga contro il Bologna a parte—condita da un’ingenuità macroscopica del belga-marocchino, colpevole d’essersi allontanato dal campo di gioco per chiedere il cambio maglia lasciando di fatto i suoi in dieci in fase difensiva—il Torino di Cerci, Immobile e appunto El Kaddouri è proprio in forma smagliante. Così in alto in classifica che non succedeva dagli anni ’90. Nel mese appena trascorso ha raccolto un pari a San Siro contro il Milan e soprattutto una vittoria al Bentegodi, contro un Verona contendente a un posto UEFA, una vittoria schiacciante in cui El Kaddouri ha caricato a pallettoni le canne mozze di Immobile e Cerci tenendosi per sé la stoccata conclusiva, da sicario rancoroso e vendichevole (Verona capitava una settimana esatta dopo il Bologna). Una vittoria che ha permesso al Toro di arrivare al Derby meno depresso di quanto non sia accaduto negli ultimi anni. Ora, se siete tentati da maliziose insinuazioni, sappiate che non sto facendo tutto un discorso su El Kaddouri solo ed esclusivamente à la agent provocateur, per arrivare al fallo di Pirlo.
L'esatta pronuncia di El Kaddouri è Al Kaddouri
1. Paulo Sérgio Betanin “Paulinho”, Livorno
Paulinho nell’ultima di campionato è entrato in doppia cifra, e nel mese appena trascorso è andato a segno in tutte le partite in cui il Livorno è andato a segno. Ha messo una firma nell’importante vittoria a Cagliari e nel pareggio del Massimino contro il Catania: è fin troppo ovvio che sia lui il faro degli amaranto. Nondimeno, visto che non ho il piacere di conoscere troppo approfonditamente le sue gesta, mi è venuto in mente di chiedere a uno dei miei due amici tifosi del Livorno (contingentemente sono entrambi scrittori, ed entrambi molto bravi), che si chiama Simone Ghelli (l’altro è Alberto Prunetti), di raccontarmi "tre cose che non so di Paulinho".
In soldoni i’ Ghelli ci ha tenuto a farmi sapere che «intanto va detto che Paulinho s’è fatto tanta gavetta. [...] Anche Emerson, brasiliano dal tiro alla Zico, ha una storia simile, che se non era per Davide Nicola stava ancora al Lumezzane [...] Paulinho corre tanto, a volte fa reparto da solo, la palla dai piedi—come ogni buon brasiliano che si rispetti—difficilmente gliela togli. [...] Il suo punto forte, secondo me, è lo stop a seguire di petto, quando si accentra dalla diagonale, e tira».
Paulo Sérgio Betanin, nel 2004, gioca con la Juventude di Caixa do Sul, la città in cui è nato. Ha diciotto anni, e voglia di sfondare nel calcio del Vecchio Continente. Sostiene un provino con il Chelsea di Mourinho, che lo vede piuttosto abbattuto, lo avvicina e gli confida «hai grandi potenzialità, ma devi crederci di più». Poi si ferma in prova per una settimana all’Inter. Si allena con la Primavera, alla Pinetina: dall’altra parte del complesso sgambettano Alvaro Recoba, Adriano, Materazzi. Al suo ritorno in Brasile, viene convocato per uno stage della Seleçao Under 20. Durante una trasferta in Colombia gli arriva una proposta da parte del Livorno. Ma la proposta è in italiano, e Betanin—nonostante i nonni veneti—non capisce una parola d’italiano.
Ora: il direttore tecnico di quella Seleçao Under 20 è Cláudio Vaz Leal Branco, il terzino famoso per le punizioni turbo-missile, quello che mandò in frantumi la porta del Liverpool. Branco fa quel che ci si aspetta faccia un allenatore, un padre, un mentore: traduce, dispensa suggerimenti, snocciola aneddoti. Conosce personalmente Spinelli, che di quel Genoa dei miracoli, semifinalista UEFA nella stagione 1991-1992, era presidente. È così che nell’estate del 2005, a 19 anni, Paulinho viene tesserato dalla società labronica. È ingenuo, Paulinho, e sprovveduto: non ha neppure una macchina per andare agli allenamenti. Per questo si fa passare a prendere tutti i giorni da José Luis Vidigal. In due stagioni gioca pochissimo, segnando solo due reti: il reparto offensivo è formato da Cristiano Lucarelli, Igor Protti, e poi Palladino, Danilevicius, Bakayoko. Come fai a trovar posto? Paulinho decide allora di accettare la destinazione Grosseto, in prestito. Per raggiungere il capoluogo maremmano, per la prima volta nella sua vita, sale su un treno.
