Conosci la tua squadra del giovedì sera: Aston Villa
Nel 1874 quattro uomini fondarono una squadra di calcio con uno scopo diverso da quello che potreste immaginare: restare in forma per il cricket durante la stagione invernale. Così trovarono una squadra di rugby da sfidare. Le condizioni del match erano strane ma affascinanti: metà partita con le regole del calcio, metà con le regole del rugby. Nell’ottocento erano molto più creativi e audaci di noi. La partita venne vinta dall’Aston Villa con gol di Jack Hughes. La squadra, dunque, si aggiudicò una coppa minuscola che cento anni dopo venne reclamata dal nipote di Jack Hughes stesso, che scoprì per caso che suo nonno era stato un membro fondatore dell’Aston Villa, e l’autore del primo gol della storia del club. Rimane la domanda: perché all’epoca si facevano coppe così piccole? Forse erano molto piccoli anche gli esseri umani che dovevano sollevarle?
Come avrete capito, stiamo parlando degli albori dell’Aston Villa ma in realtà parliamo degli albori del calcio. E quindi parliamo di come gli scozzesi hanno insegnato il calcio agli inglesi. Un giorno si presenta al campo del Villa questo George Ramsay e non sembra un granché, di bassa statura, senza muscoli. Poi però gli arriva un pallone tra i piedi e inizia a fare cose magiche. Non avevano mai nessuno muovere il pallone in quel modo. I giocatori dell’Aston Villa sono in estasi e lo rendono il loro capitano e il loro allenatore. La squadra diventa un’attrazione. Le persone riempiono lo stadio di Birmingham per guardar giocare “Scotty”. Nel 1876 Ramsay fa venire dalla Scozia un altro genio, il centravanti Archie Hunter, e insieme fanno proselitismo su un nuovo approccio al calcio: il passing game. In Scozia avevano capito qualcosa di essenziale sul calcio che agli inglesi continuava a sfuggire, ovvero che passarsi la palla è più redditizio che provare a correre davanti a sé credendo che il calcio fosse sostanzialmente rugby. In una linea evolutiva immaginaria del calcio attraverso il possesso palla, mettiamo l’Aston Villa di Ramsay nel punto iniziale e la Fluminense di Diniz in quello finale. Forse ancora prima ci andrebbe il Queen’s Park, la squadra di Glasgow che ha formalmente “inventato” il passing game. Nel 1882 Ramsay si ritira per un infortunio, nel 1886 viene nominato allenatore della squadra. È il primo manager della storia. Ramsay non si occupava solo di allenare la squadra ma, col supporto di un professore di educazione fisica, sceglieva anche gli acquisti e costruiva la rosa. Col tempo si è formato un “comitato” che aveva il compito di decidere sui nuovi acquisti. Manterrà la posizione fino al 1926. «L’Aston Villa è sempre stato il mio amore. Ho piantato il seme e ho visto nascere una quercia».
Ramsay ha contribuito a formare l’idea dell’Aston Villa come squadra che non non si batte con la forza ma con l’intelligenza, non col vigore ma con l’eleganza. Uno dei primi club al mondo ad avere un approccio più o meno scientifico, o comunque rigoroso, non basato su valori astratti (tipo l’amicizia tra uomini ricchi). Howard Spencer descrive questo stile Aston Villa - mes que un club - in una citazione sul lavaggio del cervello che facevano ai nuovi arrivati: «Ci piace prendere i giovani e insegnargli un particolare stile. Uno stile difficile da descrivere, ma diciamo che preferiamo giocatore bravi a controllare il pallone e nel gioco di squadra».
L’Aston Villa è la migliore squadra dell’epoca Vittoriana.
La Banter Era, però, arriva per tutti, e ha tratti comuni a ogni angolo del pianeta. Nel 1936 l’Aston Villa retrocede per la prima volta in Seconda Divisione. Quando ha iniziato a giocare il club non esisteva nemmeno, la seconda divisione. Il motivo della retrocessione una fase difensiva allucinante, con 110 gol subiti in 42 partite.
A restituire l’Aston Villa al calcio ai massimi livelli è stato il grande allenatore Jimmy Hogan, che paragonava il calcio al Valzer Viennese: «Un, due, tre, passaggio, movimento, passaggio movimento». Stupendo. Tutta questa leggerezza viene spazzata via dalla Seconda Guerra Mondiale. Inizia una nuova Banter Era, che si interromperà solo negli anni ’80. L’ultima vittoria del campionato dell’Aston Villa risale al 1980/81. Se avete un’oretta e mezzo da perdere ecco una ricostruzione di quella vittoria.
