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Il classificone di fine stagione
21 mag 2014
21 mag 2014
Il campionato è finito, tutto il resto è classifica: il gol più bello, le esplosioni, i bidoni, le storie strappalacrime, le statistiche scomode, il ruolo in campo e i peggiori tweet della stagione 2013-2014.
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IL GOL DELL'ANNO di Daniele Manusia (@DManusia) Il classificone de l'Ultimo Uomo esiste dallo scorso novembre e si ferma allo scorso marzo. Cinque classificoni in tutto. Io però devo scegliere il Gol dell'Anno anche tra quelli rimasti fuori per ragioni temporali, tra i gol segnati a settembre e ottobre e quelli di aprile e maggio. Nel primo classificone per un bisogno di completezza avevo già scelto alcuni dei gol di settembre e ottobre per una decima posizione simbolica. Tra i gol presi in considerazione c'erano il pallonetto da trenta metri di Pjanic in Roma-Hellas, il collo al volo elegante di Gilardino in Genoa-Fiorentina e i dribbling assurdi sulla linea di fondo di Ibarbo in Catania-Cagliari; ma alla fine avevo scelto il primo gol in Serie A del difensore brasiliano trentatreenne Emerson in Livorno-Torino. Mi sembra giusto, quindi, far rientrare questo nello sprint finale. Anche se devo ammettere che a posteriori preferisco il gol che Emerson ha segnato contro il Cagliari; a febbraio però quel gol è arrivato terzo e ormai non posso farci niente. Le classifiche sono per forza di cose ingiuste. Tra aprile e maggio, complice il normale calo di fine stagione e alcune partite con difese più rilassate rispetto al solito, l'assenza di pause per la Nazionale e un recupero infrasettimanale, sono stati segnati 215 gol, sempre se non sbaglio a fare i calcoli. Per fortuna ogni lunedì mi guardo tutti i gol a colazione e mi segno quelli che possono entrare in classifica. Sul mio taccuino sono finiti 16 gol, il che significa che solo il 34,4% dei gol segnati tra aprile e maggio era un bel gol (ovvero è finito sul mio quaderno). Non è una statistica particolarmente illuminante sulla qualità del campionato, ma sulle mie colazioni sì. Adesso tra questi 16 ne scelgo 4 (perché in effetti sono molto belli) per andare a formare insieme a quello di Emerson e ai primi classificati di ogni classificone una lista di 10 gol tra cui decidere il Gol dell'Anno. Le classifiche non saranno giuste, ma almeno ho un metodo. https://www.youtube.com/watch?v=vtskILpKWwU

Questo di Miccoli è il Gol dell'Anno Scorso.

Il primo dei 4 gol scelti per arrivare alla lista finale è quello di Alessio Cerci contro il Genoa. La qualità delle sue corse anche molto lunghe non si discute, così come la capacità di tiro che gli permette di essere pericoloso da più zone di campo (a proposito, Cerci dribbla meno di quello che si possa pensare, è ventesimo in Serie A con 1,7 dribbling a partita, per dire meno di Fetfatzidis). Adesso però, senza nulla togliere al Torino di Ventura, mi piacerebbe vederlo (e non credo di essere l'unico) in una squadra con più giocatori del suo livello con cui dividersi compiti e occasioni. (Il gol di Cerci esclude altri due tironi da fuori: quello di Icardi contro il Bologna (praticamente da fermo) e quello di Mertens contro la Lazio.) Il secondo gol è quello di Pjanic contro il Milan, anche se devo dire subito che se mi piace molto la sterzata con cui si libera di Montolivo mi piace meno il fatto che Pjanic perda il contatto con il pallone, e un difensore più mobile di Rami sarebbe probabilmente arrivato al contrasto anziché fare quella cosa strana. Al tempo stesso, la roba scoordinata di Rami è parte dell'estetica di questo gol (e anzi, per questo esclude altri due gol in cui conta molto l'imbarazzo del difensore: quello di Higuaín contro la Lazio con tunnel sul controllo a Novaretti; e quello di Toni contro l'Atalanta che nasce da un tunnel di Iturbe a Yepes – e il tunnel a Yepes, o anche cano à Yepes, è un tradizione argentina inaugurata dal famoso colpo di suola di Riquelme con cui la fa passare sotto le gambe del povero colombiano durante il Superclasico Boca-River). Poi ci sono il gol di Brienza contro il Milan, con una traiettoria perfetta e un rapporto forza/distanza notevole, e quello di Di Natale contro il Verona. Sarebbe stato bello se questa complicata mezza rovesciata, con stop di interno e piroetta, fosse rimasta come l'ultimo gol nella carriera di Di Natale ma lui ha preferito chiudere con una tripletta alla Samp. (Ho preferito questa raffinatezza acrobatica alla rovesciata di Leto contro la Samp che tocca terra con la violenza di uno smash.) http://www.dailymotion.com/video/xzlyov_udi-2-1-sam_sport#.UZ23-kKgNrN