«Per farsi le ossa bisogna fare esperienza, e prendere le botte», ha detto in un’intervista. Anche i treni, a volte. Ma le botte più di tutti; e in Italia il posto migliore per prenderne di santa ragione è la Lega Pro. Ed è là che Paulinho, in quello che potrebbe apparire il nadir della sua carriera e che invece si rivelerà l’ultima curva in salita prima del discesone su cui battere in volata, finisce: in Lega Pro, con il Sorrento, spinto anche dal tecnico amaranto Ruotolo, che in Costiera ha chiuso la carriera. Sulla panchina dei rossoneri campani Paulinho incontra Simonelli, O’ Professore, un tecnico che reputa fondamentale per la sua crescita professionale. Un lunedì, dopo aver raccolto un 2-2 deludente ad Alessandria, Simonelli fa provare e riprovare, fino allo sfinimento, fino alla nausea, alcuni schemi su calcio d’angolo. La squadra non risponde come vorrebbe. «Vuje durmite, Scetammece!», grida Simonelli. In una pausa Paulinho tutto dimesso va dai compagni: «Scusate, cos’è che ha detto il mister?» Da Sorrento Paulinho è tornato a Livorno più cosciente dei suoi mezzi, più deciso. Sulle braccia si è tatuato una frase da Lettera ai Filippesi: «Tutto posso in Colui che mi dà la forza». Indossa un teschio d’argento incastonato in un filo di caucciù. «La vita la affronto così: con la faccia cattiva e il sorriso», dice. In due campagne con gli amaranto, in B, ha segnato più di trenta reti, venti nell’ultima, la stagione della risalita in A, inclusa quella nel playoff contro l’Empoli, che considera la sua rete più importante.
In estate, secondo Spinelli, Juventus, Inter, Sampdoria (il cui presidente Garrone era stato molto esplicito) e alcuni non meglio identificati club russi si erano proposti per acquisire le prestazioni del brasiliano, che però ha deciso di firmare un rinnovo fino al 2018, di legare il suo destino a quello degli amaranto.
Paulinho cercherà di salvare il Livorno dalla retrocessione. Magari ci riuscirà, magari no. Di certo, a ritagliarsi un posto tra i verdeoro per i prossimi Mondiali non ci pensa minimamente. «Brasile? Non scherziamo, sarò già felice di andare a vedere qualche partita da spettatore, visto che i Mondiali li fanno vicino a casa mia.»
"Tutto posso in Colui che mi dà la forza"
IL RUOLO DEL MESE
di Emiliano Battazzi (@e_batta)
La paura di veder scomparire il nobile ruolo del centravanti è quanto meno esagerata: è vero che ormai proliferano nuove (neanche troppo) figure calcistiche, e su tutti i campi il falso nueve attira l'ammirazione dei neofiti (eh sì, niente si inventa), eppure, ci sono più tipologie di centravanti nelle aree di rigore della Serie A che tipi di impiegati sulla Prospettiva Nevskij di metà Ottocento. Un primo tipo di centravanti che non manca e mai mancherà in Serie A è quello d'area di rigore. In quei 16 metri si possono svolgere più tipi di lavoro: ci si può nascondere dietro il centrale avversario e aspettare la possibilità di segnare un gol dall'unico pallone capitato di lì, magari per sbaglio. Perché il centravanti d'area di rigore gioca poco con la squadra e fondamentalmente deve fare gol. Più degli altri.
“Miro” Klose
Un grande esempio, forse il più grande nel nostro campionato, è Klose, centravanti tedesco con il record di gol segnati con la maglia della propria Nazionale. Nel recente Lazio-Sassuolo, Klose ha toccato il pallone per 30 volte, una in meno del portiere Berisha. E qui forse bisognerebbe ripensare al cliché sulla solitudine del portiere: certi attaccanti hanno molto più tempo libero a disposizione, durante le partite.
Fare solo 15 passaggi in una partita, e risultare decisivo con un gol
Ma il centravanti d'area, attenzione, non è inutile per la squadra: garantisce sempre la profondità, aiutando i compagni con un punto di riferimento sicuro in attacco; garantisce l’utilità dei cross dalle fasce, aiutando così ad attivare un meccanismo di gioco tutto sommato semplice. Sui cross bassi fa quella finta indietro-avanti che sembra sempre la stessa eppure finisce sempre con un gol.
Insomma, il centravanti d'area è quel giocatore che è contento solo quando segna, e che solo quando segna ha davvero fatto il suo compito. Altrimenti, sembra spesso inutile, sebbene non lo sia. Ma non capita spesso e quindi un centravanti così nella mia squadra ideale lo vorrei sempre.
L'uomo target e il valore della “spizzata”
Poi c'è quel tipo di numero 9 così classico che probabilmente era già un classico al The Oval di Londra nella prima sfida tra Inghilterra e Scozia nel 1870. In sostanza l'uomo target è il centravanti forte fisicamente, molto alto, ma non c'è bisogno che sia alto come Crouch, va bene anche qualche centimetro in meno. L'unica caratteristica tattica che condivide con il centravanti d'area è la capacità di dare profondità alla squadra, ma partecipa maggiormente al gioco.
Partecipa con la “spizzata” (credo sia un termine di origine romanesca ma ormai abbastanza diffuso): la deviazione di testa per gli inserimenti degli esterni (si dice che la “spizzata” sia oggetto di lezione a Coverciano); o addomesticando i lanci lunghi della difesa, sistemandoli, difendendo il pallone nonostante un paio di avversari aggrappati, dando modo ai compagni di rifiatare e/o di salire in avanti. Questo tipo di centravanti è capace di spostare le difese avversarie: a livello tattico, le linee difensive nemiche sono costrette ad arretrare.
