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La stagione dei Clippers rimane un capolavoro
23 apr 2019
23 apr 2019
Come la squadra di Danilo Gallinari è riuscita a sorprendere il resto della NBA, Golden State Warriors inclusi.
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Photo by Andrew D. Bernstein/NBAE via Getty Images
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Il 27 marzo, dopo la vittoria contro Minnesota che qualifica aritmeticamente gli L.A. Clippers per la post season, Doc Rivers entra nello spogliatoio della sua squadra e davanti a parecchie telecamere si toglie qualche sassolino dalla scarpa: «ESPN ci dava a 33 vittorie, [Charles] Barkley a 33 vittorie, Vegas a 33 vittorie. E invece ci siamo qualificati per questi maledetti playoff». A quel punto Doc consegna una bottiglia di champagne nelle mani di Danilo Gallinari, aspetta che le prime urla di giubilo si spengano, e aggiunge: «Questo è solo l’inizio».

Se in parte la raccomandazione è diretta ai suoi giocatori, i veri destinatari dell’avvertimento sono giornalisti e addetti ai lavori, colpevoli di aver aver sottovalutato i Clippers per tutta la stagione. Il risentimento di Doc Rivers verso i media risale ai pronostici di inizio anno, che davano all’unanimità i Clippers non solo fuori dalla lotta playoff, ma coinvolti direttamente nella sfida a chi ne perde di più a Ovest con Mavericks, Grizzlies, Suns e Kings. L’accurato modello di FiveThirtyEight, per dire, concedeva ai Clippers appena il 16% di possibilità di raggiungere la post-season.

In realtà, per quanto Doc si sia sentito sminuito, ad ottobre era legittimo pronosticare i Clippers in versione tanking, considerato un roster che non sembrava all’altezza dei pesi massimi della Western Conference. A completare un quadro già all’apparenza negativo si era aggiunto il passaggio di LeBron James ai Lakers, evento che ha contribuito a far cadere ulteriormente nel dimenticatoio l’altra squadra di Los Angeles.

Viste le premesse, la qualificazione dei Clippers ai playoff è stata oggettivamente sorprendente. Nessuno aveva creduto in loro nonostante l’ottimo avvio di stagione, durante il quale Doc Rivers ha trovato in Tobias Harris la superstar che gli mancava. Poi, a inizio febbraio, la trade che ha portato Harris a Philadelphia sembrava scrivere la parola fine sui sogni playoff dei Clippers.

Invece, dalla chiusura del mercato in poi, la squadra di Doc Rivers ha spinto sull’acceleratore, chiudendo il mese di marzo addirittura con il miglior record della NBA (13 vittorie e 2 sconfitte). Solo un paio di evitabili passi falsi ad aprile hanno frenato la rincorsa dei Clips, che alla fine hanno chiuso la regular season da ottavi con 48 vittorie - ben 15 in più dei pronostici di inizio anno - trovando di conseguenza i Golden State Warriors in un complicatissimo primo turno.

L’inevitabile sconfitta contro i campioni in carica - nonostante un’epica gara-2 di cui parleremo più avanti - non influenza il giudizio complessivo sulla stagione dei Clippers, i cui meriti per aver raggiunto la post-season sono da ripartire tra le diverse aree dell’organizzazione. In primis un gruppo di giocatori, spesso sottovalutati, capaci di ricalibrarsi di fronte alle difficoltà; poi un allenatore tornato a fare esclusivamente l’allenatore dopo un periodo complicato; e infine un front office in grado di reinventare una squadra invece di rifondarla, garantendo allo stesso tempo competitività nel presente e una flessibilità salariale che rende i Clippers una delle franchigie più appetibili per i tanti free agent della prossima estate.

