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→ UU Srls - Via Parigi 11 00185 Roma - P. IVA 14451341003 - ISSN 2974-5217.
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I nostri pezzi preferiti del 2017
30 dic 2017
30 dic 2017
Abbiamo chiesto ai nostri autori qual è stato il pezzo che hanno preferito scrivere quest'anno.
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Il 2017 è stato un anno difficile sul piano personale per me, di quelli che preferisci non guardarti indietro e pensare a cosa è successo, cosa hai fatto, come ti sei sentito. Mai come quest’anno, però, scrivere ha avuto una funzione teraupetica, anche non in modo introspettivo, ma come puro piacere per la ricerca. È bello immergersi in una storia, aderire completamente con essa per il tempo necessario e farsi solo le domande che quella storia solleva. Ho scelto un pezzo strano, 

, un pezzo che ha avuto una discreta fortuna anche grazie al titolo che la sparava grossa ma che in un certo senso era giustificato. È stato riportato da siti e portali un po’ di tutto il mondo, specialmente in Inghilterra come è ovvio, dato che i 20 secondi in questione provengono da una partita di Premier League degli anni ‘90. Ho scelto questo pezzo però perché ricordo benissimo come è nata l’idea: eravamo a pranzo con Dario e Emanuele e per caso mi è capitato sotto gli occhi il video di quei 20 secondi, su Twitter, e io non guardo quasi mai Twitter. Non ho avuto, come si dice, l’illuminazione immediata di scriverci un pezzo, e avevo altre cose da fare. Con Dario e Emanuele però lo avremo rivisto una dozzina di volte di seguito ridendo sempre di più, ho visto le difficoltà che hanno avuto loro a capire esattamente cosa era successo, come le avevo avute io, lo stupore di fronte a una serie di errori tali che sembravano orchestrati. Sembrava una coreografia da wrestling. Poi l’ho fatto vedere ad altre persone, mentre io osservavo le loro reazioni, e tutte hanno avuto la stessa reazione sinceramente incredula e divertita. Ho capito che ci trovavamo di fronte a qualcosa di leggermente eccezionale, non qualcosa in grado di cambiarti la vita, ma che magari avrebbe potuto cambiare dieci minuti, un quarto d’ora della giornata di qualcuno. Ho iniziato a scriverlo per il desiderio di condividere quel momento con i lettori, mi sono detto che se qualcuno, guardando il video e/o leggendo il mio pezzo, avesse provato quello che avevamo provato noi, che avevo provato io, avrei ottenuto il massimo che si può chiedere alla scrittura.

 



 

Non sono molti i pezzi che scrivo per i quali mi capita di provare la stessa sensazione che si ha quando stai portando in tour un libro, lo stai leggendo a voce alta, ne vai a parlare. Credo dipenda dal fascio di relazioni che si sprigiona: ricordi il prima e il dopo, tra i quali il pezzo è un ponte. Anche se a livello di storytelling sono affezionato alle storie dei calciatori rifugiati, il mio preferito di quest’anno è Il Sasha Grey del calcio. Perché con David Babunski, poi, ci sono davvero riuscito a parlare. Un’ora di chat su Skype in cui abbiamo parlato di massimi sistemi come ci conoscessimo da un secolo. Magari un giorno la pubblichiamo, vallo a sapere.

 



 

Non credo che questo sia il mio pezzo meglio riuscito ma è di sicuro quello più ambizioso. Quello che mi interessava era usare FIFA come prisma dentro cui osservare i legami tra come funziona il nostro cervello e come lo usiamo nel calcio. Gli aspetti neurologici nel calcio e nello sport più in generale sono una frontiera che diventerà sempre più importante nel futuro prossimo ed è un tema che mi piacerebbe approfondire. Questo è un primo mattoncino, vediamola così.