Grafico Squawka: Quanto è profondo Luca Toni?
Toni e Llorente
Luca Toni è stato capocannoniere in Serie B, Serie A, Bundesliga e Coppa UEFA. Toni, però, è uno che vince spesso anche la classifica dei falli subiti e dei falli fatti. Un'altra grande caratteristica di questi grandi (in tutti i sensi) giocatori: la capacità di prendere spesso un calcio di punizione in zone avanzate del campo, regalando il tempo per rifiatare, se non un'opportunità al compagno specialista dei calci piazzati. All'età di 36 anni, Luca Toni si sta prendendo ancora molte soddisfazioni ed è il perno offensivo dell'ottimo Verona di questa stagione (13 gol e 7 assist). La dimostrazione che il target man, quando sa fare bene il suo mestiere, non conosce età (anche perché il dinamismo non è caratteristica richiesta).
Llorente spalle alla porta resiste a tutti gli avversari e pulisce un pallone per Tévez
Un altro che segna molto nonostante la mole è Fernando Llorente. Una delle abilità tipiche del target man è di giocare spesso spalle alla porta, e lo spagnolo sa farlo molto bene. Può sembrare una cosa da niente, ma non deve essere facile giocare spalle alla porta, e provateci voi magari a scrivere spalle al monitor o fare qualunque cosa di spalle. A livello tattico, Llorente ci fa vedere come si comporta un target man con un compagno d'attacco: i movimenti sono quasi sempre inversi (se Tévez arretra, Llorente allunga), ed è spesso Tévez ad avvicinarsi allo spagnolo una volta che questi è in possesso della palla. Insomma, è facile andare d'accordo con un target man.
Le mosse del “Gila”
In Serie A non ci facciamo mancare niente, ed ecco anche il centravanti manovriero: un numero 9 dal grande fiuto per il gol ma con una spiccata attitudine alla costruzione di gioco in fase offensiva. Di solito svaria su tutto il fronte d'attacco, e preferisce giocare da unica punta: l'esponente principale di questa corrente calcistica è Alberto Gilardino.
Il movimento del “Gila” su tutto il versante d'attacco è spesso funzionale agli inserimenti dei centrocampisti e ai tagli degli esterni. Oltre a creare profondità per gli altri, spesso la crea per se stesso: la sua presenza in area di rigore è una garanzia per mantenere alta la squadra, oltre che per spaventare la difesa avversaria, vista la percentuale realizzativa.
Grafico Squawka: Gilardino svaria su tutto il fronte d’attacco, non è uno scherzo.
La sintesi: Gonzalo Higuaín
Non è manovriero come Gilardino, ma si sta adattando al ruolo che gli chiede Benítez nel suo 4-2-3-1: Higuaín, forse il numero 9 più forte della Serie A, da sempre una punta molto mobile ma mai utilizzato come unico punto di riferimento. Si trova già a suo agio, il Napoli non riesce a farne a meno, e i suoi 13 gol e i suoi 7 assist spiegano il perché. La capacità di Higuaín di aprire spazi per i tagli degli esterni (spesso Callejón e Mertens) è una benedizione per Benítez; occupa sempre la profondità, ma allo stesso tempo si avvicina al limite dell'area per dialogare negli spazi stretti con le 3 mezze punte. Insomma, Higuaín sa fare tutto e bene, e rappresenta una sorta di evoluzione del centravanti, che riesce a svolgere più compiti in fase offensiva. L'ennesimo attaccante di qualità nella storia della Serie A, una garanzia anche per il futuro: il ruolo del centravanti si modifica, ma il numero 9 non sparirà mai.
I PEGGIORI TWEET DEL MESE
di Matteo Gagliardi (@stai_zitta)
È il primo mese senza #PSHRIP, non è stato facile. I calciatori su Twitter non ci hanno di certo aiutato, alcuni anzi hanno aggiunto al cordoglio anche il dolore dei loro tweet. A febbraio ne ho raccolti talmente tanti che sono stato costretto a lasciare fuori vere trenodie disperate: le peppe pig di Nainggolan ad esempio, ritwittate per caricarsi poco prima del derby, il grido d'aiuto di Asprilla e l'inglese maccheronico del XV secolo di Ser Brunetto Cirillo (a quelli che stanno per chattare "Ma dai si è sbagliato, quanto sei..." da bravi). Come ormai i nostri lettori sapranno alla fine dell'anno sarà consegnato il premio in memoria di Totò Fresi. Soltanto per questo febbraio però il premio lo chiamerò "Toldod'oro". È una scusa, per godere insieme di questa perla fuori mese.