Rinnovamento

Anche se sembra passato un secolo, la “Lob City era” è finita da poco. Sei qualificazioni consecutive ai playoff tra il 2012 e il 2017 non sono bastate ai Clippers per superare le semifinali di conference. Due anni fa Chris Paul ha abbandonato per primo la nave, seguito nel gennaio 2018 da Blake Griffin e l’estate scorsa dall’ultimo superstite, DeAndre Jordan.

I Clippers hanno trovato il coraggio di chiudere il ciclo dei Big Three soprattutto grazie agli sforzi di Jerry West, arrivato a Los Angeles nel 2017 in qualità di consulente dopo sei stagioni con gli Warriors. L’obiettivo di West - nonché vero motivo per cui ha accettato una nuova sfida a 80 anni - è di cambiare la mentalità della Clippers organization nella sua totalità. Da quando è arrivato a L.A., West ha aiutato Steve Ballmer, Lawrence Frank e Michael Winger - rispettivamente Proprietario, Presidente delle Basketball Operations e General Manager dei Clippers - a sbrogliare situazioni difficili come il ridimensionamento di Doc Rivers e l’addio di Blake Griffin.

«Nessuno voleva prendersi quella responsabilità», ha rivelato West in un’intervista al New York Times l’anno scorso. «Era un momento difficile per tutti, specialmente per Steve [Ballmer], perché era legato a Blake a livello personale. Ma la franchigia era bloccata. Non poteva né scendere e né salire. Per arrivare alla meta è necessario fare dei sacrifici». Dichiarazioni di questo tipo mettono in luce il lato più cinico della personalità di Jerry West, il cui distacco calcolato è diventato imprescindibile per le strategie societarie dei Clips: «La scelta giusta difficilmente corrisponde con la scelta facile».

Dell’importanza di Mr. Logo ne è consapevole anche Doc Rivers, che pur essendo approdato a Los Angeles nel 2013 con il duplice ruolo di allenatore e di presidente delle Basketball Operations, non è mai riuscito a calarsi completamente nel doppio impegno - tanto che, complessivamente, la dicotomia dei suoi sforzi tra scrivania e panchina ha finito per produrre risultati non all’altezza in entrambi gli ambiti.

Per questa ragione nell’estate 2017 Steve Ballmer ha rivoluzionato la dirigenza promuovendo Lawrence Frank al ruolo di PoBO, assumendo Jerry West come consulente e “relegando” Rivers al ruolo di allenatore. Nonostante qualche tensione iniziale, il riassetto che all’esterno sembrava il punto di rottura tra Doc e Ballmer si è trasformato nella svolta positiva per i Clippers, come sottolineato dallo stesso Rivers in un’intervista al Washington Post: «La mia vita è migliorata, così come il carico di lavoro. Sono molto più felice. Questa è la soluzione ideale per me ora che non devo più partecipare a tutte quelle riunioni in sede. Non devo neanche guardare tante partite di college basket. Questa è la situazione perfetta: mi piace allenare, provare a costruire dei giocatori vincenti. Essere presidente è un onore, ma non fa per me».

Senza i compiti da dirigente a distrarlo, dal 2017 Rivers è tornato a concentrarsi su qualcosa che forse aveva dato troppo per scontato: allenare. Ora sta già raccogliendo i frutti di quanto iniziato a seminare lo scorso anno: Doc è tra i papabili vincitori del premio Allenatore dell’Anno 2019 e ha raggiunto un accordo con Ballmer per il rinnovo del contratto, rispedendo al mittente in maniera convinta qualsiasi voce su un interessamento dei Lakers. In questa stagione Doc ha risposto con i fatti a una critica che gli era stata mossa negli ultimi anni: l’incapacità di sviluppare giocatori giovani e di gestire con successo una squadra che non fosse una contender piena di veterani. E invece la valorizzazione del talento di Tobias Harris, l’aver fatto adattare rapidamente i tanti giocatori arrivati a febbraio e la gestione del gruppo lungo tutto l’arco della stagione, hanno dimostrato che Rivers è ancora uno dei migliori allenatori in circolazione.