L’Aston Villa resta una delle squadre più titolate del calcio inglese, e questo nonostante abbia vinto un solo campionato nell’ultimo secolo. E tuttavia non è sparito come altri club. Continua a essere una squadra importante per l’ecosistema britannico, quasi sempre in Premier League, e che oggi sta vivendo un nuovo periodo d’oro con Emery in panchina. Stiamo parlando di uno dei club più importanti per la nascita del calcio, anche se oggi abbiamo la sensazione che rappresenti una specie di intrusa nelle competizioni europee. Una situazione che dovrebbe farci interrogare sulle nostre prospettive storiche sul calcio, quando parliamo di club “storici”, “tradizionali” e altri invece che si sono comprati la gloria col denaro. Tutte distinzioni contraddittorie.
5 modi per distinguere l’Aston Villa dal West Ham
Cercate un animale sulle divise. L’Aston Villa ha un leone nello stemma; il West Ham dei martelli.
L’Aston Villa: Castore; West Ham: Umbro
Cercate il calciatore più muscoloso che ci sia mai capitato osservare. È Michail Antonio, se lo trovate allora è il West Ham
Allenatore moro ingelatinato: Aston Villa; allenatore rugoso, slavato e scozzese: West Ham
Lanciano lungo: West Ham; non lanciano lungo: Aston Villa
4-4-2 difensivo disegnato col goniometro: Aston Villa; cross per Soucek: West Ham.
Che giocatore del Viktoria Plzen sei
Matej Vydra
Quella mattina cerchi di fare quello che fai ogni mattina. Ti alzi, fai pipì, ti sciacqui la faccia. Riempi la moka, attento a non pressare il caffè. Metti il burro e la marmellata di fragole su due fette di pane moscio. Allacci i bottoni della camicia con la rassegnazione del condannato a morte, e ogni bottone è una piccola puntura di spillo sulla tua stanchezza cronica. Sono 9 bottoni ogni mattina, più le scarpe da allacciare, la giacca da infilare, la borsa da riempiere e da mettere a tracolla. Ciascuna operazione ogni si carica di una fatica profonda che ti scava dentro. Ma quella mattina non senti niente, le mani vanno in automatico, infili i bottoni senza esitazioni, non pensi a niente. Ti senti leggero, anzi, vuoto, ed è una sensazione che ti dà alla testa. Provi a non pensarci, a non spezzare l’incantesimo. Scendi i gradini del condominio uno a uno e non un solo pensiero ti attraversa. Devi rimanere puro e incontaminato. Sono 40 minuti di camminata fino all’ospedale, andando a passo svelto. Per la strada troverai qualcosa di aperto, per comprare gli ultimi fiori per papà.
Pavel Sulc
Non hai avuto scelta. Sentivi che quella era la tua unica possibilità per non perderla. Non hai nemmeno pensato alle conseguenze. Una coppia aperta. Non ci avevi mai pensato. Che significa davvero? Come farla funzionare? Sapevi che lei voleva esplorare relazioni, rapporti e momenti; tu invece volevi solo stare con lei. Ti era sembrata una soluzione logica, e lei l’aveva trovata nobile, comprensiva. Siete tornati insieme, hai ottenuto quello che volevi. Ora però non sai davvero cosa fare, come dovresti comportanti. Senti nascere in te un sentimento nuovo, che non avevi davvero mai provato: la gelosia. Sai che è un sentimento tossico, di possesso, legato alla società patriarcale dentro cui sei nato e cresciuto. Eppure non sai come reprimerlo, ora che avete quella specie di accordo, fatto per di più su tua richiesta. Potresti usarlo anche a tuo vantaggio, farti le tue storie, è vero, ma in realtà non ci pensi nemmeno. Non è proprio nei tuoi pensieri. E così ti ritrovi invischiato in questo conflitto fra la parte più sana e razionale di te, e quella più oscura e paludosa. Dipende dai momenti. A volte porti questo peso con grazia, in quel momento non sai come fare.
Come si controllano i pensieri? Forse dovresti leggere qualche filosofo orientale. Hai il culo appiccicato al divano, ci sono 35 gradi alle dieci di sera e stai bevendo una Peroni da 33. Hai messo un film ma lo hai messo in pausa per scrollare, e hai visto una storia di lei con un tipo. È al mare e tu sei rimasto in città a lavorare. Sai più o meno chi è quel tipo; non lo conosci, ma sai chi è. Inizi a visualizzare le scene più crude ed estreme perché c’è una parte di te che vuole farti del male. In quel momento la odi. La odi per qualcosa che esiste solo nella tua testa. Dai un sorso di birra, ti accendi una sigaretta, ti ributti sul divano, rimetti la storia. È il giardino di una casa al mare, ci sono altre persone, l’ha ripostata venti minuti fa. È una festa, vi siete scritti in giornata ma non ti aveva parlato di questa festa. Ha qualcosa da nascondere. Rimetti la storia, cerchi dettagli. Due tizi che flirtano dietro, lei ride, lui la spinge via. Si diverte. La guardi, la riguardi, infine metti like.