5. Dopo due mesi di silenzio Mitra Matri ritorna a twittare. Questo.
4. Don Baronio e l'immortalità.
3. George ha "aperto un nuovo social per imprenditori", anche se non sa usare uno smartphone.
2. Bello de mamma.
1. Per tutti quelli che dicevano che Riccardo Meggiorini era un complottista.
IL GIOCATORE NBA DEL MESE: KEVIN LOVE
di Dario Vismara (@Canigggia)
«Non ho molta pazienza. Nella mia situazione non l’avreste neppure voi. Tutti i giocatori che ci sono qui giocano con altri grandi giocatori, ed è dura vedere che c’è gente—sia più giovane che più vecchia di me—che ha giocato nei playoff. Quando iniziano a parlarne, io non ho nulla da poter dire. Se non faccio i playoff l’anno prossimo non so cosa succederà.» Quando Kevin Love ha fatto queste dichiarazioni era il luglio del 2012, durante il raduno della Nazionale USA che si preparava a vincere l’oro alle Olimpiadi di Londra. Negli ultimi due anni la situazione è rimasta la stessa: i suoi compagni di Nazionale hanno continuato a vincere (tutti andati ai playoff nel 2013 tranne il rookie Anthony Davis) e lui nel frattempo è rimasto a guardare, leccandosi le ferite per un’altra stagione buttata a causa di due infortuni alla mano destra.
Quest’anno doveva essere “l’anno buono”, con i suoi Timberwolves sulla carta migliorati in estate con l’arrivo del tiratore Kevin Martin e dell’ala Corey Brewer, e con sbandierate ambizioni di playoff a inizio anno. Non è andata proprio così: senza neanche accorgersene i T’Wolves si ritrovano ora 10° a Ovest, a 5 partite e mezza di distanza dall’ottavo posto—un’enormità a questo punto della stagione—pur avendo un record superiore al 50% di vittorie (30-29), che ad Est sarebbe ampiamente buono per il sesto posto.
E Kevin Love? Lui semplicemente sta facendo una stagione mostruosa. Nelle nove partite del mese di febbraio, davanti alla prospettiva di un altro anno della sua carriera sprecato con una squadra impantanata in mezzo al guado, ha viaggiato a 34 punti, 14 rimbalzi e 4 assist di media col 49% dal campo, il 41% da tre su 7 tentativi a partita e l’85% ai liberi, sfiorando il 60% di percentuale “reale” (che tiene conto del diverso peso di tiri da due, tre e liberi). Praticamente Steph Curry incrociato con Dwight Howard. In stagione le sue cifre parlano di 26 punti, 13 rimbalzi e 4 assist, numeri che in NBA non si vedevano da quasi 40 anni, quando l’ultimo a farli fu un tale chiamato Kareem Abdul-Jabbar. Quando Love è in campo l’attacco di Minnesota vola (109,1 punti su 100 possessi) e la difesa migliora (102,1), mentre quando siede l’attacco precipita (94,3, sarebbe ultimissimo in NBA) e la difesa peggiora leggermente (103,7).
Come è possibile allora che un giocatore del genere, così immarcabile, così forte, così mostruoso nella sua produzione offensiva, non sia mai andato nemmeno vicino a giocare i playoff? La risposta semplice sarebbe “perché deve giocare con altri quattro in campo”, ma non è così facile: si dice spesso che il problema dei T’Wolves sia difensivo, ma non vanno così male nella loro metà campo (102,5 punti concessi su 100 possessi, appena fuori dalla top 10) e hanno un differenziale tra efficienza offensiva e difensiva di +2,6—tutte e 11 le squadre sopra di loro per differenziale andranno ai playoff, e ce ne sono altre cinque sotto di loro, alcune di parecchio come Charlotte (-2,3). Certo, le stagioni di alcuni giocatori—Ricky Rubio su tutti—non sono state di alto livello e forse mancano i giusti veterani all’interno dello spogliatoio, ma come squadra i T’Wolves non sono così scarsi, e hanno un grande allenatore in panchina come Rick Adelman.
Dove sta allora il problema dei T’Wolves? Semplice, sono pessimi nelle partite punto a punto: quando si trovano con uno svantaggio entro i 5 punti o pari negli ultimi 5 minuti di partita, il loro record stagionale è di 3 vittorie e 19 sconfitte. Ed è qui che Love mostra le sue debolezze: con il punteggio entro i cinque punti di scarto (sopra o sotto), tira solo con il 37% dal campo (21/57) e, per qualche strano motivo, con il 58% ai liberi (14/24), oltre ad avere un plus-minus di -50.
Forse—al netto dei suoi problemi difensivi che non tratteremo in questo spazio—Kevin Love è proprio questo: un giocatore mostruoso per 43 minuti a partita che o riesce a far vincere i suoi in quei minuti oppure è incapace (per limiti individuali, o di leadership, o di squadra) di trascinare i suoi compagni nei minuti decisivi. Uno che, come piace dire agli americani, “non è clutch”. Però queste etichette lasciano sinceramente il tempo che trovano: lo dicevano di Dirk Nowitzki prima del 2011, lo dicevano di LeBron James prima dei due titoli, lo dicevano—soprattutto—di un altro meraviglioso Kevin passato da Minnesota, ovvero Kevin Garnett. Anche lui, come il Kevin attuale, è rimasto intrappolato per anni in una squadra mediocre (anche se lui ai playoff ci andava, e nel 2004 pure in finale di conference) senza la possibilità di vincere il titolo pur essendo ampiamente uno dei primi 10 giocatori della Lega.
