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Stefano Ardito
I primi passi di Walter Bonatti
28 giu 2022
28 giu 2022
Un estratto dall'ultimo libro di Stefano Ardito, pubblicato da Laterza.
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Stefano Ardito
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Anche se le funivie consentono di salire di quota rapidamente, qualcuno continua ad andare fin lassù a piedi. In una calda giornata d’agosto del 1949, un giovane alpinista lombardo risale la Vallée Blanche verso il rifugio Torino. Il sole ha trasformato la conca in un forno, e il valico è ancora lontano. Walter Bonatti, con l’impazienza di chi non ha ancora vent’anni, non ne può più di quel camminare faticoso.

 

Poi un boato sembra scuotere la montagna, e una enorme frana precipita in un canalone. Walter alza gli occhi, e rimane impietrito. Mentre la nuvola di polvere e neve si posa, davanti ai suoi occhi appare la «superba visione di un gran pilastro rosso dominante il complesso delle guglie» che fanno da satelliti al Tacul.

 

«Visto dal basso si presentava così regolare ed elegante nella sua arditezza da far provare un senso di capogiro al solo pensiero di raggiungerne la cima» scriverà Bonatti in Le mie montagne, il suo primo libro. «Uno dei miei primi pensieri fu quello di chiedermi se fosse mai esistito un uomo che avesse osato salirne la parete».

 

Qualche settimana più tardi Toni Gobbi, un alpinista veneto che lavora come guida e negoziante a Courmayeur, spiega a Walter che la guglia si chiama Grand Capucin, e che la sua parete Est è un problema alpinistico famoso, già preso in considerazione da maestri come Riccardo Cassin e Pierre Allain. Nessuno, però, ha mai tentato di salirla.

 

Nato a Bergamo, ma di madre emiliana, Walter Bonatti scopre la montagna da bambino sulle Alpi Orobie. Qualche anno dopo, sfida i suoi coetanei ad attraversare a nuoto il Po, reso infido da mulinelli e correnti. La guerra porta le bombe dal cielo, l’occupazione tedesca, la fame.

 

Quando la pace finalmente ritorna, la famiglia Bonatti si trasferisce a Monza, e Walter si dedica alla ginnastica acrobatica con la società sportiva Forti e Liberi. Scopre l’alpinismo sulle Grigne, e passa rapidamente alle cose serie.

 

Nell’estate del 1949 sale il Croz dell’Altissimo e la parete Nordovest del Badile. Poi scopre il massiccio del Bianco, dove supera la Ratti-Vitali dell’Aiguille Noire e lo Sperone Walker delle Grandes Jorasses. Con lui, in quegli anni, arrampicano il coetaneo Andrea Oggioni, che diventerà un amico del cuore, e altri ragazzi lombardi.

 

L’abbigliamento e gli scarponi sono residuati bellici, le corde sono di canapa, i chiodi e i moschettoni sono pochi e malmessi. Ma sta nascendo una stella. E a vent’anni e un mese, il 24 luglio del 1950, insieme a Camillo Barzaghi, Walter Bonatti raggiunge l’attacco del Grand Capucin.

 



Il primo tentativo al «gran pilastro rosso» fallisce a causa del maltempo. Il sole del mattino lascia il posto a un temporale, e poi a un secondo particolarmente violento, che i due alpinisti evitano rifugiandosi in una piccola grotta. L’indomani la parete è fradicia, l’unica soluzione è scendere, e le corde di canapa che diventano rigide rendono le doppie pericolose.

 

Venti giorni più tardi, Bonatti torna all’attacco con il torinese Luciano Ghigo. Durante il primo bivacco nevica, poi esce il sole e si può continuare a salire. Seguono due giorni di lotta, nel «vuoto più assoluto, reso ancor più severo dai grandi tetti che incombono a destra». Le borracce sono vuote, e la sete tortura i due alpinisti.

 

Più in alto la parete oppone altri diedri e fessure di estrema difficoltà, poi una nevicata investe il Grand Capucin. Bonatti affronta senza riuscire a superarla un’enorme placca verticale, poi lui e Ghigo bivaccano nella tormenta. L’indomani una mattinata di sforzi porta i due uomini alla sommità della placca, ma di pro- seguire non si parla neppure. Delle lunghe calate in corda doppia, lungo la parete Nord, riportano i due alpinisti sul ghiacciaio.

 

Il nuovo tentativo al Capucin inizia il 20 luglio del 1951, e una variante d’attacco consente agli alpinisti di arrivare in soli due giorni alla sommità della placca. Il terzo giorno una traversata li riporta al centro della parete, dove continuano a salire, quasi sempre in arrampicata artificiale. Seguono una nevicata furiosa, e un bivacco su due gradini larghi quanto le suole degli scarponi.