Vieni a giocare il gioco del Dibu
Proprio quando pensavamo che il giovedì sera non avesse più niente da dare, ecco qui: Emiliano Martinez, my man. La sua esuberanza nella lotteria dei rigori era diventata un tema dopo Francia-Argentina, finale del Mondiale, ma - paragonato a ciò che ha fatto ieri - è stato niente. Questa è la realtà in cui viviamo: un quarto di finale di Conference League che oscura il singolo evento più importante di questo sport (più o meno dai), tra insulti, balletti e sconosciute postille del regolamento.
Ma partiamo dall’inizio, perché le cose sono tutte connesse, come piccolissimi atomi a forma di pallone. I tifosi del Lille hanno fischiato e insultato il Dibu per tutta la partita, proprio perché francesi, e per i francesi il Dibu è un nemico, come una dieta povera di burro e i tedeschi. E lui non ha fatto nulla per non farsi insultare: al 39’ si è fatto ammonire per perdita di tempo (ricordatevelo), qui e lì è stato autore di grandi parate che hanno spinto l’Aston Villa fino ai rigori, mentre i francesi - indefessi - continuavano a insultarlo. Ignoravano però che il portiere argentino di questo odio si ciba come se fossero proteine per un palestrato, lo brama, lo fa crescere.
Poi sono arrivati i rigori. Per il Dibu, quella che è universalmente riconosciuta come una sfida tra rigorista e portiere, è invece una sfida tra sé stesso e il resto del mondo, una guerra sporca che si gioca con la psicologia. Guardate come costringe Bentaleb a correre per prendere il pallone, ma comunque ci arriva prima lui. È lui a possedere il pallone, e - sempre lui - a darlo all’avversario. Sembra che per lui ci sia qualcosa di sessuale qui, una specie di gioco tra dominatore e dominato.
Non è una psicologia raffinata la sua, ma forse - invece - lo è. Col suo fisico tarchiato, la faccia da bullo, Martinez si sputa sopra i guanti, saltella sulle punte, scruta Bentaleb in cerca della sua anima e la trova nell’angolo in basso alla sua sinistra. Non una parata banale. Ma è quello che fa dopo la parata, il vero gioco del Dibu. Come se il mondo fosse la sua ostrica si gira verso i tifosi del Lille e, dito al naso, li invita a stare zitti. Questo è il mio spettacolo, gli dice, li sfida, per secondi interminabili.
Poi però succede una cosa che ci ricorda che non siamo in una finale dei mondiali, ma in un normalissimo e surreale giovedì sera. Martinez fa un gesto che le telecamere non riprendono, forse continua a zittire il pubblico, forse balla, forse calcia via un pallone. Fatto sta che arriva l’arbitro e lo ammonisce. A rivederlo è un momento obiettivamente incredibile. Watkins che sta andando a calciare il suo rigore è incredulo, il Dibu perde tutta la sua spavalderia, Douglas Luiz già si immagina costretto a parare lui. Questo perché - tecnicamente - sarebbe il secondo giallo. Si apre una prospettiva in cui l'Aston Villa deve affrontare i rigori senza il portiere.
Cosa succede ora? Entra il secondo portiere? Un giocatore si infila i guanti? Tirano in una porta vuota? L’arbitro però fa un cenno con le braccia. In diretta sembra si sia rimangiato la sua decisione, una cosa semplicemente mai vista. Martinez fa il vago, ha la faccia di chi ha ricevuto una seconda possibilità direttamente dal padreterno, si allontana. La realtà, forse, è ancora più incredibile: la ifab law 10 nella sua postilla 3 dice che, prima dei rigori, i gialli si azzerano. È proprio vero che non si finisce mai di imparare (rimane da scoprire se, almeno, sarà squalificato per la prossima, ma questa è una rubrica del cazzo, non Forum).
I tifosi tornano a fischiare, vediamo un replay: l’arbitro lo ha ammonito pensando che Martinez continuasse con la sua sceneggiata, ma in realtà stava solo chiedendo un pallone. Esiste una giustizia divina e si manifesta il giovedì sera?
Watkins segna, invece di esultare va dal suo portiere a dirgli di starsene buono, che obiettivamente non si può far buttare fuori proprio ora. Effettivamente aver visto il baratro davanti ai propri occhi spegne Martinez, che perde molta della sua tracotanza. Continua a saltellare, ma tiene la sua energia da malvagio dentro di sé, non si esprime, non parla, non complotta. Subisce inerme i tiri di David, Gomes e Cabella.