Profondità

Le peculiarità principale di questi Clippers è stata la panchina, la più prolifica dell’intera NBA. Tale caratteristica è in controtendenza rispetto alle abitudini delle squadre più competitive della lega come Bucks, Warriors, Rockets, Thunder e Sixers, che sono ultime per punti realizzati dalla second unit. In cima a questa classifica ci sono proprio i Clippers, il cui (supposto) supporting cast ha viaggiato a 53 punti di media in regular season, quasi cinque in più di quelli che segnava la panchina degli Orlando Magic 1998-99, fino a quest’anno la più prolifica della storia.

I leader riconosciuti della second unit dei Clippers sono Lou Williams e Montrezl Harrell. A marzo Williams è diventato il giocatore ad aver segnato più punti nella storia della NBA uscendo dalla panchina, superando Dell Curry. Ma non solo: l’ex Lakers si è affermato come uno dei giocatori più clutch della lega, concludendo la regular season al secondo posto (dietro a James Harden) per punti realizzati nel quarto quarto, con un invidiabile 19/34 dal campo negli ultimi tre minuti di gioco con le squadre distanziate al massimo da 3 punti. Se Williams è ancora una volta il favorito per il premio di Sesto Uomo dell’Anno (sarebbe il secondo in fila e il terzo in carriera, raggiungendo Jamal Crawford), alle sue spalle potrebbe finire proprio Harrell e in quel caso sarebbe la prima volta in cui due compagni di squadra arrivano primo e secondo.

La coppia Williams-Harrell ha giocato circa 39 pick and roll per 100 possessi e i Clippers hanno ottenuto 1.11 punti di media quando il loro gioco a due si è concluso con un tiro o di Williams, di Harrell o di un compagno che riceve lo scarico. Di questa connessione ha parlato anche Doc Rivers: «Vanno alla stessa velocità. Riescono a capire quello che sta per fare l’altro».

Dal video qui sotto si nota la profondità dell’intesa.

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A Williams piace concludere a sinistra le transizioni che partono dalla zona destra del campo e Harrell, conoscendo il compagno, si ferma in mezzo al campo per portare un blocco. Rozier se ne accorge e tenta di passargli davanti; Lou legge la situazione e prosegue dritto, lasciando sul posto il difensore che ha anticipato il movimento. Appena Baynes si gira per portare l’aiuto è già tagliato fuori: Williams serve Harrell, che intanto ha tagliato velocemente verso il canestro per concludere con due punti.

Come notato da Zach Lowe di ESPN, in quest’altra situazione i loro movimenti sono talmente sincronizzati che nell’esatto momento in cui Williams fa il crossover, Harrell gli porta il blocco.

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In questo caso, invece, possiamo notare come le difese siano talmente spaventate dai loro movimenti e dai loro dai e vai che basta una finta di tiro e una di passaggio per consentire ad Harrell di arrivare senza difficoltà al ferro.

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Quando giocano insieme Williams e Harrell sono perfettamente complementari, riescono a migliorarsi a vicenda e a risultare tanto inarrestabili quanto imprevedibili per le difese, perché loro stessi stanno improvvisando in campo.

Parlando più in generale dei Clippers, l’impressione è che grazie all’unità del gruppo anche altri giocatori abbiano reso al di sopra delle loro reali possibilità. Tra coloro che hanno partecipato alle rotazioni, l’unico a giocare per più di 30 minuti a partita è Gallinari, gli altri sono restati in campo tra i 18 e i 28 minuti. Durante la regular season Rivers si è preso la libertà di mischiare i quintetti a seconda della specifica necessità. Con così tanti giocatori duttili e interscambiabili i Clippers hanno vinto 48 partite non tanto per le abilità dei singoli, quanto per la profondità delle rotazioni e per la strategia che può esaltarne di volta in volta le qualità senza mai concedere punti di riferimento agli avversari.

