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Ibrahimovic, uomo saggio?
13 nov 2017
13 nov 2017
Rileggere l'autobiografia di Ibrahimovic è stato illuminante.
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Zlatan Ibrahimovic è parte della mia vita, come della vostra. Mi ha accompagnato da quando disegnavo i primi piani cartesiani a quando per la prima volta è stato sufficiente una corsa di mezz’ora per sentire scoppiettare le caviglie per una settimana, che è una lunga perifrasi per dire oggi, mentre scrivo. E così mescolo la prima Play Station all’Ajax di Ibra, di Van der Vaart e di tutti gli altri; mescolo il giorno in cui il soggiorno era messo a soqquadro per l’arrivo di un nuovo divano (è ancora lì) e la televisione dichiarava l’interesse della Roma per Ibrahimovic, che nessuno in Italia chiamava ancora Ibra, o Zlatan; mescolo un Nokia a 16 colori mentre siedo su quello stesso divano, di fronte a quella stessa televisione, dove agli Europei una sfera supera Buffon e Vieri, lentissima e insopportabile; mescolo i primi anni del liceo con Ibrahimovic alla Juve, odiato, e gli ultimi anni con Ibrahimovic all’Inter, amato. Mescolo insomma Fabri Fibra e Moggi, mescolo adesso ridacci la nostra gioconda e un uomo che si lancia da un secondo piano di Torino, la Casta e un imbarazzante Scudetto fatto di niente, PES 5 e il gol di Ibrahimovic al Palermo, gli integrali e la punizione contro la Fiorentina, baci di maggio e il gol all’Atalanta, una spiaggia greca e Ibrahimovic al Barcellona – dettagli dello scambio appresi da una Gazzetta che a fine vacanza avevo imparato a memoria; mi sembrava un affare, lo fu. Insomma, tutto questo potrebbe non finire mai e chiedendo perdono, mi fermo qui. Mescolo tante cose, e per fare un po’ di ordine, mi sono riletto la biografia di Ibrahimovic, teso nello stesso sforzo gnostico che l’anno scorso mi ha portato a prendere le misure della quarta dimensione di Mauro Icardi. Io, Ibra (2011) è un libro invecchiato, certo, e proverò a seguire il filo della storia dove l’autobiografia non smette mai di ricamarsi, farsi e disfarsi, sui social network. Instagram, fingerò di capirne il funzionamento.

Foto tratta dal profilo Instagram di Zlatan Ibrahimovic.

Nel libro, Maxwell è la prima cosa che somigli a un amico del protagonista, il loro appare come il primo rapporto slegato da dinamiche competitive, cripto-aggressive, emancipato dalla detonazione di raudi sotto alle scarpe o da impennate tra i trenta e i quarantacinque gradi. Una volta venduto dal Malmö, Ibrahimovic arriva all’Ajax, cioè ad Amsterdam, dove si trova senza cibo né denaro. Dovendo aspettare un mese per il primo bonifico – ventitremila euro, facendo due calcoli – si trasferisce da un nuovo compagno di squadra, anche lui arrivato da poco: «Incredibilmente sensibile, un ragazzo legatissimo alla famiglia. […] È una gran persona, e se dovessi dire qualcosa di negativo di lui, è che è troppo buono». Di tutte le linee narrative l’amicizia tra Ibrahimovic e Maxwell è la mia preferita, seconda forse al riscatto del padre lontano dalla famiglia, e dai bombardamenti. Fare soldi Nonostante, seguendo i toni del canone, il racconto di Ibrahimovic esordisca in medias res, immersa in un presente che ai tempi della pubblicazione lo vede appena tornato a Milano, la figura che svetta nella prima sezione del libro, la sezione più lontana nel tempo, è senza dubbi il padre. Presentato in una cornice tragica, il padre del protagonista riempie l’appartamento di lattine di birra, piene, vuote e in diverse fasi di capienza; ascolta tutto il giorno musica balcanica dal walkman mentre la televisione mostra la guerra insanguinare le sue radici. Il cammino del figlio, però, raddrizzerà quello del padre: con l’ingresso di Zlatan nella prima squadra del Malmö, Šefik inizierà a seguirlo tutti i giorni senza perdersi una partita, trasformandosi in un archivio vivente, la più autorevole fonte mondiale di informazioni su Zlatan Ibrahimovic. Zlatan incluso: «La sua casa diventò una specie di museo dedicato alla mia carriera». Ladri di biciclette, mestolate sul cranio, vetri rotti, il “papà della domenica”, la sorella e la droga. Come si racconta la povertà? Chiunque abbia scritto la biografia di Icardi sopra citata, Sempre avanti, ha scelto di raccontare la caccia notturna alle rane lungo il fiume (Icardi un bambino, solo), oppure un’altra iniziativa di alternanza scuola-lavoro: la vendita porta a porta dei fustini di detersivo. Immagini efficaci, “vere” perché non irradiano retorica: raccontano attività poco stereotipate. Rischio che invece si è preso chiunque abbia scritto Io, Ibra, uscendone indenne. Il frigorifero del padre si fa sineddoche: è sempre vuoto, e se non è vuoto, contiene «latte, burro, pane e, nel migliore dei casi, del succo di frutta, multivitamine, confezione da quattro litri, comperato al negozio arabo perché costava meno. E poi birra, ovviamente […] solamente birra, e il mio stomaco urlava. C’era una sofferenza in quei momenti che non dimenticherò mai. Domandate a Helena! Il nostro frigorifero dev’essere pieno zeppo, lo ripeto in continuazione». Più povero di un frigo vuoto c’è solo un frigo con succo multivitaminico da quattro litri. Ah, Helena è la moglie del protagonista che, per qualche motivo da non sondare, nel libro viene chiamata superevilbitchdeluxe. Avere successo Quando inizi a pensare di avere concluso qualcosa, è il primo giorno del fallimento. Uno dei passaggi più forti del libro, anche se nascosto nella piana di questa prosa strana, è sicuramente l’epifania di un giovane protagonista che capisce di non essere ancora abbastanza maturo, abbastanza forte, abbastanza determinato: sembra che a farglielo capire sia stato il suo aiutante magico, Mino Raiola. «Se diventi il migliore del mondo, arriverà anche il resto. Ma se insegui solo il denaro, allora non otterrai niente, capisci?», dice Raiola.

