Una cosa mai vista prima
di Daniele Manusia
Zlatan ha segnato questo gol in un’amichevole di nessun conto mentre ancora giocava con il Malmoe. C’è un documentario su quel periodo della sua carriera, che doveva raccontare la risalita del Malmoe (appena retrocesso) nella prima serie svedese e che per questo si chiama The Road Back; ma che di fatto è diventato un documentario su Zlatan Ibrahimovic, esploso inaspettatamente con la maglia numero 27.
Ho già scritto più approfonditamente (qui) del documentario, ma è utile dire che in quel momento Ibrahimovic è ancora un giovane di talento problematico che non è detto riesca a farsi strada tra i professionisti. Le difficoltà e i pregiudizi, l’isolamento da cui è dovuto emergere il giovane Ibrahimovic e che hanno fatto da trampolino alla sua voglia di affermarsi ci sembrano un’assurdità a posteriori, pensando a tutto quello che ci saremmo potuti perdere se Zlatan avesse ascoltato chi gli diceva di abbassare la cresta, di passare di più la palla, di fare finta di essere un giocatore normale. Ma bisogna tener presente che quelle persone non avevano mai visto nessuno come Ibrahimovic prima: un punto di vista da cui non sarà più possibile osservarlo, praticamente da quel momento in poi.
La differenza tra il gol scelto qui sopra e altri numeri realizzati in quel periodo*, la fa la presenza a bordo campo del direttore sportivo dell’Ajax, Leo Beenhakker, venuto a misurare il valore di Ibrahimovic con i propri occhi, prima di acquistarlo. Il gol si vede piuttosto male (colpa del cameraman, anche) ma è tutto nel controllo con cui Zlatan, che riceve palla da centrocampo, salta 3 difensori alzandosi la palla alle loro spalle, sprintando per superarli e poi calciando di collo in porta da dentro l’area di rigore.
* altri numeri realizzati in quel periodo.
Ci sono esempi migliori della capacità di Ibra di manifestare i propri poteri in momenti cruciali ma in questo gol che lo ha rivelato a uno dei più importanti osservatori internazionali, al tempo stesso, c’è qualcosa di Ibrahimovic che è possibile riconoscere solo a posteriori: solo sapendo cosa avrebbe fatto Ibrahimovic negli anni a seguire. Avendo visto tutto quello che abbiamo visto, che è anche tutto quello che non avremmo mai visto se Ibra non avesse usato il proprio talento come angolo su cui piegare la realtà e mettersela in tasca.
Guardando questo gol possiamo credere che Zlatan controlli la palla in quel modo, alzandola volontariamente alle spalle della difesa prima di superare in velocità tre giocatori, solo perché è Zlatan. Sarebbe un gesto troppo controintuitivo e gratuito (allora perché non lanciarsi sempre da solo in profondità?) e personalmente resto scettico, ma se mi chiedo: può il cervello di Ibrahimovic aver letto l’informazione della realtà – la palla che rimbalza leggermente dopo il passaggio del compagno – e aver reagito in maniera così creativa così velocemente? La risposta è: “Certo che può, è Ibrahimovic”. Non posso esserne certo, ma è senza dubbio una cosa che rientra nell’orizzonte delle possibilità di Ibrahimovic.
E c’è un’altra cosa su cui non ci sono dubbi: che la sola persona che più di Beenhakker, in quel momento, poteva sapere tutte le altre giocate che quel gesto conteneva in potenza, era lo stesso Ibrahimovic.
Persino il gol, più famoso, segnato con la maglia dell’Ajax al Nac, è interpretabile correttamente solo alla luce di quel che sappiamo sarebbe venuto dopo. La capacità di improvvisare di Ibrahimovic, però, poggia su una fiducia nei propri mezzi che ha qualcosa di mistico. Nei momenti di vera ispirazione Zlatan non è neanche arrogante, è solo una persona sicura di qualcosa che nessun altro può sapere.
Col passare del tempo il suo talento si sarebbe spogliato di qualsiasi forma di rancore e negli anni quella di Ibrahimovic sarebbe diventata una forma di superiorità imperturbabile (basta guardarlo mentre tira un calcio di rigore per intuire le mura altissime e il fossato con i coccodrilli dietro cui protegge i suoi pensieri). La superiorità di Ibrahimovic è una forma di contemplazione della sua stessa grandezza, Ibrahimovic che medita su Ibrahimovic.
Questa è anche la definizione della sua arroganza, come chiusura a tutto ciò che è esterno al suo stesso talento, la ragione per cui a molti Ibrahimovic non è mai andato giù, per cui anche grandi allenatori come Sacchi, o Cruyff (per nominarne due che non sono Guardiola) non lo hanno apprezzato fino in fondo. Perché il talento di Ibrahimovic non ha bisogno di un contesto ma di un palcoscenico, perché la sua ricerca è totalmente autoriferita.
Il suo unico commento ufficiale dopo l’infortunio è un post su Instagram in cui dice: “Una cosa è certa, deciderò io quando smettere e nient’altro”. Perché non credergli? In fondo, finora, ci ha sempre visto più lungo lui di noi, o no? Volere è potere. Non vale per tutti, ma per Zlatan sì.