La stagione di Gallinari

Come abbiamo visto prima, quando si è trattato di festeggiare la qualificazione ai playoff Doc Rivers ha consegnato la prima bottiglia di champagne della serata a Danilo Gallinari. Non è stato un caso: il Gallo ha giocato la sua migliore stagione da quando è in NBA, comparabile solo con quella 2012-13 giocata con i Nuggets, conclusasi purtroppo anzitempo per il primo grave infortunio al ginocchio sinistro. A sei anni da quell’incidente, Gallinari ha finalmente ritrovato una condizione fisica stabile e il contesto adatto in cui esprimere tutto il suo talento.

Nonostante l’apporto offensivo nella serie contro i Warriors sia stato al di sotto delle aspettative, le statistiche di Danilo in regular season, al contrario, sono state impressionanti: massimo in carriera per punti realizzati (19.8), rimbalzi (6.1), percentuale dal campo (46.3%) e percentuale da tre punti (43.3%). Nelle 68 partite giocate l’efficienza offensiva di Danilo è stata spaziale: 5° in NBA per rating offensivo (124.9), 5° per percentuale da 3 punti, 4° per percentuale ai liberi (90.6%) e 11° per percentuale reale al tiro (63.4%). Ad evidenziare ulteriormente la centralità di Gallinari nel sistema di Doc Rivers c’è il dato relativo allo Usage: 23.4%, anche questo al massimo in carriera.

Se nella prima parte della stagione le buone prestazioni dell’azzurro sono state parzialmente nascoste dall’esplosione di Tobias Harris, negli ultimi mesi è stato chiaramente lui a prendere in mano la squadra, specialmente nei minuti del primo quintetto. Nelle 13 partite in cui è sceso in campo a marzo, Danilo ha realizzato 23,9 punti ad incontro e i Clippers ne hanno vinte 12, di cui 11 consecutive.

In queste settimane con Gallinari promosso a riferimento offensivo numero uno, è aumentata la qualità con cui i Clippers fanno circolare la palla. Quando Tobias Harris era la prima opzione offensiva del quintetto titolare e Lou Williams quella della panchina, l’obiettivo principale dei Clippers era metterli in condizione di punire le difese dal palleggio coinvolgendoli in molti giochi a due. Un’impostazione di questo tipo influiva negativamente sulla fluidità e sul movimento complessivo di palla e compagni, che spesso risultava stagnante. L’addio di Harris e il contemporaneo arrivo di Landry Shamet, JaMychal Green e Ivica Zubac ha costretto Rivers ad applicare nuovi principi per massimizzare le prestazioni della squadra.

Doc ha spostato il focus dell’attacco su una condivisione maggiore del pallone per cercare di sfruttare al meglio le doti dal perimetro di Landry Shamet (44.4% da 3 in 22 partite con i Clippers) e quelle sotto canestro di Zubac.

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Questa transizione è stata possibile unicamente grazie alla capacità di Danilo di essere pericoloso lontano dalla palla e non solo da playmaker. Fermo restando che, naturalmente, nel momento in cui la circolazione della palla non risulta fluida i Clips si possono sempre affidare all’improvvisazione controllata di Lou Williams.

Poi c'è anche la cluchness di Sweet Lou quando la palla scotta.

Per quanto sia importante la capacità di Gallinari di incidere senza il pallone tra le mani, uno degli aspetti migliori del suo gioco rimane l’abilità nel segnare in tutti i modi, sia che venga disegnato un gioco per lui, sia che il tiro debba costruirselo da solo.

In questo caso sfrutta perfettamente uno schema con Zubac e Patrick Beverley: Danilo finge di tagliare verso il canestro, cambia direzione e va dalla parte opposta. George, il suo marcatore, abbocca alla finta anche a causa del movimento di Gilgeous-Alexander e quando tenta di recuperare si trova la strada sbarrata da Zubac, che intanto ha portato il blocco per liberare il compagno. Con due metri di spazio Gallinari mette a segno una tripla da una zona da cui ha tirato con il 40% per tutta la stagione.