Foto tratta dal profilo Instagram di Zlatan Ibrahimovic.

L’incantesimo di Raiola, come la poesia, è un’aria di accenti nel tempo: «Tu non sei il migliore. Tu sei una merda. Non sei niente. Devi lavorare più duro». L’emancipazione attraversa il linguaggio, lo sappiamo tutti cazzo, no? Il successo è dolore, il successo è magico. Un altro importante episodio emancipatore infatti è l’incontro del protagonista con quello che, negli studi americanistici, verrebbe presentato come il topos del magical negro. Avete presente Bubba e i gamberi? E il tizio enorme del Miglio verde? E Morpheus? Ecco: «La prima ondata di ebbrezza per essere stato promosso in prima squadra cominciava a svanire. Ma poi incontrai un ragazzo di Trinidad e Tobago. […] Lui era un tipo a posto, era in prova da noi e un giorno, dopo l’allenamento, mi si avvicinò: «Ehi, ragazzo» disse. «Sì, cosa c’è?». «Se non diventi professionista entro tre anni, sarà solo colpa tua!». «Che cosa vorresti dire?». «Hai sentito.». Altroché se avevo sentito. Ma mi ci volle un po’ per digerirlo. Poteva essere vero? Se l’avesse detto qualcun altro, difficilmente ci avrei creduto, ma quel ragazzo aveva l’aria di saperne, era stato in giro per il mondo, e fui come percorso da una scossa». Se l’avesse detto qualcun altro… Invece l’aveva detto Lui, il nero magico, di cui non sappiamo neanche il nome. Sappiamo che era stato in giro per il mondo, dove si imparano le cose. Perché, attenzione, il protagonista vive nel mondo, nello spazio aperto; gli spazi chiusi, le aule, gli spogliatoi, i muri che lo incatenano alle Norme sono sospetti. «Entrai dunque in una stanza e mi sedetti davanti a Van Gaal»: qui si può intuire come per il protagonista entrare in una stanza sia qualcosa da raccontare e non un naturale omissis, perché la stanza è il contrario della strada, del caos, del divertimento – non si segna in una stanza; non si guida una cabrio in una stanza; non si cacciano gli alci. Entrai dunque in una stanza. Fui come percorso da una scossa. José Mourinho “fa i fatti”. La consecutio logica del testo poi non è sempre stringente. Sempre Mourinho, a quanto pare, “è portoghese, gli piace stare al centro dell’attenzione”. Oppure: «Una cosa non si poteva fare per nessun motivo: mettere in discussione la sua autorità o comportarsi da presuntuosi.» Una cosa, due divieti. «Poi, un giorno, ero in giro su una Mercedes Cabrio blu. […] Mi sentivo bene, rilassato, e sul sedile posteriore tenevo una pallina nel caso in cui mi fosse venuta la voglia di fermarmi a fare qualche numero». “Passare col rosso” Ibrahimovic arriva al Barcellona come uno dei tre attaccanti più forti del mondo. Lì subirà l’unica forma di violenza che i suoi deltoidi non posso sopportare; la violenza psicologica di Guardiola, il manipolatore, l’uomo che non riesce a guardarlo negli occhi, che lo esclude. «Prima non me n’era mai fregato niente. […] Ma d’un tratto era diventato importante, a dimostrazione del fatto che non stavo bene». Entra in gioco l’autoanalisi, la paranoia. La riflessione speculativa. L’antitesi del mantra che mi sembra ripetersi lungo la sua autobiografia: passare col rosso.

Foto di Franck Faugere / LaPresse

Periodo Barcellona: «A me piacciono i ragazzi che passano col rosso, se capite cosa intendo. Ma adesso, cazzo, non dicevo quello che volevo. Dicevo quello che credevo si dovesse dire. Era assolutamente folle.» Periodo Ajax: «Anders Carlsson non era il tipo giusto per me, era sempre più evidente. Avevo bisogno di un agente che non fosse così rigido con le regole e con i semafori rossi.» Periodo Juve: «Moggi forse non era uno che frenava sempre davanti al rosso, o ligio a ogni regola, ma era un professionista in gamba, si prendeva cura dei suoi giocatori.» I bravi ragazzi non passano col rosso. In effetti se lo chiede anche Ibrahimovic, «cosa ne è stato dei bravi ragazzi del Malmö sempre così diligenti? Si scrivono forse libri, su di loro? […] Appena la vita ristagna, io voglio azione. Guido sempre come un pazzo. Ho bruciato i trecentoventicinque con la mia Porsche Turbo, seminando pure gli sbirri. Ho fatto così tante follie che non voglio quasi pensarci.» È quel quasi che ci regala questi sottintesi, tutta la serie di ricognizioni auto-analitiche che si interrompono sempre a metà del percorso, come il violento che in terza media scopre una passione per il violoncello, e non sa perché. Arriveranno i gol psichedelici al PSG, arriverà l'Europa League vinta contro la big che l’ha lanciato, ma rimarrà sempre la domanda: cosa fa di Ibrahimovic un uomo saggio? Ibrahimovic non si chiede il perché. E se si chiede perché, risponde: perché sì.

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