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Foto di Clive Brunskill/Getty Images
calcio femminile Jacopo Piotto 20 agosto 2016 10'

I tempi stanno cambiando

Cosa abbiamo imparato dal torneo olimpico femminile di calcio.

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Il torneo olimpico femminile è storicamente piuttosto avaro di sorprese, in particolare se confrontato con quello maschile. Sostituendo i 22 uomini del famoso aforisma di Gary Lineker con altrettante donne, si scopre che, in genere, alla fine vincono gli Stati Uniti. La manifestazione di Rio 2016, invece, ha portato un po’ di novità: badando puramente ai risultati, sono accaduti almeno due upset nei quarti di finale e uno nel turno successivo, con la vittoria finale della Germania sull’underdog Svezia e il terzo posto più o meno a sorpresa del Canada. Andando oltre, potrebbe essere stata un’Olimpiade di svolta per molte rappresentative, e in generale per il movimento calcistico femminile. Ho provato a riassumere i 7 temi principali del torneo olimpico femminile di calcio.

 

 

1. Gli USA non sanno perdere

 

USA-Svezia è terminata sull’1-1 dopo 120 minuti di grande attenzione tattica delle gialloblu e di testarda insistenza offensiva delle americane. Lisa Dahlkvist cammina col pallone nelle mani verso la porta di Hope Solo per calciare il rigore decisivo: se segna, la Svezia va in semifinale. Solo è stata maltrattata dal pubblico brasiliano in tutte le partite giocate, come risposta a delle foto da lei pubblicate in cui viene mostrato tutto il suo arsenale anti-insetti da portare a Rio. Non ha nessun problema, quindi, a prendersi qualche fischio aggiuntivo quando, invece di prepararsi a parare il rigore, si allontana dalla porta e chiede allo staff un paio di guanti di riserva. Solo si è tolta i suoi, ha vestito gli altri, li ha sistemati con cura mentre Dahlkvist accennava un sorriso dal dischetto. I fischi hanno continuato a piovere mentre Solo tornava tra i pali. Dahlkvist si è fatta beffe della pressione aggiuntiva e ha spiazzato il portiere.

 

Che gli States escano da un torneo può accadere, principalmente perché è molto difficile vincere sempre e appena la scorsa estate hanno vinto il Mondiale. Ma Solo non l’ha presa benissimo e a fine partita ha parlato di una gara “coraggiosa” degli USA, mentre la strategia difensiva svedese avrebbe fatto di loro delle “codarde”. Non accettare la sconfitta è un concetto radicato nella cultura americana sportiva e non, ed è forse un punto di forza di tante atlete (basta vedere la storia di Abby Wambach): non a caso la stessa Solo non ha mancato di menzionare il “cuore americano” come parte della prestazione della sua squadra.

 

This was the full context of my comments today. Thank you @GrantWahl. Losing sucks. I’m really bad at it. https://t.co/s5Mckg8o6B

— Hope Solo (@hopesolo) 12 agosto 2016

 

Ma particolarmente nei quarti di finale con la Svezia, le americane hanno dimostrato la loro incapacità di leggere la partita e di adattarsi al gioco avversario, continuando a sbattere a testa bassa sul muro svedese. Per loro, una strategia diversa dall’affrontarsi a viso aperto equivale quasi a cambiare le regole, e non riescono ad accettarlo. La loro superiorità atletica e tecnica ha prevalso in molti tornei, ma l’innovazione tattica dovrà essere il loro prossimo passo per rimanere sul trono del calcio femminile mondiale. For the times they are a changin’…

 

 

2. Il Brasile ricomincia a piangere

 

La fatica mostrata dalla nazionale maschile nelle prime due partite del girone, mentre le donne conquistavano facilmente 6 punti, aveva portato l’attenzione e l’affetto dei brasiliani sulla squadra capitanata da Marta, il cui nome ha sostituito quello di Neymar nei cuori e su alcune magliette. Quando gli uomini sembravano avviarsi alla quarta delusione consecutiva dopo i Mondiali le due Copa America, la Nazionale femminile rappresentava l’ultima speranza di una tanto attesa vittoria casalinga. L’eliminazione degli USA, poi, sembrava sostenere questa narrativa, ma la Svezia ha ripetuto lo stesso copione di pochi giorni prima e ha addomesticato anche il Brasile in semifinale.