Probabilmente anche Love dovrà andarsene per riuscirci, magari proprio a Boston come KG (dura ma non impossibile), magari nella natia California per rinverdire i fasti dei Los Angeles Lakers (come ormai si vocifera da anni), magari da qualche altra parte visto che chiunque farebbe carte farse per averlo—ed è l’unica superstar attualmente sul mercato insieme a Carmelo Anthony, visto che nel 2015 può uscire dal suo contratto con Minnesota. Quale che sia il suo destino, quello che è certo è che Kevin Love è uno da questi palcoscenici qui: uno da Celtics, uno da Lakers, uno da grandi partite di playoff e instant classic su YouTube. Uno che gioca così si merita questo tipo di opportunità, non di trascinare una squadra a un record di 42-40 ed un’eliminazione al primo turno.
Forse, per il bene suo e dei Timberwolves, sarebbe meglio pensare di procedere in direzioni diverse, già da questa estate.
LE STORIE STRAPPALACRIME DEL MESE
di Fulvio Paglialunga (@FulvioPaglia)
1. Joseph Minala
Certo, Eriberto-Luciano poteva risparmiarsela. E Taribo West si è ricordato tardi. Truccare sull'età, voglio dire, è capitato altre volte. Però a un certo punto diventa uguale ai neri con il ritmo nel sangue: basta poco e diventa tormentone, fastidioso, di stereotipi e battutacce. La storia di Joseph Minala è emblematica: ha 17 anni o 42? Di certo ha una storia meno raccontata: quella del ragazzo camerunense partito per giocare a pallone e arrivato a Termini senza trovare il procuratore che gli aveva promesso di fargli spazio nel calcio italiano, ripartendo da una casa famiglia e dalla Vigor Perconti. Si è solo parlato della foto, quella con i due pollici alzati e la mano sinistra fasciata.
E poi allusioni: come fa ad avere 17 anni? E giù di fotomontaggi, anche volgari. E la foto con Di Natale.
I giornali, come troppo spesso, campano di ironia del web e come sempre il web non è migliore dei bar in cui si ciarla di pallone. È uguale, solo che questo bar è più affollato. Nella battaglia a chi è più greve valeva tutto. Anche la sua presunta confessione a un giornale senegalese che peraltro poi ha rimosso la pagina. Pure il trattato medico su come si potrebbe calcolare l'età e mancava poco che chiedessero di tagliarlo per contare i cerchi come si fa con gli alberi.
Minala si è difeso con un tweet:
La Lazio si è difesa con un comunicato, lui intanto segna, nella Primavera della Lazio e, comunque, vorrei avere la sua agilità a 42 anni, se fosse vero.
2. Samule Eto'o
Sullo stesso filone si è messo Mourinho, con Eto'o, in un fuori onda della rete televisiva francese Canal Plus. «Ho una squadra ma non ho attaccanti. Il nostro problema è che ci manca un cannoniere. Ne ho uno, Eto'o, ma ha 32 anni, o forse 35, chi può saperlo. In queste condizioni non possiamo vincere la Premier.»
Momento gossip e vai con la parrucchiera sua ex che dice di aver saputo da un amico di Eto'o (che fa molto “mi ha detto mio cugino”) che di anni ne ha quaranta. Fino alla risposta di Eto'o. Definitiva: «Io sono Samuel Eto'o e per fortuna continuo a segnare a 35-36 anni, giusto? Ho fatto tre gol al Manchester United e penso che da molto tempo non capitava a un giocatore del Chelsea, io ci sono riuscito a 36-37 anni».
Controllo i documenti, fra poco io compio 37 anni. Giuro che è vero: nel classificone di marzo lo metto.
3. Sol Campbell
Di pregiudizio in pregiudizio, a cavallo tra febbraio e marzo (di striscio, nel classificone), Sol Campbell ci ha messo del suo. «Non sono mai stato capitano della Nazionale inglese perché sono nero», ha scritto nella sua biografia anticipata dal Sunday Times. «Ero in possesso di credibilità, carisma, bravura e dell'esperienza adatta per essere il capitano della Nazionale inglese, come del resto già lo ero dell'Arsenal. Credo che sarei stato capitano dell'Inghilterra per oltre un decennio se fossi stato bianco.» Ora, più una biografia fa parlare nelle anticipazioni più magari vende e allora meglio sparare alto. Altissimo. Alla Friedman, svelando retroscena postumi e posticci. E qui la sensazione è che tutto sia marketing. O che comunque Campbell abbia sbagliato a farne una questione personale. Quella può essere smontata un minuto dopo da Paul Ince, il primo nero a indossare la fascia di capitano della Nazionale inglese. «Non avrebbe potuto essere capitano della Nazionale per dieci anni. Nessuno lo è stato.» Alla prossima, Sol.
