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Tommaso Giagni

Idoli

Anche i grandi calciatori sono stati dei fan, da bambini.

Avevo un amico piuttosto timido, durante l’adolescenza, che idolatrava un brillante attore cinematografico. Vedeva tutti i suoi film, leggeva tutti gli articoli che gli venivano dedicati su un internet ancora primitivo. Arrivò al punto di assumerne le espressioni, fisiche e gestuali, in un modo inconsapevole.

 

Adorare l’idolo riguarda l’immedesimazione ma su una base superficiale, basata sulla bravura e su una specie di riconoscimento irrazionale. Si imita l’esultanza, si copia il taglio di capelli, si tiene l’immagine dell’idolo sullo sfondo del telefono o in camera come un’icona.

 

Una delle domande rivolta con più frequenza ai calciatori riguarda gli idoli che avevano prima di diventare calciatori. Di solito, sia la domanda sia la risposta mettono insieme tre tipi di relazione che invece non stanno necessariamente insieme: chi hai ammirato, chi ti ha ispirato e chi hai come modello.

 

Ammirare non porta automaticamente a prendere la stessa strada. Spesso è piuttosto una forma di compensazione. Il mio amico non ha mai pensato di fare l’attore, né ha mai dismesso la sua timidezza. È interessante allora scoprire come cinque grandi calciatori di oggi (nati tra il 1991 e il 2000) abbiano avuto idoli di gioventù con caratteristiche del tutto diverse dalle loro.

 

Antoine Griezmann vs David Beckham

«Non gli ho mai parlato, ma vorrei farlo» diceva a poche settimane dalla finale persa degli Europei 2016. Una finale di quel livello, il suo idolo non è mai arrivato a giocarla con la nazionale. Eppure quando si tratta di David Beckham, Antoine Griezmann diventa un ragazzo che ama il calcio e non – a sua volta – un idolo per le prossime generazioni. Questo anche dopo che gli anni sono trascorsi, dopo che Griezmann ha vinto la Coppa del Mondo, dopo che lui e Beckham si sono conosciuti, dopo che l’idolo ha contraccambiato la stima («Lo adoro, è uno dei migliori al mondo»).

 

A proposito di Beckham, Griezmann usa la parola «modello». Ha voluto il suo stesso numero sulla maglia, senza avere niente del numero 7 né del Beckham calciatore. Una forzatura che mostra le radici infantili di questo rapporto. Se al cospetto di Beckham torna a essere un calciatore e non il ragazzo che era, lo fa per mostrare rimpianto: «È l’unico con cui avrei voluto giocare».

 

L’ammirazione scompone il corpo del calciatore, le sue singole parti diventano reliquie. Nell’attaccante del Barcellona è significativa quella per il piede destro di Beckham, che considera unico nella storia del calcio. E Griezmann è mancino.

 

Parla di «perfezione, dentro e fuori dal campo», Griezmann. Parla di «classe e carisma in tutto ciò che faceva». Ricorda l’arrivo di Beckham alle Olimpiadi di Londra 2012 come qualcosa che lo colpì: nonostante fosse su un motoscafo, dice, i suoi capelli non si muovevano. Insomma un essere sovrannaturale che abbatte le leggi fisiche. Di nuovo, la fede.

 

In campo Griezmann porta le maniche lunghe «per essere come lui». Lo considera il migliore di sempre nella gestione dell’immagine. L’idolatria in Griezmann riguarda molto l’estetica: «Aspiro a essere come lui: stare a mio agio e realizzarmi sia nella conquista di trofei sia nel generare attenzione». Le due cose per Griezmann sono sullo stesso piano. Nel 2016 ammetteva di essere al lavoro per contrastare la timidezza, «per migliorare». Beckham l’ha benedetto anche in questo («I love the way he looks») ma ancora la primavera scorsa Griezmann era autocritico, mantenendo l’idolo su un altro piano: «Lui è diventato un brand, io non l’ho fatto ancora».

 

In scadenza di contratto col Real Madrid, David Beckham annunciò la firma con i Los Angeles Galaxy. La società fu durissima, Calderón umiliò la scelta dicendo che a trentadue anni Beckham decideva di fare «la mezza stella di Hollywood». In quei primi giorni del gennaio 2007 venne messo fuori rosa, poi reintegrato. Entro la fine della stagione realizzò un solo gol, l’ultimo del suo grande ciclo (1995-2007) tra Manchester e Madrid. Lo segnò all’Anoeta contro la Real Sociedad.

