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Stefano Borghi
Il bellissimo tramonto di Mascherano
23 feb 2017
23 feb 2017
Cosa aspettarsi dall'ultima vita calcistica del Jefecito.
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Stefano Borghi
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Nella disastrosa ultima uscita del Barça in Champions League, al Parco dei Principi, ai blaugrana sembrano essere venute a mancare molte delle certezze abituali. L’assenza di Javier Mascherano, per quanto probabilmente non del tutto decisiva, ha comunque contribuito ad amplificare una generale sensazione di manchevolezza, tanto in difesa quanto a centrocampo, dove il “Jefecito” è tornato spesso a gravitare negli ultimi periodi.


 

C’è un dato interessante, riguardo a Mascherano.


Per sei stagioni consecutive, dal 2008 al 20014, il giocatore del Barcellona con più passaggi per partita è stato Xavi. Nel 2014-15 Jordi Alba, e nella stagione successiva Piqué. In quella in corso, invece, il primato è saldamente nelle mani di Javier Mascherano. Se da una parte non possiamo assumerlo come dato incontrovertibile del decadimento del centrocampo culé, dall’altra rende evidente come il Barça si sia trasformato, nel giro di una decade, dalla squadra dei più grandi palleggiatori del mondo a quella che punta tutto sul tridente più forte del mondo. 


 

In un pezzo di commento all’ultimo Clásico apparso su uno dei due principali quotidiani sportivi madrileñi si individuava in Mascherano una delle sei chiavi della crisi del Barça. «Il miglior Mascherano è già passato» era il titolo dell’approfondimento a lui dedicato.


 

È oggettivo che in questa stagione abbia avuto molti più problemi del solito. Ha commesso tanti errori, sia nel Barça che in Nazionale: alcuni sono passati in cavalleria, perché risultati ininfluenti; ma altri sono stati dolorosamente dispendiosi. Alcuni esempi: la lettura sbagliata che ha spalancato la strada della gloria al Paraguay a Mendoza, l’errore contro il Perù o gli inauditi tentennamenti in Barcellona-Alaves 1-2 e Real Sociedad-Barça 1-1.


 

Mascherano a giugno compirà trentatré anni, e il dubbio che il fisico cominci a presentare il conto è legittimo. Un calo che, per quanto endemico, finisce per influenzare la percezione di un giocatore che ha intessuto la sua narrativa sul concetto di garra, che tendiamo ad associare a un guerriero, che esaltiamo per il suo agonismo. Ma spesso un calo del tono fisico si accompagna a un abbassamento della tensione mentale: tanti dei suoi errori derivano da letture sbagliate. Mascherano ha perso palloni che eravamo abituati a considerare in banca o a sbagliare i tempi dell'intervento. Potrebbe non piacerci, ma la sensazione è che il grande principe dell'anticipo stia perdendo smalto.


 

Il che non significa che Mascherano non riesca ancora a regalare prestazioni monumentali, anzi: nella maggior parte dei casi rimane sempre una colonna. Anche se per uno come lui, già dire “nella maggior parte dei casi” equivale alla necessità di un esame diagnostico che rivela, inevitabilmente, qualche sintomo.


 



 

Il puntello che regge in piedi la baracca e allo stesso tempo traccia traiettorie da ingegnere.


 

Ricondurre però la dissolvenza in uscita di Mascherano solo a questioni fisiologiche sarebbe riduttivo. La faccenda, come sempre, è molto più complessa. Non dovremmo sottovalutare la condizione psicologica attuale di Mascherano, che in estate ha perso, con l’Argentina, la terza finale consecutiva. Molte certezze sono vacillate, perché - come ha rivelato Xavi recentemente - il capitano dell’Argentina è uno dei giocatori più duramente autocritici che ci siano.


 

Anche il rinnovo del contratto con il Barça è arrivato dopo qualche dubbio di troppo. 


 

Negli ultimi anni il “Jefecito” ha pensato seriamente e ripetutamente di lasciare la città alla quale deve tantissimo, nella quale ha vinto sedici titoli raggiungendo la vetta del mondo, ma alla quale ha anche dato tutto.


 

Sull’altare della funzionalità pragmatica, all’interno della cattedrale culé Mascherano ha sacrificato addirittura il suo ruolo naturale. Per poter stare nel Barça di Guardiola e in tutte le sue successive derivazioni ha abbandonato il cuore del campo, la sua naturale casella di “numero 5”. Ha abbassato il baricentro del suo gioco lasciando il governo delle terre di mezzo all’unico pivote che possa essergli considerato superiore senza rischiare l'accusa di eresia: Sergio Busquets. 


 

https://youtu.be/xo2OuRCxagc?t=36

Ve lo ricordate Masche così?


 

Mascherano si è sempre sentito un mediano, non gli è mai piaciuto fino in fondo diventare un difensore centrale. Questo nonostante si sia conquistato sul campo l'eredità del “Gran Capitàn” Carles Puyol, non proprio la meno autorevole delle investiture.