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Qui, invece, è semplicemente bravo nel leggere il posizionamento pigro della difesa, parte fortissimo a sinistra e lascia sul posto Jerami Grant. Dennis Schroeder non è abbastanza convinto quando porta l’aiuto e Gallinari arriva senza difficoltà fino al ferro.

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Se nella metà campo offensiva Gallinari è stato consistente, non bisogna comunque sottovalutare il suo rendimento difensivo. L’abilità tecnica nel difendere su diverse tipologie di giocatori, dal play al lungo, e la fisicità nell’uno contro uno sono qualità che ha sempre avuto; quest’anno, però, ha aggiunto concentrazione e solidità come mai prima in carriera, a cui si unisce la salute ritrovata. Un dato su tutti: dopo Harrell è il secondo giocatore dei Clippers per sfondamenti presi (0.18 ad incontro).

La disponibilità di Danilo nel “sacrificare” il proprio corpo e le energie spese per difendere il canestro non sono passate inosservate tra i suoi compagni di squadra. Patrick Beverley, uno dei giocatori più intensi dell’NBA, ha definito Danilo come «un difensore sottovalutato, uno che conosce tutti gli schemi, che si impegna sempre e che si fa sentire anche vocalmente».

Come scarafaggi

Se Patrick Beverley loda il tuo approccio difensivo vuol dire che stai facendo le cose per bene. Sì, perché sebbene l’ex Houston non sia assolutamente uno dei riferimenti tecnici dei Clippers, ne è senza dubbio la guida spirituale. Il primo ad apprezzarne il valore è Doc Rivers, come dimostrano le sue parole in conferenza stampa dopo aver portato a casa gara-2 contro Golden State con la più grande rimonta della storia dei playoff NBA: «Beverley è troppo importante per noi. Credo che le persone si concentrino troppo su alcuni suoi atteggiamenti sopra le righe. Ma la sua tenacia e la sua voglia sono imprescindibili per questa squadra. Ci ha incoraggiato per tutto il tempo. Lui e Lou, durante i timeout, quando eravamo sotto, hanno continuato ad incitare i compagni più giovani. Credo che siano stati fondamentali per noi».

Con poche frasi Doc Rivers ha descritto l’universo Beverley: da una parte il lavoro sporco e il sostegno continuo verso i compagni di squadra, dall’altra le antics, quelle “pagliacciate” che tanto danno fastidio ai suoi avversari. In ordine di tempo, l’ultima della lunga lista di vittime di Beverley è Kevin Durant, che non è riuscito a concludere in campo nessuna delle prime due gare della serie. Nella prima è stato espulso dopo una mezza rissa (non serve dirvi con chi); nella seconda è uscito per falli nel quarto quarto, dopo averne commessi quattro in attacco di cui almeno un paio proprio su Beverley.

C’è un video su Youtube, lungo 13 minuti, che fa vedere ogni singolo istante della marcatura di Beverley su Durant in gara-2. Se andate al minuto 6:44, potete vedere l’essenza del n°21: a metà terzo quarto, sul +29 Golden State (+29!), Beverley si attacca a KD e lo disturba. Si abbassa, gli gira intorno e soprattutto lo tocca in continuazione. Le sue mani non smettono neanche per un momento di sfiorare Durant, che alla fine, vuoi anche il risultato, si distrae e perde palla. Due minuti dopo stessa situazione ma a metà campo, lontanissimo dal canestro: stavolta l’ex Thunder si innervosisce e girandosi colpisce Beverley con il gomito. Fallo in attacco.

Se da una parte è innegabile che l’inerzia di gara-2 sia cambiata grazie a questi due-tre episodi, è altrettanto sbagliato dire che i Clippers abbiano rimontato per merito di Beverley. Tuttavia, un grande merito bisogna riconoscerlo: con i suoi atteggiamenti è riuscito nell’impresa di convincere i compagni che nonostante la situazione fosse disperata, i Clippers erano ancora vivi.