 

Nelle giovanili del club giocava Antoine Griezmann, che quella sera non aveva ancora sedici anni. A tredici si era trasferito dalla Borgogna nei Paesi Baschi, aveva dovuto imparare una lingua e frenare le preoccupazioni dei genitori. Beckham da adolescente aveva lasciato il London Borough solo per entrare nel settore giovanile della squadra di Manchester che tifavano i suoi genitori.

 

Nel settembre 2018, Griezmann dice a “L’Equipe” di voler chiudere la carriera negli Stati Uniti. Dove esattamente, lo lascia decidere al suo idolo: «Se Beckham mi vorrà, andrò a giocare nel suo club». Qualche mese dopo, Beckham mette un post sui social a proposito di quel club che prende forma, l’Inter Miami CF, e Griezmann interviene nei commenti: nessuna parola, solo una serie di quattro emoticon di una mano che firma e poi la faccia con gli occhiali scuri. Beckham risponde scrivendo: «@antogriezmann when you are ready» e l’emoticon della faccia con gli occhi a cuori.

Erling Braut Håland vs Michu

Il 20 maggio 2017, nelle Asturias dov’è nato e cresciuto e tornato, Miguel Pérez Cuesta “Michu” gioca la sua ultima gara da calciatore. Quindici giorni dopo, Erling Braut Håland esordisce in una massima serie (l’Eliteserien del suo Paese) quando ancora deve compiere diciassette anni, in una cittadina norvegese che si chiama Sarpsborg.

 

Le loro strade si erano incrociate anni prima in una terra franca, il Regno Unito, dove Håland era nato e cresciuto e dove Michu giocava. Uno era il promettente figlio di un discreto calciatore di Premier League (Alf-Inge Håland, difensore), l’altro una stella tardiva che esaltava i tifosi dello Swansea e conquistava la maglia della nazionale spagnola.

 

Håland ragazzino portava sugli scarpini la scritta “Michu”. Håland giovane uomo tagga l’ex calciatore asturiano sul proprio profilo Instagram. Sembra non essere cambiato nulla: sembra non importare che Michu abbia conosciuto un malinconico tramonto, tra i tempi d’oro in Galles e l’attuale ruolo da direttore sportivo a Burgos. L’idolatria ha sempre una fedeltà tenace.

 

Impressiona che qualcuno esploso giovanissimo sulla scena del grande calcio abbia come idolo un giocatore esploso tardi e ritiratosi prestissimo (a 31 anni). Quando Michu aveva l’età di Håland, giocava in Segunda División B, il terzo livello del calcio spagnolo.

 

Impressiona che un feroce bomber d’area, fisicamente sovradimensionato, che suggerisce una certa animalità («Forte come un orso e veloce come un cavallo» lo definì un giornalista) abbia per idolo una mezzapunta longilinea, che non aveva il gol come arma principale e che nel corpo ha trovato un ostacolo finché non si è arreso agli infortuni. Né sembra spiegare tutto che Michu, nella stagione in cui colpì l’immaginazione di Håland, aveva realizzato 18 gol in Premier League.

 

Impressiona come un predestinato, che pare freddamente usare club come trampolini (è al quarto in tre anni e mezzo), abbia scelto una figura romantica, Michu, capace di rifiutare la massima serie spagnola per restare nell’Oviedo che l’aveva lanciato, e per quella squadra poi intervenire di tasca propria quando si addensarono le nuvole del fallimento. Uno che all’Ultimo Uomo spiegava: «Mi sento un calciatore al quale non importa il palcoscenico in sé quanto lo spirito del club».

 

Qual è, nell’ammirazione, il peso di ciò che non si è – la consapevolezza dei propri limiti? Quanto idolatrare permette di lasciarsi andare, accettarsi, e in questo senso è riposante in confronto alla presa a modello?