Di Natale ha segnato moltissimi gol stupendi in carriera ma se chiudo gli occhi e penso “Di Natale” il motore di ricerca del mio cervello tira fuori questo delicato tocco in controbalzo. È un gol dello scorso anno ma pensavo fosse giusto mostrarvelo.

Adesso, aggiungendo i cinque gol arrivati in cima alla classifica di novembre, dicembre, gennaio, febbraio e marzo, abbiamo una la lista completa, per quanto profondamente ingiusta. Ricapitolo con i link così se volete potete guardarli. Emerson Ramos Borges. 30 ottobre. Livorno-Torino 3-2 (finale 3-3). Alessio Cerci. 13 aprile. Torino-Genoa 2-1. Miralem Pjanic. 25 aprile. Roma-Milan 1-0 (finale 2-0). Franco Brienza. 11 maggio. Atalanta-Milan 2-1. Antonio Di Natale. 10 maggio. Verona-Udinese 2-1 (finale 2-2). Paul Pogba. 10 novembre. Juventus-Napoli 3-0. German “El Tanke” Denis”. 8 dicembre. Verona-Atalanta 0-1 (finale 2-1). Alessandro Lucarelli. 6 gennaio. Parma-Torino 2-1 (finale 3-1). Mario Balotelli. 14 febbraio. Milan-Bologna 1-0. Lorik Cana. 2 marzo. Fiorentina-Lazio 0-1. Non la faccio tanto lunga perché di questi gol ho parlato nei classificoni passati e la differenza è che se ogni classificone ha il suo contesto e dipende anche dallo stato d'animo in cui mi trovo quel mese, in questo caso devo scegliere il Gol dell'Anno quindi le chiacchiere stanno a zero. Devo scegliere il gol in assoluto più bello. Quello che in un ideale classificone del 2053 festeggiando i 50 anni de l'Ultimo Uomo sarà bello ricordare come il primo Gol dell'Anno. Sono indeciso tra il gol di Balotelli e quello di Pogba. Si tratta di due prodezze quasi equivalenti per bellezza e unicità. Quello di Balotelli è più assurdo ed esprime bene il nervosismo capace di momenti di luminosità assoluta di Balotelli. Riguardarlo mi mette in uno stato euforico e ansioso come guardare un film o una serie tv in cui gli scrittori mettono il protagonista in una qualche situazione terribile solo per il gusto di tirarlo fuori con qualcosa di incredibile. Nel carillon di Pogba invece c'è una perfezione più universale, calma, Pogba è perfettamente al centro tra un eventuale Paradiso e la terra in cui i palloni della Nike sottostanno alle leggi della fisica. Anche il fatto che non si capisce se sbaglia lo stop o se la alza apposta comunica un'ideale armonia tra un gesto unico ed eccezionale e una soluzione a un problema pratico, tra quello che possiamo fare e quello che va fatto. Il Gol dell'Anno è quello di Pogba contro il Napoli nella partita di andata. Adesso, se non siete d'accordo, sbizzarritevi nei commenti o minacciatemi al telefono.