Si arriva all’ultimo rigore di Benjamin André. Se para l’Aston Villa passa, se subisce gol si va a oltranza. L’importanza del momento riaccende il Dibu, che guarda André come fosse un bambino, lo indica, forse dice qualcosa. Poi para. A quel punto capiamo chi è il suo nemico, non una squadra ma una Nazione: la Francia. Martinez si gira, mostra il suo corpo ai tifosi, accenna un balletto sfacciato, rompe la quarta parte.
Uno strano fischio dell’arbitro, lo riporta alla realtà. Martinez si gira, il dubbio torna ad attanagliarlo. E se ora glielo fa ripetere? E se mi espelle? E se, alla fine, la mia snervante spavalderia mi si è ritorta contro? Il tutto dura però solo qualche secondo, il mondo torna al suo posto, il Dibu può tornare il Dibu, il miglior portiere al mondo nel fare la cosa peggiore al mondo.
Organizza la tua trasferta: Leverkusen
Insomma, diciamoci la verità: se non andate a Leverkusen ora, non lo farete mai più. E forse sarebbe meglio così: Leverkusen ha circa gli abitanti di Perugia, ma è molto, molto, molto, molto più brutta. Non c’è neanche una sfumatura ironica nella sua bruttezza, da architettura brutalista sovietica o da borgo kitsch. No, è brutta in maniera diretta, netta, come possono essere brutte le città cresciute intorno a una fabbrica di aspirine (in realtà saresti a due passi da Colonia, quindi vatti a vedere Colonia, però la rubrica è questa, neanche posso far finta che sia la Lonely Planet e non il bello del giovedì). Comunque, andiamo.
Un’insegna pubblicitaria: Bayer-Kreuz
Semplicemente la più grande insegna luminosa pubblicitaria al mondo. È una specie di bat-segnale, ma per le aspirine, una luce che rompe la monotonia delle notti nella Renania Settentrionale-Vestfalia. Quando gli abitanti di Leverkusen la scorgono, sanno di essere a casa.
Realizzata nel 1958, la sua peculiarità - oltre al fatto di essere enorme e di svettare sopra una fabbrica di chimica farmaceutica - è di non essere un’insegna fissa, ma è composta da lampade legate su delle corde, a loro volta legate a degli alberi. Questo dà all’insegna una certa mobilità e quando c’è vento, di notte, potrebbe sembravi di vedere la scritta a croce Bayer fluttuare nell’aria. Per illuminare il display sono necessarie 1.712 lampadine da 40 Watt. Costo della bolletta: non pervenuto.
Un po’ d’Asia: il giardino giapponese di Leverkusen
Solitamente tra i consigli di cosa vedere a Leverkusen ci sono due cose: lo stadio e questo giardino, dove si può trovare un angolo di Giappone. Questo, secondo me, dice molto di questa città, ma comunque: il Giappone è lontano e, se vi ha detto male e siete a Leverkusen e non effettivamente in Giappone, magari fateci un salto.
È stato realizzato nel 1912, su iniziativa del direttore generale della Bayer, per dare un posto dove passeggiare ai suoi impiegati: il capitalismo nella sua versione più paternalistica. Ancora oggi è molto usato per le pause pranzo dei dipendenti. Non è molto grande, ma è ben curato e, come tutti i giardini, i colori cambiano in base alle stagioni. C’è una pagoda, un sacco di statue dal gusto orientale e piante esotiche: questo, credo, è più di quello che si può dire della maggior parte dei giardini della vostra città.
Una statua: Paulinchen
Pauline Pohnke, detta "Paulinchen", arrivò a Wiesdorf - il vecchio borgo da dove sorge Leverkusen nel 1907. Da quel giorno, ogni mattina, fino a quasi la sua morte, avvenuta nel 1980, Pauline portava a spasso per il paese le sue mucche. Tutti la conoscevano e scherzavano con lei, soprattutto i bambini di Leverkusen. Durante il nazionalsocialismo fu una dissidente, una delle poche. La sua statua non è solo un omaggio a una figura storica, ma anche un simbolico ponte tra l’antica anima rurale di queste terre e l’odierno spirito industriale portato dalla Bayer.
Un museo: Industriemuseum Freudenthaler Sensenhamm
Cos’è? Un museo delle falci. Anzi, più nel dettaglio, un museo sul processo di produzione industriale di una falce. Vi siete mai chiesti come si fa una falce? A Leverkusen potete scoprirlo. Sembra un oggetto banale, ma - pensateci - fa parte del simbolismo di due delle cose più importanti della nostra storia: il comunismo e la morte, due cose inevitabili. Come sarebbe il nostro mondo senza falci? Io credo un posto peggiore, per questo è giusto omaggiare la falce con una visita a questo museo.