 

Ma la tenacia di Walter Bonatti diventerà proverbiale. Nonostante il maltempo, continua a salire un tiro di corda dopo l’altro. Dopo aver aggirato sulla destra il «cappuccio» che ha dato il nome alla montagna, sbuca sulla lama di granito della cima, e fa salire il compagno di cordata. La discesa è un’altra lotta nella bufera, che si conclude solo al rifugio Torino.

 



La vittoria di Walter Bonatti e Luciano Ghigo sulla parete Est del Grand Capucin non è solo un’ascensione importante. Quella elegantissima linea, tracciata su placche all’apparenza impossibili, apre a una nuova generazione di alpinisti (della quale Walter ovviamente fa parte) muraglie prima impensabili come la parete Ovest del Dru o il Pilone Centrale del Bianco.

 

Non mancano le polemiche, come spesso accade per le ascensioni famose. Un mese dopo la prima salita, Luigi Ghedina e Lino Lacedelli, due «Scoiattoli» di Cortina fortissimi in arrampicata libera, ripetono la via con un solo bivacco, e qualcuno a Courmayeur insinua che non l’abbiano fatta davvero.

 

Quando il francese Guido Magnone, futuro vincitore del Fitz Roy e della parete Ovest del Dru, definisce i tentativi falliti una «preparazione spinta della via», Bonatti si infuria e ricorda che solo 20 dei 42 tra chiodi e cunei portati in parete da lui e Ghigo sono rimasti in parete. L’accusa secondo lui è ridicola.

 

Rimette le cose a posto Jean Couzy, un altro forte alpinista francese, che riesce a ripetere la via tracciata da Bonatti e Ghigo solo al quinto tentativo, e scrive di «un’impresa che ha qualcosa di unico». Il tirolese Hermann Buhl, protagonista sulle Alpi orientali, scrive della «più difficile arrampicata su granito in assoluto».

 

La vittoria sul Grand Capucin dà a Walter Bonatti la piena coscienza dei suoi mezzi. Dopo la parentesi del servizio militare si trasferisce a Courmayeur, e inizia a guardare al Monte Bianco con occhi nuovi. È lui a individuare, e poi a risolvere uno alla volta, dei problemi alpinistici che non sono stati presi in considerazione dalle generazioni precedenti.

 

Su ghiaccio e misto, il terreno su cui Bonatti eccelle, questa ricerca lo porta sul Grand Pilier d’Angle, una ciclopica struttura affacciata sul ghiacciaio della Brenva dove l’alpinista lombardo apre ben tre itinerari. All’apertura del primo, nel 1957, partecipa l’amico e collega Toni Gobbi.

 

Su roccia, Bonatti affronta e vince nel 1959, insieme all’amico Andrea Oggioni, il magnifico e remoto Pilastro Rosso del Brouillard. Due anni dopo, nel 1961, torna sulle guglie rocciose più alte d’Europa per affrontare il Pilone Centrale del Frêney.

 

È una struttura rocciosa straordinaria, in ambiente estremamente selvaggio, a destra della via aperta ventuno anni prima da Giusto Gervasutti e Paolo Bollini della Predosa. Ma il tentativo del 1961, compiuto da sette alpinisti italiani e francesi, si trasformerà in una delle più celebri tragedie della storia dell’uomo in montagna.

 

A simboleggiare l’alpinismo solitario di Walter, la sua grinta, la sua capacità di spingersi al limite estremo della vita è però il Pilastro Sudovest del Dru, la gigantesca freccia di granito che domina la Mer de Glace e il Montenvers. Henry Brégeault lo ha definito «la montagna francese per eccellenza, la gemma nel diadema di Chamonix, l’orgoglio e la sfida degli

, la disperazione per l’occhio di un alpinista».

 



Nonostante la «disperazione» di Brégeault, le pareti del Dru, come quelle delle altre montagne, vengono vinte una dopo l’altra. Dopo la prima assoluta del 1879, compiuta da Jean-Estéril Charlet (non ancora Straton) e compagni, nel 1935 viene salita la parete Nord, e nel 1952 la Ovest. Come per confermare il titolo di «montagna francese per eccellenza», questi exploit sono opera di cordate transalpine.

 

A sfidare la supremazia francese sul Dru è proprio Walter Bonatti. Nel 1953, quando lo osserva dal Montenvers, si accorge che la via tracciata un anno prima da Guido Magnone, Lucien Bérardini, Adrien Dagory e Marcel Lainé risolve solo in parte il problema.

 

A destra della parete Ovest, infatti, si alza una «pura ed elegante struttura» che «domina snella ed elegante tutto il versante occidentale». «Mancava l’itinerario perfetto a una montagna perfetta» conclude Bonatti. Nel suo vocabolario, una frase come questa compare solo quando lo zaino per partire è già pronto.