4. Gli under 20 del Congo
Erano in ritiro a Roma con la propria Nazionale dopo essersi messi in mostra al Viareggio, uno di 16, l'altro di 17 anni. Il 23 febbraio non sono tornati in albergo. In fuga dal calcio (o attraverso il calcio) per essere in fuga dal Congo-Brazzaville. Piano di fuga concordato su Facebook, un modo per non rimpatriare. Non ci sono altre notizie, non ne ha nemmeno il selezionatore, peraltro italiano, Paolo Berrettini. C'è che il calcio, per loro, è un trampolino per la libertà. E nessun altro giudizio da aggiungere.
5. Il 61' dei tifosi del Trabznospor e il bello del calcio tradizionale
Accade sempre, ma la partita del Trabznospor a Torino, con la Juve, ce lo ha fatto vedere. Al minuto 61 (per i moderni, 16' del secondo tempo), quando i turchi giocano, succede questo:
Qualunque sia il risultato, qualunque sia la partita. Al momento del video, infatti, il Trabznospor perdeva 1-0, non c'era nulla da festeggiare. Eppure via, fumogeni, petardi e casino perché così i tifosi ricordano l'anno 1461, quando l'Impero di Trebisonda (Trabzon, in turco), custode dell'eredità bizantina, cadde in mano ai Turchi Ottomani dopo la quarta crociata. Fu Maometto a stringere d’assedio la città che si arrese il 15 agosto. Così finì l'Impero Romano d'Oriente e iniziò la dominazione ottomana nella penisola anatolica.
Non è il primo minuto simbolo, però non sono molti quelli che hanno ragione storica. Lo era il 19' dei tifosi dell'Aston Villa, tributo in vita alla battaglia di Stan Petrov contro la leucemia, con il Villa Park in piedi ad applaudire il suo ex numero 19. Ad agosto Petrov ha chiesto ai tifosi di terminare il rito: «Tutti dobbiamo andare avanti» e a settembre ha vissuto il giorno più intenso, con il "You'll Never Walk Alone" cantato dai tifosi del Celtic mentre lui era in campo, per l'omaggio, con i figli.
Sono solo motivi sportivi quelli alla base del 71' dei tifosi della Lazio. È il minuto del gol di Lulić, nella finale di Coppa Italia del 26 maggio, giorno che ha spaccato la Capitale. E in ogni partita, parte il coro.
L'EVENTO DEL MESE NEL TENNIS
di Fabio Severo (@FabSevero)
L'evento tennistico del mese è stato ovviamente la vittoria di Roger Federer a Dubai, dove ha battuto Novak Djokovic in semifinale e Tomas Berdych in finale, recuperando in entrambe le partite da un set di svantaggio. Rispetto all'anno scorso, dove qui aveva perso in semifinale contro lo stesso Berdych (mancando tre match point) e in tutta la stagione aveva vinto il solo torneino sull'erba di Halle, la differenza salta agli occhi. Ancora più significativo è che dall'inizio della stagione Federer in due mesi ha già battuto quattro giocatori top 10, lo stesso numero di vittorie d'élite fatte in tutto il 2013. Le ragioni sono note: la schiena non fa più male, il nuovo racchettone in linea con la tecnologia odierna è stato messo a punto e Roger stecca di meno e serve molto bene. Quello che si è visto contro Djokovic in particolare è una mobilità che non aveva da tempo, una grande disponibilità a lanciarsi negli spostamenti laterali, soprattutto sul dritto, che è la prima fase del suo gioco che si sfalda quando le cose non funzionano. Federer invece ha coperto il fondocampo con grande spensieratezza, supportando il suo gioco offensivo con una difesa generosa, a tratti spericolata nei recuperi, creando quella base necessaria per mettere in moto il suo gioco di transizione in avanti senza dover affrettare il colpo vincente, concedendosi una preparazione più lunga dell'attacco nell'economia del singolo scambio. Un discreto numero di discese a rete, il dritto (il catalogo di dritti a disposizione) velocissimo, il rovescio in slice a variare lo scambio con una naturalezza che fa rimpiangere l'intelligenza di questo colpo così poco praticato, di cui Federer è ormai espressione quasi unica: se ci fosse una classifica a punti dell'esecuzione del taglio sotto la palla col rovescio, la differenza di qualità di esecuzione con qualsiasi altro giocatore sarebbe imbarazzante. Sia con Djokovic che con Berdych Federer è partito dietro, subendo l'avversario e colpendo non molto bene, come se avesse bisogno di un po' di tempo per centrare il gioco: interessante è stato però il modo in cui sbagliava, una voglia di provare i colpi diversa dall'imballamento in cui a volte cade, una fiducia nel provare fino a riuscirci, come sicuro di avere il tempo di completare la messa a punto per giocarsi la partita.