E così, grazie a un terzo quarto da 44 punti, i ragazzi di Doc hanno ricucito lo svantaggio fino al -14. Poi, con un parziale di 34-20 nell’ultimo quarto sono riusciti a pareggiare la partita con 1:10 da giocare. Dopo innumerevoli canestri di Lou Williams, a firmare il definitivo sorpasso ci ha pensato Landry Shamet, un rookie, che a 16 secondi dalla fine ha infilato la tripla del +2 su assist di Shai Gilgeous-Alexander, un altro rookie.

Una rimonta del genere, ai playoff, in casa dei campioni in carica, non arriva per caso. Arriva perché i Clippers hanno accumulato certezze lungo tutta la stagione. A dimostrarlo ci sono le altre rimonte incredibili di quest’anno: il 9 febbraio 28 punti ripresi ai Celtics, il 2 febbraio 25 punti rimontati a Detroit, il 5 febbraio altri 20 punti recuperati a Charlotte. Rivers, che conosce i suoi giocatori meglio di chiunque altro, li ha definiti così: “Io, scherzosamente, li chiamo scarafaggi. Non li puoi uccidere, non se ne andranno mai via. Accettano la vittoria. Accettano la sconfitta. Accettano tutto. Sono un gruppo divertente da allenare. Non mollano mai”.

Futuro luminoso

Lo scorso 20 marzo, mentre si intensificavano le voci che volevano il prossimo anno Doc Rivers sulla panchina dei Lakers, il diretto interessato ha deciso di chiarire la sua posizione in conferenza stampa: «Non vado da nessuna parte. Lo dico qui, ora, di fronte a tutti voi. Resto qua finchè Steve non mi esonera».

Se dietro la scelta di rimanere c’è la voglia di continuare ad allenare un gruppo di giocatori che gli ha regalato molte soddisfazioni quest’anno, in realtà sono le prospettive future ad incatenare Doc sulla panchina dei Clippers. In questi due anni, oltre ad aver messo sotto contratto alcuni giovani interessanti (tra tutti Gilgeous-Alexander e Shamet) e giocatori di ruolo di qualità, Lawrence Frank, Jerry West e il resto del Front Office hanno lavorato duramente per dare all’organizzazione una eccellente flessibilità salariale.

A tal proposito i momenti chiave sono stati due: per prima cosa i Clippers hanno liberato tanto spazio salariale (e ottenuto Tobias Harris) con la trade che ha portato Blake Griffin a Detroit; poi, grazie alla scambio con Philadelphia per Harris (che molto probabilmente avrebbe lasciato comunque Los Angeles in estate da free agent), i Clippers hanno ricevuto tre seconde scelte nei prossimi cinque anni e soprattutto svuotato ancora di più il salary cap.

Ad oggi si presume che i Clippers approccino la prossima free agency con una cifra da investire compresa tra i 54 e i 75 milioni di dollari, a seconda di quanto ancora sarà stravolto il roster attuale. Con numeri del genere i Clippers potrebbero firmare non una ma ben due superstar al massimo salariale. Le voci di mercato che circolano li vede come indiziati numero uno per provare a firmare Kawhi Leonard o Kevin Durant - o addirittura entrambi.

Nell’epoca del tanking e delle sfide a chi ne perde di più, i Clippers sono andati controcorrente. Anche all’interno di una serie che probabilmente li vedrà sconfitti abbastanza agevolmente in cinque gare, sono comunque riusciti a scrivere una pagina di storia dei playoff compiendo una rimonta incredibile.

Nonostante un’eliminazione al primo turno che potrebbe sembrare “anonima”, la loro stagione sarà ricordata a lungo in NBA in quanto esempio ideale di rifondazione illuminata, capace di ottenere eccellenti risultati nel presente, con la testa ben proiettata nel futuro.

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