Il calcio di Ibra
Un omaggio a più voci a Zlatan Ibrahimovic, con la speranza di rivederlo in campo presto.
Kung-Fu Ibra
di Oscar Svensson
La carriera di Ibrahimovic non può essere riassunta in un susseguirsi di periodi, piuttosto in un insieme di atteggiamenti, colpi e movimenti. Ibra si spande sopra così tanti periodi calcistici e così tante squadre e campionati diversi che diventa impossibile limitarlo a uno solo e specifico. È più semplice invece associarlo a certi gesti tecnici, e in particolare a una categoria di gol che appartiene solo a lui: i gol segnati con tecniche di calcio da kung-fu, la rappresentazione più precisa di quell’idea di eleganza violenta che Ibra incarna. Cento chili che possono piegarsi in ogni modo concepibile.
Il miglior giornalista sportivo svedese, che ha seguito Ibrahimovic dall’inizio della carriera, e che scrisse il primo libro su di lui, paragonando Ibrahimovic a Eriksen ha coniato quella che per me è la descrizione perfetta: «Per entrare una porta serrata Eriksen scassina la serratura; Ibrahimovic invece si fa strada a forza verso la porta e la tira giù».
Ecco, quei gol in cui sembra picchiare la palla con un calcio volante sono una buona rappresentazione di quest’attitudine: violenti e diretti, ma soprattutto pragmatici.
Prendere il controllo di ogni situazione
Di Federico Aqué
Ibra al Milan nell’estate del 2010 è la sublimazione dell’idea che abbiamo di lui: il talento che sposta gli equilibri da solo, che basta a sé stesso tanto da scappare da una delle migliori squadre della storia (quel Barcellona di Guardiola) per rianimarne una in declino, schiacciata da anni di dominio dei cugini nerazzurri. Quando Ibra torna in Italia l’Inter ha appena toccato il punto più alto della sua storia con la conquista del triplete; il Milan, invece, ha chiuso al terzo posto e non ha ancora rimpiazzato la sua stella, Kaká, venduta al Real Madrid un anno prima. Ibra riempie quel vuoto e ribalta i rapporti di forza con l’Inter, interrompendo un dominio in campionato durato 5 anni.
Specie nei primi mesi, quando Massimiliano Allegri è ancora alla ricerca di un assetto stabile, il Milan vince le partite aggrappandosi letteralmente a Ibra. Il gol segnato alla quinta giornata contro il Genoa è la rappresentazione fisica di questa immagine. L’idea che bastasse soltanto passargli il pallone, non importa quanto pulito o facile da gestire, per cambiare le sorti di una partita si materializza sul campo quando Pirlo stoppa la palla prima del cerchio di centrocampo dopo un duello aereo vinto da Thiago Silva e affetta l’aria in direzione Ibra con uno degli ultimi lanci à la Pirlo della sua carriera milanista.
La palla è lunga e a chiudere Ibra ci sono due difensori del Genoa: Ranocchia e Dainelli, due giganti oltre il metro e 90 che lo stringono da entrambi i lati e riducono al minimo il tempo e lo spazio per qualsiasi tipo di giocata. È una situazione di assoluto controllo per la difesa: due contro uno con l’attaccante, con il difensore più vicino alla porta in vantaggio sulla palla. E invece succede che Ibra anticipi l’intervento di Dainelli allungando la gamba destra dopo il rimbalzo quando il pallone è ancora molto alto, e con la punta del piede indirizzi la palla con la forza necessaria a scavalcare in pallonetto Eduardo.
Un pallonetto con la punta del piede dal limite dell’area, calcolando la traiettoria del lancio e tenendo d’occhio allo stesso tempo la posizione del portiere, mentre due difensori fisicamente molto forti lo chiudono da entrambi i lati: sono prodigi di questo tipo ad aver costruito il nostro immaginario di Ibra.
Ibracadabra
di Fabrizio Gabrielli
Come tutti quei tifosi abbastanza sfortunati da doversi scontrare contro un Ibra nel pieno della scintillanza ho spesso sofferto della sua inspiegabile supremazia: non si può provare allo stesso tempo, senza la perversione connaturata al fascino del male, stima e odio. Per godere appieno dell’esperienza estetica contrastante che suscita Ibra e perché questa mia descrizione sia un atto intellettualmente coerente, ho bisogno del distacco necessario: per questo ho scelto la partita di Champions League giocata con la maglia del PSG contro l’Anderlecht, a Bruxelles nel 2012. Che poi è anche la partita che Ibrahimovic stesso ha scelto come suo “Magic Moment” nella serie omonimo del canale YouTube della Uefa.