Curiosamente, a 14000 km di distanza il giocatore a lui più simile completava impresa analoga, vincendo un torneo dopo diverse partite molto tirate: Grigor Dimitrov ha vinto ad Acapulco dopo quarti, semi e finale finiti tutti al terzo, con cinque tie-break giocati su nove set, tutti vinti. Per anni è stato chiamato "Baby Fed" per il suo stile estremamente simile a quello di Federer, ma i risultati lo stavano ormai facendo diventare un giocatore-orpello destinato all'ininfluenza: impatto con la palla molto simile al Maestro sia sul dritto che sul rovescio, analogo movimento del servizio, in apparenza lo stesso gioco aggressivo. Ma il gioco delle similitudini finisce presto, prolungato solo dalla voglia di reincarnare Federer all'infinito: i colpi di Dimitrov nel tempo sono apparsi fragili, il dritto spesso esagerato, il rovescio che si piega troppo presto nello scambio, la testa che non tiene. Sprazzi di gioco eccezionale, e allora si comincia a buttar lì il nuovo nick Showtime, affascinati da una fluidità di movimento e da un talento puro, anche se male accompagnato. Nella sempre più lenta maturazione fisica dei tennisti ormai i teeenager non riescono più a essere atleticamente pronti per giocare al top, e solo dopo i venti si comincia a vedere quella tenuta del corpo che permette lucidità di esecuzione per tutte le tre, quattro, cinque ore necessarie a vincere una partita. Ancora l'anno scorso Dimitrov, ormai ventunenne e nei primi trenta del mondo, magari finiva al terzo set con i crampi oppure andava in confusione non sapendo gestire il vantaggio, come quando in due incontri diversi, contro Djokovic e contro Murray, trovandosi a servire per il primo set ha commesso tre doppi falli ciascuno, perdendo poi set e incontro. Ad Acapulco ha giocato forse per la prima volta più partite in sequenza sommando qualità tecnica, tenuta fisica e mentale in misura uguale, trovando una velocità di crociera più alta, andando oltre un gioco che in passato era semplice somma di exploit sconnessi.
La crescita di Dimitrov fa felici tutti coloro che vogliono il cosiddetto talento cristallino al centro del tennis, in più rende la transizione verso l'addio di Federer meno traumatica. Le differenze sono però ancora molte, e forse lo saranno per sempre. Basta guardare i due punti più belli che rispettivamente hanno giocato nei due tornei il maestro e l'allievo: a Dubai Federer nel primo set contro Djokovic ha giocato uno scambio di 26 colpi quasi tutto in difesa e schiacciato nell'angolo del rovescio, da cui è uscito con un pallonetto di controbalzo e a seguire stop-volley vincente, una meraviglia dove sembra non fare un singolo passo superfluo; Dimitrov nella semifinale contro Murray tiene un turno di servizio con uno scambio di uguale durata, dove i due si allungano e accorciano le traiettorie in modo interlocutorio, fino a che Dimitrov non cerca la rete e colpisce in semi-tuffo, poi le corse riprendono fino a che con un altra volée, stavolta a campo vuoto, Grigor chiude il punto e si esalta. Qui lo scambio appare confusionario, proseguito con varie prodezze difensive da entrambe le parti, e Dimitrov prevale anche grazie a spaccate e scivolate tipiche di un giocatore giovane, spinto dalla foga di non perdere il punto. Una generosità disordinata che non esiste nel movimento di Federer, che mai farebba una spaccata e mai si tufferebbe, perché per lui la palla non va rincorsa, semmai va anticipata. Il tempo dirà se Dimitrov crescerà ancora nel suo modo di stare in campo, se riuscirà davvero a smentire tutti quelli che pensano che il suo stile non sia in grado di arrivare alla cima del gioco contemporaneo. Tutti vorrebbero che Dimitrov prendesse il testimone da Federer, come lui idealmente fece nel 2001 battendo Sampras negli ottavi di Wimbledon, nel loro unico confronto diretto. Per ora anche Federer e Dimitrov hanno giocato una sola volta, a Basilea lo scorso ottobre, dove Roger ha vinto in due set. In alcuni momenti della partita sembra davvero di guardare un solo giocatore davanti allo specchio, e non è una brutta sensazione.
LE INTERVISTE DEL MESE
di Francesco Costa (@francescocosta)
1.Daniele De Rossi intervistato da So Foot
«Di solito finisco a giocare a carte con gli anziani.»
Un’intervista enorme, lontanissima dallo standard delle interviste ai calciatori. I passaggi e i racconti degni di nota sono moltissimi, da quelli personali (l’adolescenza al liceo, il rapporto con Ostia, la vita a Campo de’ Fiori, la morte del suocero) a quelli sportivi. Quando racconta di aver visto un video con tutti i gol di Totti e di essersi riconosciuto più volte tra i raccattapalle che gli corrono dietro che tra i compagni. Quando racconta di cosa significava vedere Batistuta nello spogliatoio («Necessariamente a un certo punto ho cominciato a parlargli, a ridere con lui. Ma non ho mai considerato questo come una cosa normale»). Quando racconta del momento in cui ha saputo che Garcia avrebbe allenato la Roma («Mi rivedo ancora col computer sulle ginocchia e questo tizio con la chitarra. Ero in camera con Pirlo, gli mostrai la cosa e dissi: «Guarda chi cazzo abbiamo preso?!»). E poi alla fine, quando racconta la cosa forse più amara di tutte: il prezzo pagato per soddisfare il suo desiderio di restare a Roma. «Viaggiare mi ha sempre affascinato. Scoprire altre città, imparare altre lingue è qualcosa che mi manca un po’. Avrei voluto avere la carriera che hanno avuto certi miei colleghi: due anni qua, due anni là, conoscere la Germania, l’Inghilterra, la Spagna… Questo deve arricchirti enormemente.» Basta avere un briciolo di curiosità intellettuale e un briciolo di empatia per capire cosa significa, poterlo fare, volerlo fare e non farlo.