 



 

Di Roman Abramovich, più della sua storia d'ascesa così tipicamente russa, mi affascinava soprattutto il paradosso che è alla base della sua acquisizione del Chelsea. Quello, cioè, di nascondersi in piena vista, di puntare su di sé tutti gli occhi della stampa europea senza mostrarsi veramente. È un prestigio che oggi è diventato diffuso nel nostro calcio, con i club che vengono periodicamente acquistati da miliardari che sembrano alieni sbarcati da mondi lontani, ma che Abramovich incarna ancora nella maniera più raffinata, pur non essendo una persona particolarmente raffinata di per sé. Di Abramovich sappiamo pochissimo, e questo pezzo non contiene nessuno scoop clamoroso sulla sua identità o sulle sue motivazioni, ma riflette più che altro su questo paradosso, sul perché è importante oggi che siamo abbagliati dalle luci abbaglianti e illusorie del capitalismo sportivo.

 



 

La narrativa attorno a Russell Westbrook ha dominato buona parte del 2017, l'anno in cui il suo nome è diventato sinonimo di tripla doppia probabilmente per il resto dei suoi giorni. In questo pezzo ho cercato di capire come sia riuscito a registrare 42 triple doppie in una stagione e perché, anche di fronte a un risultato tanto eccezionale, abbia comunque ricevuto un sacco di critiche.

 





 



 

Sono passati tre anni da quando scrissi di Bryan Cristante in 

 per l'Ultimo Uomo, poco dopo la scelta frettolosa del Milan di cederlo al Benfica. Cristante è adesso tra i migliori centrocampisti del campionato, e quasi nessuno se lo sarebbe aspettato fino a qualche mese fa. Qui ho raccontato la sua evoluzione.

 



 

L'importanza del passaggio da calciatore a dirigente, la necessità della formazione continua nel calcio, l'abilità nella negoziazione e come mantenere competitiva una squadra senza risorse nell'epoca del calcio dei fondi sovrani: cosa ci insegna la storia di Monchi, deus ex machina della rinascita del Siviglia, e ora DS della Roma.

 



 

Ho iniziato a scrivere questo pezzo con l'idea di mettere a nudo lo scarto tra i migliori attaccanti del mondo e quelli presenti in questa lista. Quando l'ho finito mi ero affezionato così tanto a tutti loro che ogni domenica spendo qualche minuto a controllare come procedono le loro vite. Sono attaccanti goffi, tanto grandi fuori quanto fragili all'interno e anche voi potete volergli bene.

 



 

Il bello dello sport resta la sua imprevedibilità, e scriverne comporta quindi un numero elevato di errori di valutazione macroscopici. Quelle rarissime volte in cui le cose sembrano andare come da previsione le custodisco gelosamente. Il pezzo su Jokic è uno di questi: al momento in cui ne scrivevo stava emergendo da pochissime partite il trend che ha accompagnato i Nuggets nel resto del 2017, e il sottotitolo (di Dario Vismara), che poteva sembrare una strategia da acchiappa-click, si è confermato invece la miglior sintesi possibile della vicenda.

 



 

Questo pezzo è stato un esperimento. Prendere un cliché, metterlo a verifica, decostruirlo. Mi ha permesso di lavorare in un modo diverso dal mio solito. Concentrarmi su una porzione molto precisa del profilo e non affrontarlo per intero. Spostare i riflettori su aspetti che di solito restano in ombra e giocare su quelli in piena luce. Dopo, ho preso a vedere Neuer dalla prospettiva nuova e l'esperimento mi è sembrato riuscito.

 



 

In questo pezzo parlo dell'apoteosi di Isco, il giocatore che ritengo l'MVP del 2017. La cosa che mi premeva far arrivare è l'importanza di Isco come chiave di volta del sistema trovato da Zidane di caos sotto controllo con cui il Madrid ha vinto Liga e Champions League.

 





 



 

Lo scritto del 2017 a cui sono più affezionato è, in realtà, la risposta alla domanda di un lettore. Giorgio ci chiedeva se nel cinico ambito della tattica calcistica, pervaso da un pragmatico relativismo, ci fosse qualcosa che una squadra deve assolutamente fare, se non per avere la certezza di vincere, almeno per giocare bene e garantirsi più chance per il successo.