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LE ESPLOSIONI E I BIDONI DELL'ANNOdi Fabrizio Gabrielli (@conversedijulio) Prima di snocciolare quella che è la mia personalissima classifica dei “botti”, cioè delle esplosioni, e dei “tonfi”, cioè quei pùnfete di miccetta che ti colgono impreparato quando invece t’aspettavi detonazioni di bomba a mano (tonfo è qua sinonimo di bidone, ma senza cattiveria o sarcasmo), devo fare una premessa. In stagioni come quella appena trascorsa, stagioni che precedono una Coppa del Mondo, il “botto” è vero solo se quando si disperde la nuvola di fumo c’è una convocazione in Nazionale; alternativamente, non è. Allo stesso modo, se una stagione fallimentare presenta la possibilità di riscatto internazionale, beh, non si può definire horribilis del tutto. Nell’assegnazione dei posti sul podio ho tenuto conto soprattutto di questa discriminante: tanto più una convocazione è inattesa, tanto maggiore è il “botto”. Tanto più una mancata convocazione coglie di sorpresa, tanto più scomposto è il “tonfo”. Spero d’essere stato chiaro, e non troppo severo. Iniziamo. #esplosioni3. Giacomo Bonaventura, Atalanta. Non è rientrato nei trenta preconvocati da Prandelli, quindi con l’ultima giornata di campionato si è conclusa la sua stagione: “Qua finisce l’avventura / del Signor Bonaventura” (e non solo non c’era un biglietto aereo per il Brasile ad attenderlo, ma neppure un milione). Giacomo detto “Jack”, venticinque anni, dovrà aspettarne almeno altri quattro, per cercare di essere protagonista a una rassegna iridata: ammesso e non concesso che sappia confermarsi ai livelli (altissimi) di questa stagione. A cavallo tra marzo e aprile (esattamente il periodo in cui Prandelli lo ha voluto con sé per i suoi stages di preparazione al Brasile) l’Atalanta non solo non ha perso, ma ha anche inanellato quattro vittorie di fila e giocato un gran bel gioco d’attacco: inutile sottolineare come—soprattutto a Milano, contro l’Inter, dove ha realizzato una doppietta—il mattatore sia stato proprio Bonaventura. Nello schema d’attacco di Colantuono di quest’anno, il compito del giovane italiano e di Maxi Moralez, è stato quello di infilarsi negli spazi lasciati liberi da un Denis boa centrale, rimorchiatore delle difese avversarie, deus-ex-machina, per accentrarsi e arrivare al tiro. Finché ha funzionato, quando ha funzionato: ha funzionato a meraviglia. Non sarà stata la sua stagione più prolifica, ma di sicuro quella in cui ha più brillato, e uno ha finito per associare il suo nome a quello dell’Atalanta. Nove su dieci, peraltro, è stata l’ultima all’Azzurri d’Italia.

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Bonaventura esplode.