 

La delusione è ancora più grande se si pensa che il Brasile non ha mai vinto un torneo fuori dal Sudamerica, e che questa poteva davvero essere l’occasione buona in assenza di alcuni grandi competitor, come appunto gli USA e il Giappone (che non si è qualificato). Inoltre, non avrà altre possibilità di vincere con la sua Nazionale un monumento del calcio femminile come Formiga, che insieme a Homare Sawa è l’unica ad aver disputato sei Mondiali (sei!) e che con solamente altri due atleti condivide il record di partecipazioni olimpiche negli sport di squadra (sempre sei!). Insieme a lei potrebbero ritirarsi prima del prossimo mondiale Marta e Cristiane, anche se è difficile pensare che possano entrambe lasciare senza un ultimo tentativo.

 

#Rio2016: Niño brasileño tacha de su jersey el nombre de Neymar y lo cambia por el de Marta … pic.twitter.com/b7jn0fgYhj

— Yolanda Pineda (@viktorsatk) 9 agosto 2016

 

Ma ad asciugare le lacrime delle brasiliane potrebbe essere la loro legacy: questo torneo ha riavvicinato molto il popolo verdeoro alla Nazionale femminile, un po’ come fu per gli USA il mondiale del 2011 perso in finale. Già nel 2015, in preparazione dei due grandi tornei, la federazione brasiliana aveva preso spunto da quanto fatto in America creando la Selezione Permanente, una specie di continuo ritiro pagato per le giocatrici brasiliane, per consentire alle proprie rappresentanti di non dover cercare una squadra in Europa considerato che la lega brasiliana è ben lontana dal professionismo. Questa scelta potrebbe essere ripagata dall’entusiasmo nei confronti della Nazionale che già ha eletto nuovi idoli come il portiere Bárbara.

 

 

3. Il modello canadese

 

Sotto la guida di Carolina Morace, il Canada aveva vinto alcuni trofei minori a cavallo del 2010, ed esattamente in quell’anno aveva portato a casa la seconda coppa Concacaf della sua storia. I Mondiali appena successivi dovevano essere il trampolino di lancio per ottenere visibilità e presentarsi poi quattro anni dopo, quando sarebbe stato nazione ospitante, come una delle contendenti al titolo. Ma le promesse non furono mantenute, e il Canada andò a casa con tre sconfitte in altrettante partite. All’epoca mi capitò di essere nello stesso albergo in cui riposava la Nazionale, e ascoltai una conversazione di Morace in cui si lamentava del fatto che le sue giocatrici non potevano allenarsi abbastanza. Alcune non avevano neanche la squadra, e lei doveva organizzare dei ritiri appositi per tenerle in allenamento. Morace lasciò l’incarico a fine mondiale 2011.

 

In quell’anno la lega americana non aveva ancora ripreso le operazioni, per cui le canadesi non potevano neanche cercare lavoro oltre il confine. Nel 2013 avrebbero trovato un campionato in cui giocare nella NWSL, ma il Canada non poteva rischiare una brutta figura nel mondiale di casa e fece una serie di investimenti e operazioni di promozione mirate. Il risultato fu che la squadra avanzò fino ai quarti di finale, e quella partita stabilì il nuovo record di pubblico per la nazionale canadese in tutti gli sport. Durante il torneo, le TV canadesi trasmettevano degli speciali sugli allenamenti della squadra, che per gli appassionati potrebbero sembrare quasi naif, ma testimoniano l’entusiasmo di una nazione sino a quel momento priva di cultura calcistica in ambo i sessi.

 

 

Per il Canada questa Olimpiade doveva essere il torneo della conferma. E lo è stata. Hanno vinto il girone battendo la Germania, mettendone a rischio anche la qualificazione. Poi nei quarti di finale hanno eliminato a sorpresa la Francia, che vanta più tradizione e maggiori risorse. La loro corsa si è fermata in semifinale, di nuovo contro la Germania, ma hanno battuto le padrone di casa nella finale per il bronzo, davanti a 40.000 tifosi prevalentemente verdeoro. Hanno mostrato un calcio interessante, dinamico, fatto di tanto gioco sugli esterni e con un piano ben costruito. Battere la Germania e andare in finale forse semplicemente non è alla loro portata in questo momento, ma il Canada è il modello perfetto da seguire per le nazioni che ancora latitano nel calcio femminile. Se in queste righe avete letto “Italia”, non avete problemi di vista.