I migliori gol sbagliati dalla Fiorentina
42 tiri, di cui 26 in area e 10 nello specchio, 4.07 xG creati, 3 legni, 19 calci d’angolo, 73% di possesso palla: contro il Viktoria Plzen era la classica partita che la Fiorentina non poteva far altro che perdere. A ogni tiro mandato sul palo contro qualsiasi legge della fisica, a ogni riflesso del Gordon Banks mittleuropeo, Martin Jedlička, la squadra di Italiano sembrava avvicinarsi inesorabilmente alla sua eliminazione. Il gran gol d’esterno in area di Nico Gonzalez per una volta ha evitato una profezia che sembrava dovesse autoavverarsi, ma oggi rimane lo sforzo titanico della Fiorentina per non segnare; quella sottile, inconscia voglia di farsi del male nel più subdolo e masochistico dei modi. Per celebrare questa opera d’arte dedicata all’inefficienza, eccovi le migliori occasioni in cui la Fiorentina è riuscita a non segnare.
Inizia la lotta contro la porta del Gallo
Passano cinque minuti e ci stiamo già chiedendo come ha fatto Belotti a non mettere la palla in porta. Su una grande progressione di Kouamé a sinistra, il Gallo allunga la gamba e ha anche la fortuna di far rimbalzare il pallone a terra, ma Jedlička si allunga all’altezza perfetta per respingerlo, come se fosse una stecchetta di Pong. «In passato mi è riuscito spesso di mandare tanto in gol le punte, oggi c'è qualche maledizione o macumba che dobbiamo togliere», aveva detto Italiano nella conferenza pre-partita. Ma non è questo il giorno, Vincenzo.
Pochi secondi dopo Kouamé si librerà in aria per colpire il pallone di testa e mandarlo sul secondo palo ma un difensore del Viktoria lo salverà praticamente sulla linea.
Che cos’è un gol sbagliato?
Il confine tra un’occasione in cui, con un po’ di fortuna e bravura, si poteva segnare e una in cui non si poteva non segnare è più sottile di quello che pensiamo. Al 55esimo arriva una palla alta verso l’area del Viktoria che non sembra avere pretese, una di quelle palle che è impossibile che entri in porta. Viene spizzata verso il centro da Belotti, poi rimbalza maldestramente sulla coscia di Mandragora. È una di quelle occasioni in cui nessun tifoso di buon senso spreca energie mentali sperando che entri. Ma nessuna persona di buon senso potrebbe mai tifare Fiorentina. Mandragora riesce in qualche modo a controllare quel pallone, se lo alza un po’ casualmente sopra la testa e in qualsiasi universo finisce in tribuna, o a terra, sbucciato da una caviglia lanciata in aria a caso. L’universo della Fiorentina di Italiano non è però un universo qualsiasi: è l’universo in cui Mandragora si coordina alla perfezione, colpisce di collo pieno e manda il pallone a pochi centimetri dalla traversa. L’universo in cui anche questa occasione ti fa sperare che si trasformi in gol solo per deluderti.
Un’altra parata senza senso di Jedlička
Azione in verticale a velocità supersonica. Una slavina che scende minacciosa verso la porta avversaria. Nico Gonzalez allarga per Beltran, che chiude il triangolo. Il 10 della Fiorentina allarga per Dodò, che di prima mette un passaggio basso velenosissimo al centro dell’area. È gol? Ma no che non è gol.
Palo di Belotti
È passato un minuto da quest’ultima occasione, il telecronista internazionale non ha nemmeno finito di dire che Kouamé non può crederci che la palla non è entrata, che la Fiorentina ha già preso il suo primo legno della serata.
Chi ha fatto palo? Già lo sapete.
Belotti ha segnato 7 gol in stagione: non una performance disastrosa. È il contrasto tra l’impegno che ci mette nel portare la palla verso la porta e i modi sempre nuovi con cui non riesce a metterla dentro la porta ad essere irresistibile. In campionato ha segnato un solo gol da 2.39 xG, secondo StatsBomb. In Europa League non abbiamo i dati ma possiamo solo immaginare. «Tutti ci aspettavamo qualche gol in più da parte sua, dobbiamo essere sinceri», ha ammesso Italiano nella conferenza stampa pre-partita. Lui si è dannato l’anima per provare a ripagarlo ma niente. All’82esimo, pochi secondi prima di uscire dal campo, Dodò gli aveva messo una palla perfetta per lo stacco vincente in area ma come Aldo Baglio da sotto la sabbia è spuntato Nico Gonzalez per anticiparlo e mandare la palla sul fondo. Il destino ha guardato il Gallo coi suoi occhi.