Tra i soprannomi di Zlatan, il mio prediletto è sempre stato “Ibracadabra”: riassume perfettamente il carattere magico in cui il suo potere si materializza nel contesto Partita-di-Calcio, soverchiante come se fosse la Statua della Libertà che David Copperfield ha fatto scomparire qualche anno fa.
Quel giorno Zlatan segna quattro delle cinque reti dei parigini, in un’escalation di irripetibilità. La prima è una rete normale per un attaccante con senso della posizione, un tap-in ravvicinato. Simile al secondo e al quarto gol, in cui Ibra decide di non capitalizzare i movimenti con i quali si lascia la linea difensiva biancomalva alle spalle, come un gioco di prestidigitazione, appunto, così palesemente umilianti, con conclusioni di potenza (probabilmente i pali si sarebbero staccati da terra e il risultato finale sarebbe stato odioso): invece sceglie un colpo di tacco nel secondo gol, e una traiettoria da biliardo nel quarto.
Ma è il terzo gol quello che restituisce maggiormente l’incomparabilità di Zlatan: quando il pallone viene respinto dai difensori lui si trova sulla trequarti, dietro anche alla coppia di mediani: quando comincia a correre incontro alla sfera è come se si aprisse uno squarcio dimensionale, un buco nero che anela solo al big bang che si scatenerà quando il cuoio di scarpe e sfera diventerà un tutt’uno luminescente.
In narrativa, diceva Flannery O’Connor, due più due fa sempre più di quattro, e lo stesso vale per la narrativa calcistica: la magia di Ibra non è nella malia in virtù della quale anche i tifosi dell’Anderlecht si trovano ad applaudirlo, o almeno non solo. Credo si nasconda, piuttosto, in quel qualcosa in più che Zlatan, Ibracadabra, aggiunge ai suoi momenti magici, quei momenti in cui prende un 2, lo somma a un 2, e il risultato è maggiore di 4.
L’improbabilità di Ibra
di Matteo Gatto
Prendete la popolazione mondiale, circa sette miliardi e mezzo di esseri umani, e operate una selezione immaginaria chiedendovi: a) quanti di loro sono in grado di arrivare lì con la gamba? b) quanti, tra questi, hanno la coordinazione per arrivarci proprio mentre la palla è lì?
Vi resta davanti uno sparuto gruppetto di atleti eccezionali. Adesso c) eliminate tutti quelli che non hanno la sensibilità per mandare il pallone in quell’angolino. Resta qualcuno, oltre a Ibra? La risposta è no. Sette miliardi e mezzo di persone, e Ibra è l’unico.
Ma mettiamo che non lo sia. Mettiamo che sul pianeta ci siano sessanta miliardi di persone, otto volte la popolazione attuale, e che esistano quindi non una ma otto persone in grado di eseguire quel gesto. Chiedetevi: d) quanti di loro hanno la fantasia necessaria a immaginarselo? Molto probabilmente, solo Ibrahimovic. È un ragionamento per assurdo e ha una conclusione altrettanto assurda, ma è il modo migliore che ho trovato per provare a dare un’idea del doppio livello di unicità di Zlatan: non solo è unico, ma sarebbe unico anche in un contesto molto più ampio. In un certo senso, la sua esistenza è stata il verificarsi di un evento piuttosto improbabile.
Questo gol è un gesto indescrivibile. Non si è sviluppato un vocabolario per descriverlo perché non è mai stato necessario: le cose che appartengono a questa categoria sono troppo rare e sempre e solo sue. Ma in questo “gesto” (per il quale, data la sopraggiunta esigenza di dargli almeno qui un nome, scelgo “tacco-cielo”o “skyheel”, prendendo spunto dal cestistico gancio-cielo/skyhook di Kareem Abdul-Jabbar) si può notare un’altra cosa ancora: al contrario di altri skyheel, come ad esempio quello contro l’Italia del 2004, questo è senza avversari intorno.
E ciò significa che l’altezza e la stazza di Ibra non hanno niente a che vedere con la sua capacità di fare degli skyheel. Certo, gli hanno consentito di farli in partita e ad altissimo livello. Ma gli skyheel non sono un modo di aver la meglio su un difensore, sono un colpo esclusivo, tutto suo, che lui esegue perché può, perché lo ha tra le opzioni disponibili, e che in teoria potrebbe essere replicabile anche da un brasiliano di un metro e sessantacinque cresciuto a calcio e capoeira. Solo che questo brasiliano al momento non si è palesato e, per quanto sbalorditivo, l’unico realmente in grado rimane uno svedese di un metro e novantacinque.
Un colpo unico in un corpo unico. E ci sarebbe da parlare della mente, ma di quella diremo l’anno prossimo, quando Ibra sarà di nuovo in campo, in piena salute, a manifestare la sua improbabile unicità dopo aver sbriciolato i pronostici e i timori di quasi tutti noialtri sette miliardi e mezzo.