Kevin De Bruyne vs Michael Owen

Lo diceva fin dalla sua prima intervista, Kevin De Bruyne, bambino coi capelli che sembrano grano: era Michael Owen il suo preferito. All’epoca gli piaceva giocare da attaccante, era piccolo e veloce, e insomma ci si rivedeva. Lui stava nel vivaio del KAA Gent, viveva in un sobborgo delle Fiandre orientali, e dormiva nelle lenzuola del Liverpool, girava con le tute del Liverpool e collezionava maglie del Liverpool. Una passione trasmessa dalla madre, nata in Burundi ma cresciuta a Londra, e dal nonno. L’orgoglio di Kevin bambino era la maglia di Owen, il simbolo dei Reds di quegli anni.

 

È un caso dove l’idolatria ha un percorso lineare, perciò, più comprensibile di altri: l’icona della squadra del cuore, la somiglianza nelle caratteristiche e nel ruolo. De Bruyne è cambiato, poi, e questa somiglianza non è stata più visibile.

 

KDB oggi deve competere proprio col Liverpool per il vertice del calcio inglese e internazionale. Non molto diversamente, Michael Owen ha legato il suo nome alla squadra rivale di quella che tifava da bambino – l’Everton.

 

Un attaccante svelto e minuto che comunicava fragilità, un massiccio trequartista che pare un adolescente cresciuto di colpo. Entrambi ispirano poca simpatia istintiva e attirano congetture lombrosiane: Owen sarebbe il bravo ragazzo perfettino e di successo, De Bruyne il giovane incontentabile (per sua stessa ammissione pare sempre triste o arrabbiato: «Purtroppo è la mia faccia» dice).

 

Su entrambi ha pesato lo stigma della sopravvalutazione. Owen perché ha raccolto molto (su tutto il Pallone d’Oro a ventun anni) ed è entrato in declino presto, poco dopo la fase che fece innamorare De Bruyne (il gol contro l’Argentina, il doppio titolo di capocannoniere della Premier con la maglia del Liverpool). KDB è nella piena maturità della carriera e non ha ancora vinto nulla sul piano internazionale.

 

Nell’estate 2012 De Bruyne venne acquistato dal Chelsea. Lasciò il Belgio, il nido di Genk, ma non si trasferì subito in Inghilterra – andò in prestito al Werder Brema. Si sarebbe fatto le ossa ma avrebbe perso, al contempo, l’opportunità di incrociare il suo idolo su un campo di calcio: Owen si sarebbe infatti ritirato alla fine di quella stagione.

 

Se oggi Michael Owen potesse scegliere con chi giocare tra tutti i calciatori della Premier League, dice che sceglierebbe De Bruyne. E aggiunge: «Ero il suo giocatore preferito, ora è lui a essere il mio giocatore preferito».

 

L’idolatria ha certo un rapporto biunivoco. Quanto un ex campione può essere gratificato, quanto può sentirsi dentro il calcio che gli è sopravvissuto, attraverso l’ammirazione di un campione del presente?

Marcus Rashford vs Tim Howard

L’idolo di Marcus Rashford è addirittura un portiere. Il ruolo opposto, e secondo lui non c’è affatto da sorprendersi. La teoria è suggestiva: «Il brivido di segnare un gol è lo stesso di quando sventi un’occasione pericolosa». Scherzando dice che prima o poi gli capiterà anche di andare tra i pali – di mettersi i guanti.

 

Oltre diciott’anni di differenza. Eppure si sfiorarono su un campo, il 3 aprile 2016, all’Old Trafford: Rashford era in campo con la squadra di casa, Howard restò sulla panchina dell’Everton.

 

L’undicenne Marcus Rashford scriveva di voler rendere la sua famiglia orgogliosa di lui: «Ho un unico obiettivo: diventare un calciatore professionista, magari col Manchester United». Il suo idolo era appena andato via dal club che lui sognava. Erano bastate tre stagioni (2003/06), con prestazioni altalenanti, per colpire l’immaginazione di un bambino che tifava per quei colori e sognava di indossarli. Rashford, attaccante, aveva la maglia di Tim Howard.

 

Quello era arrivato ai Red Devils dagli Stati Uniti, a ventiquattro anni, dopo aver giocato solo in MLS. Tra i suoi compagni di squadra c’era Ole Gunnar Solskjær, che oggi allena la squadra. Rashford a Manchester ci è nato e anche calcisticamente ha rappresentato casa per lui da quando aveva otto anni. Howard è stato molto criticato, fino a perdere il posto di titolare. Rashford ha attraversato le selezioni giovanili come se gli bastasse posare il piede una volta per balzare lontano – allo step successivo. Poi è diventato una delle pochissime certezze della prima squadra, l’identità ancora in salvo di una società smarrita.