Perché rovinare una bella azione con un gol?
Filtrante visionario di Mandragora, primo controllo che si vede raramente anche in Champions League: ci sono azioni talmente belle che sarebbe di cattivo gusto rovinarle con un gol.
La Fiorentina di Italiano sembra ripetersi questa frase in testa quando gioca. Altrimenti come spiegarsi anche questo:
Con quale parte del corpo ha deciso di colpire Nico Gonzalez? Cosa gli è passato per la testa in quella frazione di secondo? È questa quindi la famigerata macumba di cui parla Vincenzo Italiano? La perfezione non è di questo mondo, sembra urlarci la Fiorentina, ricordatevi che tutto nasce solo per morire.
Mondo uguale ma Win Butler degli Arcade Fire concepisce My Body is a Cage guardando Veretout attanagliato dai crampi nei supplementari di Marsiglia-Benfica
My body is a cage
That keeps me from dancing with the one I love
But my mind holds the key
I'm standing on a stage
Of fear and self-doubt
It's a hollow play
But they'll clap anyway
Cosa ha detto Gasperini a Klopp?
Subito dopo il fischio finale di Atalanta-Liverpool, Gasperini si è avvicinato a Klopp. Sono seduti allo stesso tavolo ora, da pari. L’allenatore dell’Atalanta lo abbraccia, con quella prossemica a favore di telecamera. Con la mano gli batte il petto e gli dice qualcosa di solenne. Klopp annuisce, gli tocca la testa. La mimica degli allenatori è sempre teatrale.
«Napoleone stesso diceva: in genere un piano di battaglia non sopravvive all'incontro con il nemico»
Il momento più giovedì sera
Virilità: 100
Assurdità: 100
Anti-epicità: 100
Paura della morte: 100
E se Leonardo Bonucci fosse sempre stato uno di noi? Se cioè tutta quella storia - il sciacquatevi la bocca, il mental coach, le caramelle all’aglio, vincere è l’unica cosa che conta, spostare gli equilibri, mangiare la pastasciutta, eccetera eccetera - fosse solo il modo in cui il difensore per tutta la carriera ha cercato di smarcarsi dalla verità? Da quando nasciamo siamo tutti soli e ognuno sceglie come combattere la propria guerra, anche Leonardo Bonucci. Il giovedì sera, la sua vera essenza, è proprio questa: siamo tutti sulla stessa barca, siamo tutti figli di questo stato d’animo, questa perenne sensazione nello stomaco di quarti di Conference League e paura di morire (tranne Cristiano Ronaldo).
Per tutti quei motivi qui sopra, pur rispettandolo, Bonucci non mi è stato mai simpatico, per quel che vale. Quando però l’ho visto entrare al 121esimo di un surreale Fenerbache-Olympiacos che si stava trascinando ai rigori ho capito: avevamo sbagliato noi, lui è uno di noi. Che avrebbe sbagliato il suo rigore, a quel punto era certo. Esistono delle regole implicite nel calcio, che anche se non sono suffragate da dati e statistiche sono inevitabili: gol mangiato gol subito, chi entra per tirare il rigore lo sbaglia. Ma non è questo. I rigori li sbaglia solo chi li tira, e si potrebbe dire che sbagliare un rigore fa parte della vita tanto quanto la morte. È come si è creata l’epifania, come ogni singolo dettaglio ha collaborato a creare quel momento che lo rende tanto speciale.
Potrei farvi vedere tutte le volte in cui il Fenerbahce è andato vicino a segnare il secondo gol e non arrivare ai rigori, o che - forse - se non ci fosse stato recupero Bonucci non avrebbe fatto in tempo a entrare. Ma basta solo vedere il rigore di Rodinei per capire. L’avete visto il rigore di Rodinei? Se avesse segnato, l’Olympiacos avrebbe vinto e Bonucci non avrebbe mai calciato il suo rigore. Invece è successo questo.
Il libero arbitrio non esiste, dice la meccanica quantistica. «Un'assurdità logicamente incoerente» l’ha chiamato Sabine Hossenfelder e guardando questo rigore e quello che succede dopo verrebbe voglia di crederci. Davvero Bonucci è artefice del suo destino? Davvero non sta semplicemente accadendo quello che doveva accadere, deciso da una forza deterministica che si è imposta sul pallone e tutto ciò che lo circonda? Quando Bonucci arriva sul dischetto, ormai, è inevitabile. Uno stadio da 50 mila tifosi non può remare contro milioni di miliardi di atomi.