2. Marco Parolo, Parma. Se fossi un tifoso del Parma comprerei tre metri di stoffa blu, una bomboletta di vernice spray gialla e preparerei uno striscione con su scritto “Dammi tre Parolo” non tanto per il gusto d’andare a finire in tv in qualche rubrica sugli striscioni divertenti, quanto per esprimere un sincero, indiscriminato afflato d’ammirazione per il centrocampista ducale. Al di là dell’instancabilità (quest’anno è stato sostituito soltanto tre volte, e sempre negli ultimi dieci minuti; ha saltato solo due partite, per squalifica), oltre alla puntualità con la rete (8 gol in stagione, alcuni dei quali fenomenali, due doppiette nelle prime dieci giornate), ben più in là del ruolo di primissimo piano nella devastante cavalcata di diciassette-dico-diciassette risultati utili consecutivi tra una Juventus e l’altra (il Parma, fa bene ricordarlo perché non ha avuto il risalto che meritava, è stato imbattuto da novembre 2013 a tutto marzo 2014: sono cinque mesi, e sono lunghi cinque mesi), al di là di tutto questo di Marco Parolo mi piace tantissimo quella sensazione di decrescita volontaria che sprigiona dalle sue scelte: in agosto poteva passare alla Roma, magari non è dipeso solo dalla sua volontà ma a me piace immaginarlo così, felicissimamente incastrato tra le Alpi Apuane e l’Emilia, contento di poter girare per il centro in bicicletta, di bere un calice di rosso dei colli parmensi, scambiarsi la posizione con Antonio Cassano, andare in gita al mare a Nervi, qualificarsi per l’Europa League all’ultima giornata, non prendersela troppo se Prandelli poi va a finire che lo esclude, cose così. Poi chi lo sa, a settembre si trasferisce a una squadra di vertice e a me toccherà riporre lo striscione in cantina, tra i culatelli che maturano, alla mercé del tempo, delle muffe. https://www.youtube.com/watch?v=DmaYsGiNXcg

Sinistro al volo, due gran botte da fuori, una punizione da 40 metri, due tap-in da centravanti, una bella chiusura dopo un inserimento centrale, un piatto destro al volo dal limite dell’area: le reti stagionali di Parolo.

1. Ciro Immobile, Torino. Per ogni rete messa a segno—alcune, quest’anno, davvero pregevolissime—, Ciro il Grande affonda le radici in uno struggle: tanto per cominciare caricarsi sulle spalle il giogo d’un giochino di parole—sublimato da Zeman, che sembra avergli detto: “Uno con un cognome così non potrà mai giocare in una mia squadra”—scontato e fastidioso come le zanzare d’agosto; poi c’è il fatto che per sfondare si sia dovuto accasare, lato e stricto sensu, dal nemico: perché il cartellino di Ciro Immobile, ormai idolo incontrastato del Torino, giova ricordarlo, è di proprietà della Juventus; e lo stesso Immobile vive in un appartamento che gli ha affittato Chiellini. È un po’ come se un operaio semplice della Fiat trasferito in mobilità funzionale alla Autobianchi là fosse diventato CEO (suscitando gli appetiti, per rimanere nella metafora, della Volkswagen, visto che si parla incessantemente d’un interessamento del Borussia Dortmund per l’attaccante). Con Cerci ha dato vita a una delle coppie d’attacco meglio congegnate della Serie A: in due hanno segnato più della metà delle reti complessive del Toro, hanno rischiato di portarlo in Europa dopo vent’anni e ne hanno trasferito i colori ad inserto dell’Azzurro che scenderà in campo in Brasile. Ecco: se l’esplosione dell’anno, per me, è quella di Immobile non è tanto per le reti stratosferiche che ha segnato o per l’apporto abnorme a un collettivo di per sé modesto, quanto per il suo essere in progressione. La sua parabola (quasi venticinquenne, un club d’alta classifica sui suoi passi, annate precedenti nelle serie minori, una sola presenza in Nazionale prima del Mondiale) ricorda quella di un certo Totò Schillaci. Di qui a un mese e mezzo c’è da augurarsi di sentirne ancora il rimbombo, in lontananza, dall’altra parte dell’Oceano, dalle parti del 22° parallelo, quello di Rio. https://www.youtube.com/watch?v=l14McHcFdd0

Il diciassettesimo gol in campionato di Immobile (poi dicono porti male).