«Io sono Zlatan, voi chi cazzo siete?»
di Marco D’Ottavi
A vent’anni io e i miei amici chiamavamo l’erba Zlatan. Avevamo vent’anni e l’onnipotenza che Ibrahimovic aveva portato nel campionato italiano ci sembrava andasse onorata in qualche modo, e che quello fosse un buon modo. Lo svedese era un unicum: ci sembrava che tutto gli riuscisse facile, naturale, che il compito che si era preso di spostare l’asticella più in là gli fosse piovuto dal cielo. Ma non è così: l’onnipotenza non è una caratteristica degli uomini, e per arrivare ad essere Zlatan™, Ibrahimovic ha dovuto lavorare duro dentro al campo, ma anche fuori, nel modo di relazionarsi con la realtà circostante.
Nella prima amichevole giocata con la maglia dell’Ajax, un Ibrahimovic praticamente sconosciuto salta con un elastico il difensore del Liverpool Hencoz. Dopo la partita – un po’ meno sconosciuto – va dai cronisti e dice: «All’inizio andai a sinistra e lui fece lo stesso; poi andai a destra e lui fece come me. Poi tornai ancora a sinistra e lui andò a comprarsi un hot dog».
Per costruire il suo personaggio Ibrahimovic ha dovuto spingersi all’estremo, esagerare il modo in cui vuole essere percepito, prima ancora che con le sue giocate con le sue dichiarazioni. Perché Zlatan™ viene prima di tutto, prima della squadra, prima della diplomazia, prima delle vittorie.
Come quando a 17 anni si rifiuta di fare un provino con l’Arsenal perché «Zlatan non fa provini». Non so se l’ha detto davvero in faccia a Wenger, e se l’ha detto non so se crede davvero a quello che dice, ma Zlatan si trasforma in Zlatan™ per vincere, perché in nessun giocatore personalità e talento sono così sfumate l’una nell’altro fino a formare un’unica armatura. E allora che lo dica, di essere Dio, che non c’è niente da guardare in una Coppa del Mondo senza di lui, che quello che Carew fa con un pallone, lui lo fa con un’arancia (a questa ci credo).
Perché essere onnipotenti è una croce se non ci credi fino in fondo, se non credi che anche dopo un infortunio grave, a trentacinque anni, puoi tornare più forte di prima. Se non ci credi non sei onnipotente, non sei Zlatan™.
La rivelazione bianconera
di Fabio Barcellona
Nel momento in cui è stato deciso di scrivere questo pezzo collettivo su Ibrahimovic, la mente nei suoi percorsi non sempre limpidi è andata a un gol realizzato dalla Juventus in una delle sue prime partite in maglia bianconera. Non è un gol suo, ma di Del Piero, però si dice sempre che bisogna fidarsi del proprio istinto e quindi ho deciso di scrivere di quest’azione, che tra l’altro ricordavo solo vagamente ma nella mia memoria ha avuto il sopravvento su tante altre più famose e determinanti. Ricordavo di un gol della realizzato in trasferta, contro una squadra pugliese, Lecce o Bari, in una partita vinta dai bianconeri per 1-0 sotto una pioggia battente e giocata su un campo bagnato ai limiti della praticabilità. YouTube mi ha aiutato a definire il ricordo: domenica 14 novembre 2004, 12° giornata di andata, Lecce-Juventus 0-1.
È la Juve che ha preso in panchina con grande clamore Fabio Capello dalla Roma, insieme a Emerson e Zebina. Arrivano a Torino anche Fabio Cannavaro dall’Inter e Zlatan Ibrahimovic dall’Ajax. In estate, agli Europei in Portogallo, Ibra ha segnato all’Italia con il suo “scorpione”, ma sembra difficile che, nonostante gol come quello, o come con il Nac, possa trovare subito spazio in un attacco che schiera Trezeguet e Del Piero come probabili titolari. Invece, prima del match di Lecce, Ibra gioca tutte le 15 partite ufficiali disputate tra serie A e Champions League, partendo dalla panchina solo 2 volte e segnando 5 reti. Per un tifoso bianconero non è semplice capire come uno tra i due mostri sacri in attacco possa essere escluso per far posto a un giovane, talentuosissimo certo, ma che fino all’anno prima aveva giocato solo in Olanda.
Poi arriva quest’azione, in una partita banale a Lecce. Camoranesi recupera un pallone e lo consegna ad Emerson. Ibra si apre sul fianco esterno del suo marcatore, Diamoutene, e il centrocampista brasiliano lo serve con una palla alle spalle del difensore del Lecce. Le qualità di Ibrahimovic non ancora così note, ma il difensore commette l’errore di provare ad andare al contrasto fisico: lo svedese controlla il pallone con il destro e fa perno sul corpo di Diamoutene e sul suo piede sinistro per ruotare di 180° superandolo. Poi, su un campo impossibile, Ibra si allontana dal raddoppio con l’interno destro e serve di sinistro, con freddezza, l’assist per Del Piero.
Quando ho rivisto l’azione, ho capito il motivo per cui mi è apparsa in mente per prima, sorpassando altre più spettacolari o importanti: per me un’epifania, il momento in cui mi apparve in tutta la sua chiarezza la grandezza di Ibrahimovic e il motivo per cui Del Piero o Trezeguet potevano stare in panchina a guardarlo giocare.