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David Liam Kyle/NBAE via Getty Images
NBA Fabrizio Gilardi 9 febbraio 2018 11'

I voti al mercato NBA dopo la deadline

Cleveland ha cambiato mezza squadra, il resto della lega non tanto: un punto sulla NBA dopo la fine del mercato.

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Alla fine di tutto, e mettendo da parte un attimo la situazione di Cleveland, è stata una trade deadline come tante altre: qualcuno ha dato una sfoltita ai salari per scendere sotto la soglia della Luxury Tax; qualcun altro ha dato un colpetto al roster per mettere ordine nella rotazione; qualcun altro ancora ha fatto un tentativo a basso rischio e bassissimo costo su talenti inespressi, senza assorbire contratti scomodi a medio o lungo termine, senza cedere prime scelte e senza rivoluzionare il proprio roster.

 

Le prospettive poco entusiasmanti per la prossima estate, in cui è previsto che poche squadre abbiano spazio funzionale sotto al Salary Cap per sottrarre free agent alle rivali o provare a farsi carico dei problemi altrui sotto compenso, hanno sconsigliato grandi manovre. Ed è una realtà cui bisognerà abituarsi, dimenticando gli anni dell’Amnesty Clause prima e dell’esplosione del Cap poi perché, premesso che potranno certamente esserci eccezioni, il destino della NBA è quello di tornare indietro di una decina d’anni, quando lo spazio salariale era una pura chimera e il mercato si trascinava a colpi di eccezioni, specialmente la mid-level, le sign & trades e contratti in scadenza ceduti a peso d’oro.

 

Tutto questo per 29 franchigie, però. Perché come detto sopra un’altra ha dato vita a uno dei più massicci e invasivi restyling di metà stagione visti nella storia della lega o quantomeno negli ultimi 30 anni, arco temporale in cui solo un’altra volta una singola squadra NBA aveva scambiato 6 giocatori alla trade deadline. Anche in quell’occasione furono i Cleveland Cavaliers a farlo, alla disperata ricerca di aiuto da affiancare a LeBron James per cercare di opporre resistenza ai Boston Celtics di Garnett, Pierce e Allen nel 2008. “Certi amori non finiscono, fanno dei giri immensi e poi ritornano”, per restare in tema di musica italiana, che è pur sempre la settimana di Sanremo.

 

La rivoluzione dei Cavs

I Cavs dopo Natale si trovavano in una situazione sportiva drammatica e incancrenita, apparentemente rinchiusa in un vortice di autodistruzione impossibile da arrestare che poteva essere ribaltato o corretto solo agendo alla radice del problema – ovverosia letteralmente ribaltando il roster. Koby Altman, il GM dei Cavs, ha ceduto giocatori che avevano utilizzato un terzo (31%) dei minuti dei Cavs, abbassato l’età media del roster (30,7 anni per i giocatori in uscita, 27 in entrata) e aperto nuovamente l’area per LeBron (31% complessivo al tiro da 3 in uscita, 38% in entrata), ma soprattutto ha dato una salutare rinfrescata all’ambiente.

 

È un chiaro tentativo di fare l’unica cosa che conta per Cleveland e per la squadra, cioè provare a trattenere LeBron almeno per un altro contratto, e che la forza motrice sia stata Dan Gilbert, Altman o LeBron stesso in versione GM che sta cercando di darsi motivi per non cercare un’altra casa è sinceramente irrilevante, almeno per i prossimi quattro mesi. E non interessa a nessuno nemmeno se queste mosse sconfessano quasi in toto (la prima scelta 2018 dei Brooklyn Nets era comunque l’asset principale chiesto e ottenuto dai Cavs, ed è ancora al suo posto) quanto ricavato in estate dalla cessione di Kyrie Irving: che sia stato un errore o meno ormai riguarda il passato, guardarsi indietro non ha senso e non aiuta nessuno, per quanto dal punto di vista dell’immagine e delle pubbliche relazioni certamente non si tratti dello scenario ideale.

 

Lo sconfitto principale dell’intera faccenda è palesemente Isaiah Thomas, il cui valore all’interno dello scambio con i Lakers è solo ed esclusivamente quello di un contratto in scadenza e non poteva che essere così – perché ad oggi, semplicemente, non è un giocatore di livello NBA. Non è colpa sua se si è infortunato e sta faticando, il rendimento in maglia Cavs non deve e non può modificare a posteriori la valutazione sulla stagione passata e su quanto fatto a Boston, ma vale anche il contrario, perché oggi in campo scende questa versione di Isaiah, non l’ultima o la penultima. Nei 406 minuti giocati da Thomas Cleveland è stata battuta dagli avversari con 132 punti di scarto, anche e soprattutto per colpa delle sue carenze sia in attacco (36% al tiro, 25% da 3 su volumi tutt’altro che marginali) che in difesa (118.6 di Defensive Rating, il peggiore NBA tra gli oltre 200 giocatori NBA ad aver superato i 300 minuti di impiego). Anche il suo Net Rating (-15.1) è stato il peggiore non solo della NBA in questa stagione, ma anche di sempre per un compagno di LeBron, superando il poco invidiabile record (-14) detenuto fino ad ora da Lee Nailon, volto noto ai tifosi over 30 dell’Olimpia Milano.

 

Thanks for the Memories
Isaiah Thomas, Cleveland Cavalier
August 2017–February 2018#RingerNBA pic.twitter.com/s8sr0QXHRD

— The Ringer (@ringer) 8 febbraio 2018

 

In più Thomas ha contribuito a devastare anche lo spogliatoio di Cleveland, già diviso in fazioni e minato dall’arrivo di Dwyane Wade a inizio, puntando il dito contro Kevin Love, i compagni che non si impegnavano in difesa (da che pulpito) a differenza di quelli che lui aveva avuto in passato, contro coach Lue che “non fa aggiustamenti” e in generale chiunque gli capitasse a tiro – senza che ci fosse una reale ragione per portare all’attenzione dei media e del pubblico problemi che di norma vanno risolti all’interno del gruppo.

 

Per sapere se i Cavs escano vincitori o meno da questa giornata occorre ovviamente aspettare, ma sicuramente non ne escono sconfitti, avendo ceduto solamente la propria prima scelta 2018, (protetta 3, ma che presumibilmente si confermerà a fine primo giro) e Crowder (che comunque ha tutt’altro che incantato) in cambio di giocatori di rotazione che siano anche atleti presentabili e non in crisi esistenziale. George Hill non è Kyrie Irving, ma un anno fa prima di infortunarsi e di perdere interesse nel giocare a basket a Sacramento era uno dei segreti meglio custoditi della lega e Rodney Hood, Larry Nance Jr. (il babbo è diventato leggenda a Cleveland) e Jordan Clarkson, in ordine di valore e peso specifico, sono incostanti ma ancora giovani e probabilmente con potenziale inespresso. Se non altro, quasi certamente risulteranno più utili di Shumpert, Frye, del cugino distratto di Crowder, del nonno di Wade, del gemello senza talento di Thomas e della piattola aliena con addosso un DerrickRose-abito visti in questi mesi in Ohio.

 

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Tags : cleveland cavaliersisaiah thomasnba

Fabrizio Gilardi ha perso la propria via nel 1994 davanti a una figurina di Penny Hardaway. Nel tentativo di ritrovarla ha incontrato la NBA League Pass. E ha perso definitivamente anche il sonno. Dal 2005 infesta forum e social network, dal 2011 conduce Ball Don’t Lie, podcast semiserio sul basket NBA.

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