#bidoni3. Stevan Jovetic, Manchester City. Non lo so se quello di Jovetic può essere considerato un pacco. Averlo pagato 20 milioni di sterline, 10 per ogni partita giocata da titolare, forse può lasciarlo pensare. L’inizio di stagione non è stato dei più entusiasmanti: nelle prime dieci partite dei citizens è sceso in campo due volte, e in ogni caso, con lui dentro, non hanno mai vinto. Poi c’è stato l’infortunio, il rientro per la gara di FA Cup contro il Chelsea (in cui ha segnato la rete del vantaggio), ancora un infortunio. Le scenette con Milner (dopo il gol contro gli uomini di Mourinho Stevan s’è tolto la maglia, il centrocampista l’ha rimbrottato: “Prima fatti altri sei mesi di palestra”; in un’altra occasione si è presentato con un giubbino rosa shocking, Milner l’ha costretto a dire in conferenza stampa che glielo aveva prestato la sorella) e il malinconico video postato su Instagram della festa scudetto, uno scudetto che non può sentire suo, sono molto tenere. Magari andrà meglio l’anno prossimo

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Giacchettino rosa (ma anche zaini verde menta): Milner is not amused.

2. Erik Lamela, Tottenham Hotspurs. Sarò sincero fino in fondo: se aveste speso un nichelino per i miei pensieri la sera del 14 Agosto 2013 avrei confessato che Lamela avrebbe sollevato, insieme a Messi, la Coppa del Mondo brasiliana (convinzione corroborata anche dalla grande fiducia che in lui riponeva Sabella). E poi che prima avrebbe fatto un’annata strepitosa nella Roma di Garcia. A me Lamela è mancato, sono mancate le sue pettinate al pallone, i suoi dribbling (99 nell’ultima stagione giallorossa!), insomma le statistiche de bomba y platillo (15 gol, 5 assist) che hanno preceduto il suo approdo al Tottenham. La sfortuna del Coco a Londra è stata che André Villas-Boas non sapeva proprio sistemarlo (poi Levy ha capito dove sistemare AVB), così come neppure Sherwood. Non che le altre stelle giunte col tesoretto incassato con la cessione di Bale abbiano brillato: eppure ci si aspettava qualcosa in più da chi aveva fatto segnare il record d’ingaggio (30 milioni di sterline), non che si facesse rubare la scena da Andros Townsend (uno che s’è fatto nove prestiti prima di trovare spazio con gli Spurs). Tre partite da titolare soltanto, la Selecciòn sfumata (con buona pace di Sabella), stagione finita a marzo, un posto nel Worst XI del Daily Mail (in buona compagnia giallorossa: c’è pure Stekelenburg). Il poster che gli hanno dedicato i tifosi, paragonandolo a un cagnoletto smarrito, suscita tenerezza. Io lo prenderei domani, se i tifosi e la proprietà del Tottenham accettassero lo scambio con il mio mezzo segugio (che, per inciso, si chiama Lapo Cronopio).

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Una scena che non vedremo quest’estate.

1. Ishak Belfodil, Inter/Livorno. In un anno (da giugno 2012 a giugno 2013) il prezzo del suo cartellino è triplicato. Con il Parma ha disputato una stagione così convincente che l’Inter se l’è aggiudicato per quasi quindici milioni di euro (più la metà di Cassano). A rileggere la storia della Serie A 2013-2014 non è difficile capire chi ha preso il pacco e chi no. In tutto ha giocato 965 minuti, dieci partite leggermente abbondanti se solo fosse sceso in campo, qualche volta, per 90 minuti di filato (invece: mai). Non ha segnato neppure un gol. E dire che puntava fortissimo al Mondiale brasiliano, dove avrebbe voluto guidare l’attacco algerino (sebbene anche coi maghrebini manchi dal campo dal 14 agosto del 2013). È andata a finire che a incrociare i tacchetti con la Russia, la Corea del Sud e il Belgio ci saranno Djebbour del Nottingham Forrest, Slimani dello Sporting Lisbona e Soudani della Dinamo Zagabria. Non Belfodil del Livorno. Se poi raccontiamo i fatti come stanno davvero davvero, il tonfo è più sordo: non ci sarà Belfodil dell’Inter. https://www.youtube.com/watch?v=MQjVdf6Tq7U

Questa è una scena insieme meravigliosa e tristissima. Viene annunciata la rivelazione dell’anno 2013 della nazionale algerina: Ishak Belfodil. Poi ci si corregge: ah, no, scusa Belfodil, resta dove sei che non sei tu, ma Saphir Taïder.

