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05 dic 2022
05 dic 2022
Come è fatta la sconfitta ai Mondiali di calcio.
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Shaun Botterill/Allsport/Getty Images
(foto) Shaun Botterill/Allsport/Getty Images
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Certe sconfitte possono essere più epiche di alcune vittorie; possono generare un “cronosisma” alla Kurt Vonnegut, un evento, cioè, che fa arretrare il tempo di dieci anni. La carica dell’insuccesso non si stempera nella cronaca, non diviene fatto da annuario, si dilata fino a trasformarsi in mito fondativo, collante di una comunità. La sua dimensione non si colloca in ciò che è stato, ma in ciò che avrebbe potuto, o dovuto, essere. Ed è lì che continua a vivere senza mai trovare pace.

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La sconfitta nel calcio è molto più del contrario della vittoria. Perché se il successo viene raccontato come orgasmo collettivo, la disfatta è spesso un fatto individuale, un generatore di solitudini tutte diverse eppure tutte così uguali. Trovarsi faccia a faccia con un fallimento è simile a dover gestire un lutto. Il dolore può essere lasciato andare solo dopo averlo accettato ed elaborato, annacquandolo con la quotidianità. La sconfitta mantiene però un fascino perverso e immutabile. In fondo le vittorie si assomigliano tutte mentre l’estetica della disfatta è variegata e complessa. Nella vittoria c’è un’unica immagine possibile. I coriandoli, il capitano che guarda i compagni e gioca con la Coppa, poi la alza al cielo, i salti a piedi uniti, i cori, sempre quelli (Campeones! Campeones!). Le immagini della sconfitta sono la negazione del cerimoniale, della formalità. Se l’immagine della vittoria è confezionata a favore della macchina fotografica e della telecamera, quella della sconfitta è un’immagine impreparata, e che contiene la verità che hanno spesso le cose sciatte e approssimative. Il protagonista è spesso l’individuo derelitto e annichilito, immobile, nudo nonostante la maglietta ancora addosso, con gli occhi bagnati dalla delusione o puntati verso un orizzonte sfocato e indefinito. Lo sconfitto è confinato ai margini della scena, in una porzione di campo desolata e periferica, dove nessuno ha motivo di guardare. È l’ospite costretto a partecipare alla festa altrui; e in alcuni casi è anche l’uomo che l’ha provocata. Quando non riesce a occultarla, la sua faccia riempie lo schermo giusto per qualche secondo, prima che un regista compassionevole decida di passare oltre. Però anche per questo le immagini della sconfitta contengono un realismo più potente, al pari di una fotografia di Henri Cartier-Bresson che cercava di cogliere l’istante decisivo. Contrario a qualsiasi messa in scena. Questo articolo è un’iconografia dei perdenti dei Mondiali, i perdenti per eccellenza della storia del calcio.

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