2.Roberto Carlos intervistato da Luca Bianchin per la Gazzetta dello Sport
«Abbiamo tutti un lato infantile.»
Matto come un cavallo. Ha otto figli «da sei o sette madri diverse»; non se le ricorda o fa finta di non ricordarselo, non so cosa è peggio («Allora... una era messicana, una ungherese, le altre brasiliane. Quattro più due, sei»). Racconta di quando aveva un elicottero e del garage in cui tiene la macchina più veloce del mondo, ma dice soprattutto due cose interessanti. La prima: ammette che nella storica punizione tirata contro la Francia nel 1997 ci fu parecchia fortuna. «Mai capito come mi è uscita. Usavo scarpe strette, e di sicuro hanno aiutato. Il pallone era molto leggero, e ha aiutato. La mia coscia sinistra ha una circonferenza di 64 centimetri, e anche quello c'entra. Però il tiro con le tre dita l'ho provato mille volte. Non mi è mai più riuscito». La seconda: è Eto’o—dice—che ha sfasciato l’Anzhi di Makhachkala. «Non ho niente contro di lui però Samuel vuole controllare tutto. Se ci sono un allenatore e un direttore, non puoi parlare con il presidente per decidere.» Oggi Roberto Carlos allena il Sivasspor, in Turchia. L’anno scorso la squadra arrivò dodicesima. In questo momento è quarta. Aneddoto che potete rivendervi con gli amici: ci gioca Cicinho, e sembra pure bene.
3.Nicklas Bendtner intervistato da Amy Lawrence sul Guardian
«Ho parlato con dei club che dicevano di aver sentito delle storie su di me.»
Sostanzialmente Bendtner ci tiene a far sapere soprattutto che non è uno psicopatico e che le squadre possono fidarsi di lui. Riassunto delle puntate precedenti: nel 2009 lo fotografarono con la cintura slacciata appena uscito da un night club, la sera della sconfitta dell’Arsenal dal Manchester United in semifinale di Champions League; un anno fa fu arrestato per guida in stato di ebbrezza; a novembre è stato arrestato di nuovo per aver sfondato la porta della piscina e palestra condominiale durante una notte con gli amici. Gli anni all’Arsenal sono stati un fallimento, quello al Sunderland pure, quello alla Juventus pure. Ora è tornato all’Arsenal ma praticamente non gioca mai e nell’intervista si parla apertamente del fatto che sta cercando una squadra e non la trova. È triste e un po’ disperato e non lo nasconde, nemmeno quando dice che la sua fiducia in se stesso è intatta: d'altra parte, cos’altro dovrebbe dire.
4.Gabriele Oriali intervistato da Luca Calamai sulla Gazzetta dello Sport
«Chi è dentro è coinvolto al 110%.»
La Gazzetta ha intervistato Oriali—dirigente dell’Inter dal 1999 al 2010—in corrispondenza con la partita di Champions League tra Chelsea e Galatasaray, Mourinho contro Mancini, avete capito. Non so se la metto in classifica più perché sono ossessionato da Mourinho o più perché sono ossessionato da Sneijder, probabilmente tutte e due. Perché l’ultima risposta di Oriali mi ha impressionato—non conoscevo la storia—e perché non si è mai più visto Sneijder giocare con continuità ai livelli dell’unico anno in cui ha giocato con Mourinho. «Una volta gli disse: “Ti vedo stanco, vai tre giorni al mare con tua moglie”. Wesley pensava a uno scherzo. Invece era tutto vero. Sneijder andò tre giorni in vacanza a Ibiza e quando tornò ricominciò a fare miracoli. L’olandese disse: “Sarei pronto a uccidere e a morire per Mou”. Lo Special One ha restituito al calcio il miglior Sneijder».
5.Arrigo Sacchi intervistato da Giacomo Luchini per Repubblica
«I passaggi sono una merce rarissima.»
«Il pallone è uno sport che si dovrebbe giocare con la testa, non con i piedi. Anni fa ho girato uno spot con Marchisio e Boateng. Le evoluzioni tecniche di cui i due si rendevano protagonisti in realtà erano opera di un calciatore freestyle che militava in Promozione. La tecnica fine a se stessa non basta.» Questa frase invece già basta, no? Per il resto non c’è molto altro di letterario, ma un’analisi piuttosto franca sullo stato dei settori giovanili di nazionale e di club in Italia.