LE STORIE STRAPPALACRIMEdi Fulvio Paglialunga (@FulvioPaglia)1. Il gigante e il bambino. Georgios Samaras è un calciatore greco, fa l'attaccante, non ha ancora trent'anni e gioca nel Celtic. Serve come premessa: in un'orgia di cristianironaldi e sapienti prodotti di marketing per le nuove generazioni un calciatore semplice, senza eccessi e pure bravo, rischia di non essere noto. Nonostante i 193 centimetri non lo rendano invisibile, nonostante le qualità siano anche diverse da quelle classiche del pennellone. Soprattutto perché gioca in un club (like no other) in cui l'idea, la sua rappresentazione ideologica e storica è più forte del potere del singolo. Eppure, nel giorno dei festeggiamenti ufficiali per il quarto scudetto di fila della squadra dei cattolici di Glasgow, Samaras, capitano e leader, ha deciso di salutare il Celtic lasciando un'eredità di lacrime belle. Prima ha annunciato l'addio, dopo sei anni e mezzo e 74 gol. Anche un po' polemico perché con il contratto in scadenza e senza nessuna offerta ha dovuto specificare che «me ne vado, ma non è una mia decisione. Non ho avuto offerte dal club». Di più: «Lascio il Celtic, ma il Celtic non mi lascerà mai», sottolineando come quella maglia diventi un tatuaggio all'altezza del cuore. L'eredità è quel gesto durante il Trophy Day (una festa pazzesca iniziata così) che hanno visto tutti, anche chi non lo conosceva. E quel passo emotivo verso la tribuna, verso Jay, tifoso down, in mano la medaglia datagli da Neil Lennon (l'allenatore degli Hoops) e il braccio teso alla ricerca dell'idolo. Samaras non ci pensa, ha la bandiera della Grecia in una mano e prende Jay, gli dedica uno dei più bei sorrisi che si possano immaginare. Lo stringe, lo porta un po' con sé in campo. Sono cinquanta secondi, da vedere con un fazzoletto e non in ufficio, se ai colleghi si è spacciata l'idea di essere uomini duri. https://www.youtube.com/watch?v=h7woTpCEmWk 2. Il testamento di Tito. Tito Vilanova è morto il 25 aprile. Dopo operazioni, cure, dopo tutto quello che poteva fare per sconfiggere il tumore che non è riuscito a sconfiggere. Dopo il ritiro e la sua lettera di congedo dal pallone che gli aveva dato tutto. «Dopo cinque anni meravigliosi in una squadra nella quale ho realizzato tutti i miei sogni da allenatore, è giunto il momento di affrontare un cambiamento nella mia vita professionale e di dedicare le mie forze per curarmi da quella malattia che mi è stata diagnosticata». Le ha dedicate, le forze. Ma non gli è bastato. Per capire chi è stato Vilanova, ombra prima e sostituto poi di Guardiola, basta non aggiungere una parola a quanto ha scritto Paolo Condò sulla Gazzetta. Il resto è la straordinaria commemorazione (e commozione) del pallone. Quello dei tifosi, il video pubblicato dal Barcellona sul minuto di raccoglimento al Madrigal, l'omaggio del Camp Nou e quell'immenso fiocco luttuoso in mezzo al campo. E i funerali con i figli che leggono («Eri il nostro eroe») e i calciatori del Barcellona in lacrime. E soprattutto il figlio Adria, con il quale Tito era tornato a giocare dopo l'intervento che pochi giorni dopo ha segnato con la maglia della Cantera del Barcellona e ha esultato guardando il cielo. E subito dopo: «Il mio primo gol è per te, che sei sempre al mio fianco. Ti amo Papà».