 

In effetti Rashford si colloca su una linea di continuità, legata al Manchester United, che annulla le differenze anagrafiche. Può essere casuale ma in uno spot pubblicitario del 2008 compare tra i ragazzini che giocano al parco e chiedono indietro il pallone a sir Bobby Charlton.

 

Un anno fa, quando Solskjær era solo tecnico ad interim, Tim Howard spiegava che sulla conferma del suo ex compagno avrebbe pesato in modo determinante il giudizio dei giocatori più importanti. Uno era Paul Pogba, l’altro Marcus Rashford.

Kylian Mbappe vs Zinedine Zidane

«La persona che mi ha fatto amare il calcio» l’ha definito. Rispetto agli altri casi qui la vicenda è diversa. Più forte la suggestione, più vivo il legame tra passato e presente. Perché l’idolo di Kylian Mbappé da ragazzino è oggi l’allenatore della squadra che sogna di acquistarlo.

 

Sono cresciuti entrambi in banlieue. La Castellane è un quartiere di margine, di stigma, di palazzoni tirati su per i rifugiati della guerra d’indipendenza dell’Algeria. Bondy è “93”, è Saint-Denis, è lunghi viaggi sulla RER verso Parigi. In entrambi i territori oggi campeggiano i loro volti in spray, come icone protettrici.

 

Lui e Zidane hanno vinto un Mondiale con la Francia a vent’anni di distanza. L’uno da astro nascente, l’altro da trascinatore. Mbappé nasce sei mesi dopo la finale di Parigi contro il Brasile di Ronaldo, con la doppietta di Zidane e la festa agli Champs-Elysées.

 

Dove l’uno anche da giovane sembrava un vecchio saggio, con la calvizie e l’equilibrio, l’altro esprime didascalicamente l’esplosività dei vent’anni. Dove l’uno si associa alla grazia, l’altro è un simbolo di potenza. Dove l’uno danzava quasi levitando e comunque in una dimensione verticale, l’altro aggredisce il campo intero in una continua progressione orizzontale.

 

Il giorno del suo quattordicesimo compleanno, Kylian Mbappé inizia uno stage di una settimana al Real Madrid. Incontra tutti i giocatori, incontra Zinedine Zidane. Ha fortuna perché in quel periodo il suo idolo si occupa del settore giovanile del club. Una manciata di mesi dopo sarebbe stato annunciato come allenatore della prima squadra. A ragione, perciò, oggi Zidane può dirsi «innamorato di Mbappé da un sacco di tempo».

 

Dal canto suo, Mpabbé depotenzia quella passione personale. La estende, la generazionalizza: «Se sei un ragazzino e sei francese, il tuo idolo è Zidane». Tra questi che esaminiamo, è l’unico caso in cui l’origine influenza dichiaratamente la scelta. Forse non è un caso che succeda in un Paese nazionalista come la Francia. Né che i soggetti siano entrambi francesi di seconda generazione (uno è nato a Marsiglia da algerini della Cabilia, l’altro a Parigi da un camerunense e un’algerina).

 

«Se sono stato un idolo, è perché c’era qualcuno a cui piaceva come giocavo». A partire da una domanda sul suo rapporto con Mbappé, Zidane compie un ribaltamento di prospettiva: senza chi lo ammira, l’idolo non è tale. Ha più bisogno del suo ammiratore, a ben vedere, di quanto l’ammiratore abbia bisogno di lui.

 

 

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Tommaso Giagni (1985) ha pubblicato la biografia Afferrare un’ombra. Vita di Jim Thorpe (minimum fax, 2023) e i romanzi I tuoni (Ponte alle Grazie, 2021), Prima di perderti (Einaudi, 2016) e L’estraneo (Einaudi, 2012). Tra le antologie a cui ha partecipato: Rivali e La caduta dei campioni (Einaudi), Ogni maledetta domenica e Voi siete qui (minimum fax). Collabora con le pagine culturali di «Avvenire», scrive per «Ultimo Uomo» dal 2014.