 

La domanda ha portato ad interrogarmi sul mio passato calcistico e di allenatore per diletto e mi ha consentito di fare un bilancio su quello che faccio, penso e scrivo di calcio. Ricordo che già nel corso frequentato per ottenere la licenza UEFA, il nostro insegnante di tattica era solito rispondere alle nostre proposte con un ermetico “dipende”, rimandando al campo le risposte. Diceva che se una cosa funziona in campo e con i giocatori a disposizione è chiaramente una cosa buona e che non c’è modo di stabilirlo a tavolino. Il massimo del relativismo. La domanda del lettore mi ha però consentito di focalizzare ciò che penso veramente; in uno sport di estrema tecnica, come il calcio, in cui si usano i piedi, le nostre estremità meno indicate per manipolare oggetti e pertanto le capacità dei singoli giocatori sono sempre la cosa più importante e il pre-requisito necessario per ogni tattica, anche la più raffinata. La tecnica, intesa nel senso più ampio del termine, non si limita a consentire l’esecuzione dei gesti, ma amplia in maniera determinante anche le possibilità tattiche di una squadra.  Alla fine chi ha i giocatori più forti ha più probabilità di vincere e, scrivendo così tanto di tattica, forse ogni tanto tendiamo a dimenticarlo.

 



 

Questo pezzo su Mario Mandzukic è forse la cosa più "Ultimo Uomo" che ho scritto quest'anno su l'Ultimo Uomo. Nessun giocatore è una macchina perfetta. Persino Leo Messi ha faticato a prendersi l'Argentina, quando è stato inserito in un contesto tattico incoerente. Fare l'assessment delle caratteristiche di Mandzukic, definirne i contorni, individuare per certe sue qualità delle ipotesi di utilizzo, o scartarne altre per i suoi difetti più marcati, è un'operazione che restituisce sempre un valore al lettore. Chi ne scrive, a lavoro completato, percepisce un senso di sollievo per un'operazione, onesta ed analitica, che è al di sopra dei propri stessi umori (io adoro Mario Mandzukic) e del sentire comune urlato attraverso il megafono dei social (che chiede la testa dell'attaccante croato già da un po').

 



 

Nagelsmann è stato il personaggio dell'anno in Bundesliga, capace di portare in Europa una squadra che aveva appena sfiorato la retrocessione. Il suo calcio, fatto di sistemi di gioco fluidi, pressing e precise strutture posizionali è una commistione tra la visione tedesca e quella spagnola, ovvero le due scuole più vincenti negli ultimi anni a livello internazionale. Ambizioso, perfezionista e grande studioso del gioco, a 30 anni ha dimostrato al mondo che si può giocare un calcio propositivo e spettacolare anche senza giocatori straordinari.

 



 

L'unica cosa che ho scoperto di avere in comune con Tielemans è un esame di maturità classica, che lui però ha dovuto preparare mentre era in ritiro con la Nazionale maggiore. Tielemans è un centrocampista dal controllo morbido e il tiro potente, con la prospettiva di quindici anni di carriera ad alti livelli davanti a sé. È entrato nell'Anderlecht a 5 anni e ne è uscito a 20, portando di anno in anno in avanti il carico di aspettative che andava crescendo con lui. È il vanto di un sistema in cui il talento dovrebbe fondersi nei crogioli della progettualità. Da qualche mese è diventato padre per la prima volta. Nella mia continua ricerca di modelli generazionali, ho sentito di aver molto da imparare dalla storia personale di Tielemans. Mi piacerebbe imparare anche come calciare bombe sotto l'incrocio da quaranta metri, ma finora non c'è stato nulla da fare.

 





 



 

C'è stata un’era prima dei FabFive e c’è stata un'era dopo i FabFive. E poi c’è stata l’era dei FabFive, che è stata sicuramente la più divertente di tutte. Ho provato a raccontarla non limitandomi a ciò che succedeva in campo ma allargando lo sguardo all’impatto che hanno avuto sulla cultura pop, sulla musica hip-hop e sulle taglie dei pantaloni.

 

 



 

Ho scelto questa specie di epitaffio di Buffon che ho scritto con il cuore. Perché non c'è niente di più autentico che la passione per il proprio sport e per il proprio lavoro di chi ha dimostrato già tutto, ma che trova un modo di avvicinarsi ai 40 anni rimanendo competitivo, studiando nei dettagli e trovando un ricambio incessante di energie mentali.

 

 

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