3. The sound of silence. Hillsborough è una ferita che sanguina ancora, dopo venticinque anni. Una pugnalata al cuore del calcio inglese datata 15 aprile 1989: 96 morti (e oltre 800 feriti) durante la semifinale di FA Cup tra Liverpool e Nottingham Forest, a Sheffield. 96 morti schiacciati contro le transenne o calpestati dalla folla. Vent'anni di bugie, prima delle scuse del governo per la gestione folle di quel giorno in cui si creò un imbuto mortale. Quest'anno, per il venticinquesimo anniversario, tutte le partite del campionato inglese sono cominciate con sette minuti di ritardo per ricordare la sospensione di quella partita (avvenuta sei minuti dopo la palla al centro), ma soprattutto Anfield ha tolto il fiato: si giocava Liverpool-Manchester City . Prima la canzone d'amore più bella del mondo, ché tale è You'll Never Walk Alone, a sciarpe tese e ugole schierate. Poi, i cartoncini colorati per scrivere “96 – 25 years” e ricordare i disgraziati finiti al macello mentre troppa gente c'era e troppa gente spingeva per esserci. Ma soprattutto, un minuto di raccoglimento come pochi altri, forse nessuno. Di silenzio totale, solenne. Si sentono, in uno stadio pieno, i soffi del vento e qualche clic di fotocamera. Il resto è contemplazione, memoria, un modo di onorare chi non ha fatto niente per morire, chi non se l'è cercata. Chi voleva vedere solo una partita di pallone e, forse, è finito in una trappola. https://www.youtube.com/watch?v=ZpP5SWH62Bg 4. Ragazzo dell'Europa. Edgar Cani è arrivato a Bari il 31 gennaio 2014. Edgar Cani era arrivato a Bari anche l'8 agosto 1991. Aveva undici mesi, era a bordo della nave Vlora con altri ventimila albanesi, nel più grande sbarco di clandestini mai giunto in Italia. Finì nello stadio (il Della Vittoria) è tornato in uno stadio (il San Nicola). Raccontano che quando è stato acquistato dal Bari si sia messo a piangere, perché gli avevano raccontato di quella città della sua infanzia, dove è stato persino battezzato prima di partire con la famiglia per il centro dell'Italia e trovare una vita normale. È diventato calciatore, ha giocato tra B e C con Palermo, Ascoli, Padova, Piacenza, prima di fare un salto in Polonia, qualche comparsata in Serie A con il Catania, la B con il Carpi e di nuovo Bari, in questo giro perfetto del destino. Attaccante non proprio prolifico, faccia da bravo ragazzo: il suo ritorno è poetico senza bisogno di aggiungere gol, ma se poi nel mercoledì di campionato, proprio a Carpi, lui segna in una partita che i suoi compagni vincono 2-1 ancora meglio. Quindi è decisivo, quindi è stato lui a portare il Bari in zona playoff (dunque ufficialmente in lotta per la A) dopo una rimonta folle, il rischio serie C e il fallimento dell'era Matarrese e l'altra favola della squadra senza padroni. Quindi al momento l'ex bambino della Vlora ha segnato il gol più importante della stagione del Bari. Un modo per dire grazie, per l'accoglienza di ventitré anni fa. 5. Boys don't cry. Andiamo con i numeri: 857 partite con la maglia dell'Inter, dal 27 agosto 1995 a oggi. 5 scudetti, 4 Coppe Italia, 4 Supercoppe italiane, una Champions League, una Coppa del mondo per club e una Coppa Uefa. È il giocatore in attività e lo straniero con più presenze in Serie A, il secondo giocatore in assoluto con più presenze in A dopo Paolo Maldini, quello con più presenze nella storia dell'Inter, con più presenze consecutive

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