 

Nel primo tentativo, con il lecchese Carlo Mauri, Walter si lascia a sinistra la Via dei Francesi, e continua nel pericoloso canalone delle Flammes de Pierre, battuto da scariche di pietre e di ghiaccio. Poi i due attaccano le rocce del Pilastro.

 

Il secondo giorno, Carlo e Walter approdano su un terrazzo dove dei cunei di legno e dei fichi secchi abbandonati raccontano di un tentativo precedente. Una traversata a sinistra li porta in parete aperta, e all’inizio delle vere difficoltà. Dopo due bivacchi e due temporali, però, l’energia per continuare finisce. Una corda doppia dopo l’altra, i due scendono verso il Montenvers.

 

Il 1954 per Bonatti è l’anno della spedizione al K2, che per lui si conclude con un terribile bivacco a 8000 metri di quota, insieme all’hunza Mahdi. Al dolore fisico segue quello spirituale, perché per il suo sacrificio non viene ringraziato né dal capospedizione Ardito Desio, né da Achille Compagnoni e Lino Lacedelli, i due che hanno raggiunto la cima.

 

Anche per reagire alle polemiche e al dolore, nel 1955 Walter torna sul Dru con Mauri, Andrea Oggioni e Josve Aiazzi. Ma le condizioni sono peggiori di prima. Nel canalone delle Flammes de Pierre precipitano enormi scariche di pietre e di ghiaccio, il bivacco all’attacco della via è tormentato dalla pioggia e dalla neve.

 

Durante la seconda notte in parete, sulla «cengia dei cunei misteriosi», un boato sembra scuotere la montagna. Una gigantesca frana che si è staccata più in basso ridisegna la parete e sconvolge il canalone di attacco. La discesa, tra lastroni di ghiaccio e blocchi di granito in bilico, richiede otto ore di pericoli e paure.

 



Poi arrivano i giorni del dubbio. La crisi scatenata dall’odissea sul K2 non è finita, e la domanda di cosa fare della propria vita tormenta il venticinquenne Walter, che ha tagliato le sue radici lombarde ma non ha ancora scelto di vivere ai piedi del Monte Bianco.

 

Un giorno nella sua mente si affaccia un’idea folle, quella di tentare il Dru in solitaria. «Mi impongo di credere che non sono un uomo finito» annota Bonatti prima di mettersi in marcia.

 

Il 16 agosto, dopo un tentativo dal basso che fallisce a causa del peso mostruoso dello zaino, l’alpinista sale con un amico al rifugio della Charpoua e prosegue fino alla Brêche des Flammes de Pierre, dove lascia il pesante bagaglio. L’indomani torna da solo alla Brêche, attrezza la prima di una lunga serie di corde doppie e inizia a scendere nel canalone, che gli appare «triste e solitario come una tomba».

 

Una martellata nel piantare un chiodo ferisce Walter alla mano sinistra. Una perdita alla borraccia dell’alcool necessario per far funzionare il fornello lo costringe a gettare buona parte del cibo, e a rinunciare a sciogliere la neve per bere. L’arrampicata inizia il 18 agosto, e dopo ogni tiro di corda Bonatti deve issare il saccone, scendere per recuperare il materiale e risalire.

 

La prima sera, l’alpinista bivacca nel punto più alto raggiunto con Mauri. Poi deve affrontare il Ramarro, una struttura di roccia scura che sembra un animale aggrappato al Pilastro. Seguono le levigate Placche Rosse. La solitudine è assoluta, e Walter, più volte, si scopre a conversare con lo zaino.

 

Il momento decisivo arriva la mattina del 20 agosto. Bonatti, tormentato dalla sete e con le mani tumefatte e piagate, sale sulla parete «liscia intorno, rientrante al centro e immensamente strapiombante al disopra». Una traversata lo porta ai piedi di uno strapiombo alto una dozzina di metri, oltre il quale la roccia sembra diventare più facile. Ma non ci sono appigli per salire, né fessure per i chiodi.

 

La volontà, la disperazione, la grinta indicano una via d’uscita pericolosa. Walter annoda alla corda «un sistema tentacolare di nodi», poi prova più volte a lanciarli su delle scaglie di granito una dozzina di metri più in alto. Quando la corda s’incastra e sembra tenere si issa a forza di braccia, mentre «cento pensieri si affacciano e si imprimono nell’animo per tutta la vita».

 

Il laccio tiene, poi la parete diventa più facile. Ventiquattr’ore dopo quel passaggio folle, Bonatti s’inginocchia accanto alla Madonna deformata dai fulmini che sorge sulla vetta del Petit Dru. Tre amici e un ultimo bivacco, senza più preoccupazioni, lo attendono sulla via di discesa.

 

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