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I ciclisti non sono più disposti a soffrire?
25 mag 2023
25 mag 2023
Le condizioni difficili di questo giro hanno sollevato la questione.
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Questa storia ha un inizio ben preciso: domenica 14 maggio alle 22.30 quando su tutti i social rimbalza una notizia clamorosa. Con poche righe di comunicato la Soudal Quickstep annuncia che Remco Evenepoel leader della classifica generale del Giro dopo una settimana di corsa, che quello stesso giorno poche ore prima ha vinto la 9a tappa, una cronometro con arrivo a Cesena, è positivo al Covid e deve abbandonare la corsa dopo appena sette giorni. Quali potevano essere le motivazioni della rinuncia? Possibile che ancora dopo tre anni, mentre in tutti gli altri sport i protocolli Covid non vengono più applicati, quando anche l’OMS il 5 maggio, il giorno prima dell’inizio della corsa rosa, ha dichiarato la fine dell’emergenza sanitaria causata dal virus, nel ciclismo un corridore possa ancora essere fermato a causa di un test positivo? Anche nei giorni precedenti parecchi ciclisti erano stati ‘squalificati’ per la positività; addirittura, la Jumbo Visma, una delle squadre migliori, è arrivata con il roster completamente stravolto: almeno tre/quattro corridori sono stati sostituiti a pochi giorni dal via.

Dopo le prime ore di confusione e sgomento, informazioni più attendibili hanno aiutato a fare chiarezza sulla situazione. Nelle corse di ciclismo, l’applicazione di una procedura per positività non è più obbligatoria. Il monitoraggio e la gestione di eventuali casi sono delegati, come nei casi di malessere, al medico della squadra che decide se far continuare o meno la corsa insieme al singolo atleta, valutando caso per caso. La conclusione è dunque semplice: Remco Evenepoel non è vittima di un sistema che lo esclude a causa di rigide regole, ma è stato costretto ad abbandonare la corsa perché le condizioni fisiche non gli permettevano di affrontare una competizione lunga tre settimane nella migliore forma possibile. Semplice. Ha scelto di ascoltare il proprio corpo e preservare la propria salute, senza per questo dover essere etichettato come un debole.

E visto l’andamento della prima settimana di corsa, non è un fatto nemmeno così anomalo che il belga sia in sofferenza, che poi è il nodo centrale di tutta la questione. Remco e tutto il gruppo di corridori, arrivavano da una settimana tremenda, di pioggia intensa, di freddo, di cadute. Alla 5a tappa, Evenepoel è addirittura andato giù due volte. Il medico parla di forte ematoma muscolare e di una contusione all’osso sacro, tanto che la sua presenza in piazza del Plebiscito il giorno dopo è fortemente a rischio. Ma ancora più significative sono le immagini post cronometro di domenica: nell’intervista a fine prova, Remco Evenepoel è davanti alle telecamere in maglia nera-giallo-rossa di campione nazionale a cronometro con lo sguardo stravolto, ha le borse sotto agli occhi, non sembra che abbia ventitrè anni ma almeno il doppio. Non sorride, nonostante la vittoria di tappa, di 1 secondo su Geraint Thomas. Dice che non è stata la sua miglior giornata. Poche ore dopo arriva l’ufficialità della positività al covid e il ritiro.

Il ciclismo è uno sport in cui un cane può farti cadere e compromettere parte dei tuoi sforzi.

Rinunciare a una corsa, ancor di più una corsa su più settimane dove ci sono le giornate positive e quelle negative, e dove la condizione nelle prime tappe non è la stessa degli ultimi giorni, non è mai una decisione che un ciclista prende a cuor leggero. Prima di “salire in auto”, un corridore ci prova in tutti modi a rimanere in sella, andando ben oltre il proprio limite di resistenza. Il ritiro è davvero la decisione estrema, ancor di più quando ci si trova a dover gestire problemi di salute ‘interni’: una caduta in gruppo o in discesa, che provoca fratture o forti contusioni sono eventualità che il corridore sa di poter incontrare e che non può gestire se non con il ritiro. Quando i problemi sono di tipo intestinale o la febbre, un atleta può andare avanti anche più giorni e cerca di gestire in tutti modi la difficoltà fisica. Queste sono cose incredibili che nel ciclismo, uno sport che per cultura e tradizione esalta lo spirito di sacrificio e la sofferenza, si danno per scontate.

A maggior ragione se ti chiami Remco Evenepoel, sei il favorito alla vittoria finale e sei uno e indossi la maglia arcobaleno di campione del mondo e quella rosa di leader. In quel momento sei anche un simbolo del ciclismo, e a molti il fatto che Evenpoel abbia rinunciato alla gara non è piaciuto. Non ha dato sufficiente dimostrazione di durezza, per un campione di ciclismo. Il livore che lo ha travolto ha lasciato lui stesso senza parole. Il 23 maggio è tornato a parlare, affermando che è stata dura sentire tutto quello che è stato detto, come che «ha paura di essere sconfitto» o che «non vuole onorare la maglia rosa». Evenepoel ha chiuso con una frase significativa: «Non sono un robot ma un essere umano, un marito, un figlio, un compagno di squadre che prova normali sentimenti».

Qui comincia il secondo capitolo di questa storia, per ora durata poco meno di una settimana. Martedì 16 maggio il Giro riparte dopo il giorno di riposo da Scandiano nei pressi di Sassuolo e attraversa il passo appenninico delle Radici a 1527 mt di altitudine con una discesa lunga di quasi trenta chilometri. Quello stesso giorno, sulle Marche e sull’Emilia-Romagna orientale cadono in poche ore, tra i 100 e gli oltre 200 mm di pioggia. Gli esperti sostengono che è il quantitativo di pioggia che cade di solito in una singola primavera: la pioggia torrenziale provoca frane, alluvioni, allagamenti e l’inondazione delle aree costiere: ci sono più di 30.000 sfollati, migliaia di euro di danni e soprattutto 15 morti. I video e le immagini, anche amatoriali, che arrivano dal Centro Italia sono spaventose. Cesena è completamente sommersa dall’acqua, Cesena dove solo 48 ore prima c’era la carovana del Giro e i corridori si davano battaglia sulle bici da crono.