Bonucci può fare la sua faccia - quella faccia - per mascherare quello che succederà, ma è il primo a saperlo: il suo destino del giovedì sera - Virilità, Assurdità, Anti-epicità e Paura della morte - sta per compiersi. Bonucci si presenta sul dischetto, apre il piatto alla sua destra, proprio lì dove il portiere dell'Olympiacos si era sempre tuffato e parato di rigori precendenti. Questo perché, se è scritto, deve compiersi.
E dopo non ci sono scuse, non ci sono cani e leoni, non c’è più nulla. Solo un eterno senso di compiuto, un caldo accogliente nel profondo. La sensazione che, finalmente, tutto è compiuto.
Nuovi mestieri della crisi
Ci hanno detto che il mondo cambia, che non stiamo perdendo lavori, contratti decenti, certezze. Siamo solo in un’epoca diversa, dove la competizione oscura il posto fisso, il mindset l’impegno. Possiamo essere chi vogliamo, ma dovremo esserlo a partita IVA, oppure a pochi euro in città dagli affitti astronomici. Dobbiamo inventarci i mestieri, perché le richieste ci sono, dobbiamo intercettarle noi: che pretendete. E allora eccola una nostra proposta: reinventatevi steward con lo scudo che proteggono Angel Di Maria quando va a battere un calcio d’angolo al Velodrome.
L’eroe che nessuno si è filato e che arriva dal Barcellona
Ferran Jutglà è catalano e come tutti i catalani è cresciuto nell’Espanyol per poi andare al Barcellona. Quanto manca dal momento in cui il calcio sarà composto esclusivamente da calciatori passati per il Barcellona? La sua storia è curiosa: dopo aver giocato nelle leghe minori spagnole, ha firmato da svincolato per il Barcellona B. Qualche mese dopo, però, era in prima squadra, esordendo e segnando anche due gol. Quanto siamo lontani da un mondo in cui ogni catalano segnerà almeno un paio di gol per il Barcellona?
Comunque quel momento non è durato. Oggi Ferran Jutglà ha 25 anni e gioca nel Club Brugge. Non è uno di quei giovani talenti sulla bocca di tutti, che finiranno in un top club a suon di milioni. La sua carriera, probabilmente, si giocherà su questi campi: in campionati come quello Belga, portoghese, olandese, se gli dice bene un giro in Bundesliga. Ieri però è stato l’eroe di un club che non centrava una semifinale europea del 1991/92. Ferran Jutglà ha segnato i due gol che hanno eliminato il Paok, due bei gol. È stato eletto il migliori giocatore del turno, ma a nessuno è importato. Sarà un problema della Fiorentina tra qualche settimana.
Curiosamente due giorni prima, a Barcellona, una squadra blaugrana veniva eliminata ai quarti, non riuscendo a segnare i due gol che gli sarebbero serviti per andare avanti.
Baci meno immortali di quello presunto di Vincenzo Italiano
Ieri dopo il gol del 2 a 0 è successa una cosa troppo strana per non parlarne. Vincenzo Italiano ha avvicinato una donna dietro la panchina e l’ha baciata. Almeno così è sembrato in diretta, la donna era coperta da un pensante cappuccio e l'accaduto è stato piuttosto dedotto da chi guardava. Dopo, ovviamente, internet è andato a fuoco. L'argomento è stato più trattato della partita tra Roma e Milan. Si è scoperto che quella donna era Vanessa Leonardi, inviata di Sky. A riguardare le immagini è facile vedere una realtà molto meno pruriginosa: Italiano le stava dicendo qualcosa all'orecchio.
Un bacio - o non-bacio - che ricorderemo per sempre e che abbiamo deciso di onorare con una breve lista di baci immortali, che comunque lo sono meno di questo.
Il bacio di Giuda, Amore e psiche, Romeo e Giulietta, I ragazzi che si amano si baciano in piedi / Contro le porte della notte / E i passanti che passano li segnano a dito, Il marinaio bacia la crocerossina a Times Square: la guerra è finita. Leonid Breznev ed Erich Honecker, Il bacio tra il capitano Kirk e la comandante Uhura, Il bacio di Michael Corleone al fratello ne Il padrino II, Britney Spears e Madonna.
Cosa si prova a buttarsi spalla-spalla con Romelu Lukaku?
Ieri Gabbia è stato un sognatore. Ha fatto quello che dovremmo fare tutti almeno una volta nella vita: tentare l’impossibile, essere folle, affamato. Imitare i Steve Jobs di questo mondo, prendere un’idea e renderla un prodotto.
Non è andata bene, ma - come si dice - non c’è sconfitta nel cuore di chi lotta.