 

 

4. Il calcio africano accorcia il gap?

 

Il mondiale in Sud Africa 2010 doveva essere la grande spinta per l’esplosione più volte rimandata del calcio africano, ma né il continente né la Nazione ospitante hanno tratto particolare giovamento dall’eredità di quel torneo. A sorpresa, anzi, è la Nazionale sudafricana femminile che si è fatta notare a Rio per alcune differenze rispetto alle altre compagini africane. L’Africa è certamente l’area più arretrata nel calcio femminile, perché quelle minime forme di investimento e cultura sportiva che vengono trasmesse ai maschi e consentono loro di competere, ad esempio, con Asia e Oceania, sono completamente assenti nel calcio femminile.

 

South+Africa+v+China+PR+Women+Football+Olympics+pPPTZ6rLhpil

 

La maggior parte delle Nazionali africane partecipa ai tornei internazionali subendo goleade: basti pensare al 10-0 inflitto dalla Germania alla Costa d’Avorio nel mondiale canadese, o al doppio 1-6 subito dallo Zimbabwe proprio a Rio. Invece, il Sudafrica ha reso la vita difficile a tutte le sue avversarie, facendo soffrire sia la Cina che la Svezia (pur non brillantissime nel girone) e andandosi poi a prendere un punto contro il Brasile già qualificato, mettendo a referto solo tre reti subite nel girone. Chiaramente non si tratta di un risultato di rilievo, e ad eccezione di Jermaine Seoposenwe non sembra esserci talento a palate, ma la squadra è stata messa in campo con ordine e si è visto un piano tattico. C’è molta strada da fare ancora, ma il Sudafrica ha sorpreso per come ha affrontato le sue partite, segno che il progresso tecnico-tattico sembra aver finalmente raggiunto tutti i continenti.

 

 

5. La scuola di Lione

 

Se per il Sudafrica si parla di primi passi in avanti a livello tattico, la Francia è completamente su un altro pianeta. Le transalpine sono tra i più interessanti laboratori tattici del calcio femminile, per il loro modo di controllare il ritmo della partita attraverso un gioco di possesso, gestione e accelerazione. Il modello è quello dell’Olympique Lyonnais, che è la capitale europea dello sviluppo del calcio femminile. La squadra francese domina ininterrottamente il campionato da dieci anni, ed è fresca vincitrice della Champions League.

 

La Nazionale francese gioca in maniera molto simile alle leonesse, e difatti ne eredita otto giocatrici titolari. Un 4-3-3 che può diventare 3-4-3, come nella finale di Champions Lione-Wolfsburg, e che copre bene tutte le zone del campo. Eppure alla Francia manca qualcosa per vincere nonostante il controllo della partita: la giocata che porti il pericolo improvvisamente. Nel Lione ci sono ovviamente anche calciatrici straniere, tra cui Ada Hegerberg, che hanno avuto un certo peso nella conquista della Champions. Nella rappresentativa nazionale manca forse un po’ di qualità offensiva, ma la sensazione generale è che la Francia potrebbe aver raggiunto un’evoluzione tattica sin troppo avanzata per il corrente stato del calcio femminile.

 

A tal proposito è impossibile non menzionare Louisa Nécib (che recentemente ha adottato il cognome del marito Cadamuro sulla maglia). Sicuramente era la calciatrice di maggior talento della Nazionale francese, oltre che la più rappresentativa. Aveva annunciato il suo ritiro a fine Olimpiade prima che il torneo iniziasse, e per lei era l’ultima occasione di affiancare una medaglia olimpica al suo sterminato palmares col club. Da un lato sembra un vero peccato che una giocatrice del genere non possa beneficiare dello sviluppo tattico della nazionale e a sua volta dare il suo apporto. Dall’altro è possibile che come rappresentante della vecchia generazione, in cui si distingueva grazie a capacità tecniche sopra la media, debba metaforicamente fare spazio al nuovo che avanza, che in Francia avanza appunto molto velocemente.