 

L’immersione nel personaggio è stata così efficace che fino alla stagione scorsa è stato lui, non Gerard Piqué, il vero leader fisico e agonistico della difesa blaugrana.


 

La partnership con l'attuale epicentro carismatico del Barcellona ci porta però a un secondo tema centrale: Piqué nell'ultimo anno è cambiato molto, ha lasciato da parte alcune bizze “alla Piqué” come gli screzi con gli agenti di polizia o le infantili polemiche pubbliche per diventare un vero punto di riferimento, tanto da palesare anche il sogno (o l'obiettivo) di diventare in futuro il presidente del club. Piqué ha limato alcuni difetti ed è entrato stabilmente nella cerchia dei migliori centrali al mondo, ma la sua leadership è differente da quella di Mascherano. Piqué è diventato un grande leader individualista, un capopopolo che si para di fronte al nemico e lo ferma in un modo attorno al quale è facile intessere un’epica leggendaria, superomistica, eroica. Non è una guida collettiva, un uomo da reparto. È il perfetto stopper per il calcio del Barcellona, una squadra che cura talmente tanto l'aspetto attivo del gioco da lasciare la difesa spesso esposta a duelli individuali.


 

https://www.youtube.com/watch?v=HLKeW0voSmg

E affrontare difese esposte è il passatempo preferito di Pato e Sansone.


 

L’individualismo di Piqué crea problemi soprattutto a chi gli gioca a fianco, perché lo costringe a trovarsi varie volte in situazioni al limite del risolvibile, che necessitano una dedizione e un impegno dalla portata uguale e contraria.


 

Mascherano, dalla sua, ha due minus connaturati: non è un difensore naturale e ha superato abbondantemente i trent’anni. È quasi fisiologico, in queste condizioni e al fianco di un Piqué così totalizzante, mostrare qualche crepa.


 

Se da una parte il quadro sembra confermare l’idea di un Mascherano in crisi, dall’altra avvalora - e in un certo senso eleva - il fatto che stia giocando al limite, a volte addirittura leggermente oltre le sue possibilità.


 

Ma di qui a considerarlo finito ce ne passa. Forse sta finendo un certo Mascherano, e addirittura si potrebbe azzardare la prossimità del tramonto della sua epopea “barcellonista”.


 

Ma si può anche provare a ribaltare il punto di vista: e se fosse l'alba di un ultimo Mascherano?


 

Un nuovo vecchio Masche, che torna alle origini del ruolo, che si regala un gran finale riprendendo stabile possesso del centrocampo. E che sia ancora in grado di farlo ce lo ha dimostrato molto di recente: come nella semifinale di andata di Copa del Rey contro l’Atletico Madrid, quando Luis Enrique - addirittura meno incline dei suoi predecessori a riportarlo in mediana, tanto da aver persino impostato André Gomes in quel ruolo - lo ha posto come vertice basso in assenza di Busquets. Il risultato è stato una prova tonante di Mascherano, a partire dal pallone sradicato dai piedi di Griezmann dopo pochi minuti e trasformato da Suárez in una delle tante meraviglie stagionali del tridente blaugrana.


 



 

Praticamente agli esordi, con il River, da cinco puro a impostare il gioco. È lì che sta tornando il gioco del Jefecito?


 

Per Mascherano tornare in mezzo al terreno di gioco è anche tornare indietro nel tempo: come un emigrante costretto a spingersi lontano per motivi professionali, il ritorno a casa coincide con la malinconia del ricordo con la quale rigenerarsi.


 

Potesse scegliere, probabilmente vorrebbe finire la sua epopea con l'Argentina di Bauza.


 

O anche in Argentina, perché il suo cuore, sotto le vesti blaugrana, porta ancora inscritta una banda trasversale rossa. Tornare alla base è un sogno che non ha mai accantonato, anche se il calcio e la società argentina di oggi sono quanto di più distante da progettualità e contesti da abbracciare entusiasticamente.


 

L’Italia gli sarebbe andata a genio, forse: sarebbe stato interessante vederlo alla Juventus, alla quale quest'estate è stato molto vicino e che in lui avrebbe trovato il fulcro perfetto su cui costruire il progetto di gloria europea. O a Napoli, una piazza che esercita sempre un fascino particolare - spesso ricambiato - sugli argentini.


 

Il rinnovo con il Barcellona fino al 2019 sembra chiudere ogni porta, ma nel mondo attuale di Mascherano troppi aspetti sono legati alla caducità dell’apparenza.


 

Con il Jefecito non è mai detta l’ultima parola. Non è neppure detto che sia davvero sul viale del tramonto. Per uno che sembrava destinato ad entrare nell'olimpo dei più grandi mediani del nostro tempo e invece si è ritrovato a vincere tutto da difensore centrale (e a perdere tutto giocando nel suo ruolo naturale), per uno che ha sempre accettato che passassero in secondo piano la sua intelligenza e la sua capacità tecnica rispetto alla sua concretezza, le impressioni non sono una scala di misurazione dei valori valida.


 

Per capire Mascherano bisogna contare le tacche scalfite sulla rocciosa consistenza dei fatti.


 

 

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