Quanto è grande l’impresa dell’Atalanta
«Per me è veramente un trofeo straordinario quello che si è verificato nell’intervallo», ha detto Gasperini raggiante dopo aver raggiunto la semifinale «Perché noi siamo partiti per aggredire forte, per impedirgli di giocare, ma da subito, già da vicino il portiere a costo di esporci alla loro velocità che è straordinaria, alla loro tecnica. Sapevamo che ci sono tanti modi per impedire a una squadra di esprimersi al meglio. Ci sono tanti modi per difendersi, noi abbiamo scelto questo che poteva creare anche qualche svantaggio, qualche difficoltà, qualche male al cuore spesso. E nell’intervallo quando ho provato a chiedere: “Volete che ci abbassiamo un po'?”, ce ne fosse stato uno che ha detto di sì. Noi li andiamo a prendere e la mettiamo su quel piano, perché l'Atalanta è questa».
Quando ieri l’Atalanta ha subito il gol dello 0-1 dopo poco più di cinque minuti tutti abbiamo pensato che sarebbe potuta finire male. Le rimonte impossibili sono il pane e burro la mattina per squadre come il Liverpool di Klopp, e non c’è modo migliore di avviarle che con un gol di Mohamed Salah. La squadra di Gasperini avrebbe potuto snaturarsi, più per paura che per scelta. Abbassarsi e guardare l’orologio non muoversi mai. Vedere Salah, Luis Diaz e Darwin Nuñez fare i diavoli a quattro in area. E invece ieri, passato il primo quarto d’ora di bufera, abbiamo visto la partita che abbiamo visto molte volte con la squadra di Gasperini. Marcature a uomo a tutto campo, intensità, combinazioni in verticale. L’Atalanta è questa, come ha detto Gasperini con inusuale e involontaria poesia.
I nerazzurri hanno avuto anche le loro occasioni. Una palla geniale di mezzo esterno di Scamacca in area che Miranchuk non è riuscita a controllare. Una serie di conclusioni tentate in area all’inizio del secondo tempo, terminate con un tiro debole da dentro l’area di Ederson. Persino un gol annullato a Koopmeiners, su un filtrante verticale al gusto di Xabi Alonso di De Roon, fermato solo per qualche centimetro di fuorigioco.
Forse per estrarre il significato più grande di questa qualificazione in semifinale bisogna guardare a questa partita per quello che è stata. Il Liverpool è arrivato a Bergamo con l’intenzione di giocare con la squadra titolare, quindi di recuperare il risultato, e l’Atalanta se l’è giocata, sia in senso letterale (nel senso che ha fatto la sua partita) sia in senso figurato (nel senso che la partita è stata equilibrata non solo nel risultato). Questo non ci dice niente sul valore della Serie A, qualsiasi cosa significhi, e sul suo livello rispetto agli altri campionati: la grandezza dell’impresa fatta dall’Atalanta la si può capire solo ammettendo che il Liverpool è una delle squadre più forti del campionato più competitivo al mondo.
Cose che accadono solo il giovedì
Proprio quando pensavamo che fosse tutto finito, è tutto risorto. È stato un grande giovedì, non possiamo negarlo. Ci ha ricordato quando non odiavamo questa rubrica, quando ancora non eravamo schiavi di questa pseudo-realtà che ci siamo costruiti con le nostre mani, un mondo posticcio fatto di portieri che pasticciano, attaccanti bolsi, tifosi pazzi, climi ostili, storie millenarie, eventi casuali. C’è stato tutto ed è un bel senso di chiusura. Rimane questa meta-meta rubrica, uno spazio di chiusura per dirci che è stato bello e chissà che non possa ritornare prima o poi.
La Conference League, ma in direzione ostinata e contraria
L’Europa League, but we flip the bird
L'Europa League ma ci siamo scordati come si gioca a calcio
Il silenzio del Sukru Sarakoglu
Ho conosciuto il silenzio delle stelle e del mare
e il silenzio della città quando si placa
e il silenzio di un uomo e di una vergine
e il silenzio con soltanto la musica trova linguaggio
il silenzio dei boschi
prima che sorga il vento di primavera
Scrive Edgar Lee Master, che non ha conosciuto il silenzio dello stadio Sukru Sarakoglu appena prima del calcio di rigore di Djiku. Appena prima del quinto rigore del Fenerbahce, quello che avrebbe potuto segnare l’eliminazione anticipata. Un silenzio di attesa e paura, un silenzio di rispetto per il tiratore. Un silenzio gravoso e nero come il piombo. Un silenzio che allaga il tempo e lo spazio. Un silenzio spaventoso, più vasto dell’uomo e dell’universo. Un silenzio inconcepibile, e magnetico, dentro cui sprofondare. Un silenzio d’anti-materia, che tutto il giovedì sera risucchia e fa scomparire, fino alla prossima stagione.