 

 

6. Catenaccio svedese

 

La Svezia ha sorpreso tutti in questo torneo per due motivi molto semplici: il primo è che ha giocato un calcio difensivo che non si era mai visto nel panorama femminile, il secondo è che lo ha fatto benissimo ottenendo in cambio una medaglia, anche se d’argento. Le scandinave erano abituate ad un calcio propositivo, ma sotto la guida di Pia Sundhage, che è tornata a casa dopo aver allenato per anni gli USA, hanno costruito un 4-5-1 impenetrabile che ha iniziato a dare i suoi frutti in questo torneo. Al mondiale 2015 avevano passato il primo girone con tre pareggi, per poi essere eliminate dalla Germania.

 

A Rio invece hanno sofferto inizialmente, subendo ben 5 gol dal Brasile, ma il loro piano ha messo in crisi sia le americane che le padrone di casa, nella rivincita disputata nelle semifinali. L’esempio di applicazione tattica e sacrificio per la squadra è stata Lotta Schelin, che è la miglior marcatrice di sempre della sua nazionale e del Lione (club che ha lasciato proprio questa estate per tornare in Svezia). Nonostante i suoi numeri e un’età che potrebbe suggerire un ruolo offensivo in attesa di palloni giocabili, Schelin ha giocato larga a sinistra con compiti difensivi, ed è stata di particolare aiuto al terzino Rubensson nel raddoppio su Marta. Anche per Schelin potrebbe essere stata l’ultima occasione per vincere qualcosa, per lei che era troppo giovane per disputare il mondiale 2003, in cui la Svezia sfiorò il titolo, battuta ancora una volta dalla Germania.

 

 

La nazionale vestita H&M è diventata rapidamente la favorita del pubblico dopo aver eliminato gli Usa, ed è stata sin troppo velocemente paragonata all’Italia come filosofia calcistica per aver difeso il fortino con ordine nelle ultime due gare. Certamente l’idea tattica è stata sorprendente: per molte Nazionali femminili sarebbe difficile allenarsi con sufficiente continuità per perfezionare un gioco difensivo, ma il crescente professionismo europeo ha consentito a Pia Sundhage di sperimentare al suo ritorno in patria.

 

In finale la Svezia è arrivata forse stanca dopo due partite portate ai rigori, nelle quali ha lasciato energie fisiche e mentali, ma ha avuto il merito di provare a tornare in partita una volta sotto 2-0, dimostrando di poter cambiare piano tattico in caso di bisogno.

 

 

7. La prima volta della Germania

 

Nonostante il dominio europeo (6 titoli consecutivi a livello continentale) e due coppe del mondo in bacheca, la Germania non era mai riuscita neanche a raggiungere la finale olimpica, riuscendo a conquistare solo tre medaglie di bronzo. Le tedesche sono state la squadra più completa del torneo: combinano forza fisica, tecnica ed organizzazione tattica. Manca forse una giocatrice di maggior spessore rispetto alle altre, ma è il lavoro di gruppo la forza di questa squadra.

 

Così come la Svezia, anche la Germania è cresciuta all’interno del torneo: ha passato il girone come seconda alle spalle del Canada, e come la Svezia ha eliminato nelle semifinali la squadra che aveva vinto il gruppo. Il quarto contro la Cina è sembrato essere una sessione di allenamento “attacco contro difesa”, in cui solo un tiro da fuori di Behringer ha risolto la partita, e che poteva grottescamente essere pareggiato dall’unica sortita cinese nei minuti finali, ma Wang Shuang ha fallito il rigore da lei stessa guadagnato in azione solitaria. Passato lo spavento, il match può essere considerato un’ottima preparazione per affrontare la difesa della Svezia in finale, di nuovo battuta con un gol da fuori di una centrocampista, Maroszan.

 

 

Nonostante il ricambio generazionale che ha seguito i ritiri, tra le altre, di Angerer e Šašić, la Germania sembra essere riuscita a mantenere intatta la propria tradizione vincente fatta di una grande organizzazione che permette il controllo totale della partita, unita alla continuità di arrivare sempre in fondo nei tornei importanti. La sfida per le tedesche sarà conservare queste qualità anche dopo l’addio di Silvia Neid, che lascia la panchina con in tasca un mondiale, due europei, un bronzo e un oro olimpico.

 

 

Tags : calcio femminilefranciagermaniario 2016sveziausa

Jacopo Piotto ha curato l'analisi calcistica di Sky, adesso vive in Brasile e dalla finestra vede lo stadio del Santa Cruz.

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