Nel frattempo, i corridori stanno affrontando una salita appenninica in condizioni davvero complicate, con la pioggia e il freddo ad accompagnare tutta la giornata: in particolare il passo delle Radici risulterà tosto da scalare e da scendere mettendo a dura prova la resistenza fisica ma soprattutto mentale di uomini che arrivano da giorni segnati dal maltempo. E sarà così ancora il giorno successivo a Tortona, con la brutta caduta di Tao Geoghegan Hart, in quel momento terzo in classifica generale, e ancora tra i favoriti per la vittoria finale, costretto al ritiro e con il femore e il bacino fratturati. Proprio in questa tappa l’11esima, il numero di ritiri è stato da record: dei 178 partiti da Fossacesia Marina sono ancora in corsa 140. I ciclisti sono provatissimi da questi dieci giorni e non sorprende che i movimenti in classifica generale soprattutto tra i big, come Roglic, Thomas e Almeida siano inesistenti.

Arriviamo così al terzo e ultimo capitolo di questa vicenda e che è anche il nocciolo della questione. La 13ima tappa di venerdì 19 maggio, da Borgofranco d’Ivrea a Crans Montana, 199 km con il passaggio sul passo del Gran san Bernardo a 2473 mt e poi la salita Croix de Coeur, nel Vallese a 2174 mt e soprattutto la sua insidiosa discesa. Già lunedì 15 maggio era arrivata l’ufficialità della modifica del percorso della tappa: il gruppo non avrebbe più raggiunto la Svizzera tramite il passo, ma attraverso il tunnel a 1875 mt. Brutto colpo per gli appassionati: ma era pur sempre lunedì, c’erano dunque cinque giorni per mandar giù la delusione. Inoltre, quella degli abbassamenti del traguardo o delle modifiche di tappa è un’eventualità che capita spesso nelle tappe in alta montagna. Invece venerdì mattina la nuova doccia gelata: alle 10.30 arriva notizia di un totale stravolgimento della tappa che perde del tutto la prima parte, con il passaggio in Italia la corsa partirà direttamente dall’attacco della salita al Croix de Coeur per arrivare come stabilito a Crans Montana per un totale di 75 chilometri.

Da quel momento è stato il caos nella comunicazione, e a farne le spese subito sono stati gli spettatori, poiché non sono a conoscenza delle dinamiche che muovono il mondo del ciclismo professionistico, e del mondo dello sport agonistico, degli sponsor o che banalmente non conoscono i regolamenti delle corse, aspetto direi del tutto normale. Io stessa sono andata a leggermi parte del regolamento Uci in merito alla possibilità di spostare, modificare o cambiare il tracciato di una tappa.

La vicenda è andata essenzialmente così: la sera tra giovedì e venerdì i ciclisti hanno votato, tutto nel rispetto del regolamento, per chiedere di non fare la Croix de Coeur, date le previsioni meteo molto negative – era previsto ghiaccio sulla discesa. In questi casi ci deve essere una maggioranza dell’80 percento dei ciclisti per poter presentare la richiesta. La percentuale dei favorevoli è stata del 90, di fatto tutti. È iniziato allora un lungo braccio di ferro con l’organizzazione della corsa, nella persona di Mauro Vegni, che alla fine ha raggiunto il compromesso: sì alla Croix, tagliata la prima parte. Il gruppo ha anche minacciato di scioperare, cosa avvenuta peraltro nella tappa farsa con arrivo a Morbegno nel 2020. Per evitare una seconda Morbegno, l’organizzazione ha scelto di andare incontro alle richieste dei ciclisti ma salvare comunque la tappa e in qualche modo lo spettacolo. Ovviamente i più scontenti i tifosi “italiani”, che hanno visto la carovana del giro passare a bordo di autobus: comprensibile frustrazione dei tanti appassionati che magari hanno preso il giorno di ferie per poter essere sulle strade della corsa e sicuramente non sarà contenta la Regione Valle d’Aosta o i comuni in cui avrebbero dovuto passare i corridori. Il danno economico è insindacabile.

Al di là di come sia stata gestita tutta la vicenda, i fatti di questa settimana gettano le basi per una riflessione incentrata sulla posizione dei ciclisti e, in una prospettiva più ampia, su quella degli atleti professionisti – è un maschile neutro, riguarda anche le donne – e sul concetto dello spettacolo a tutti costi. Subito è piovuta sui corridori una pioggia di critiche anche molto feroci e che prendeva a piene mani dal classico discorso dai tratti retorici del «sono professionisti pagati, è il loro dovere» che è tanto familiare quando si parla di calcio.

Quello del “privilegio dello sportivo” è un discorso che si lega a doppio filo anche con la critica che sostiene la presunta debolezza del ciclista di oggi, che la vicenda di venerdì scorso non ha fatto altro che rinfocolare. In una intervista di qualche anno fa, Allan Peiper, ex ciclista degli anni '80-'90, affermò che «i corridori non sono più abituati a queste condizioni. In Belgio al primo accenno di pioggia i corridori vanno ad allenarsi in Spagna». Nella stessa occasione ricorda la storica tappa del Giro del 1988, con il passo del Gavia a 2621 mt, affrontato sotto una fitta nevicata, che fu una gara di sopravvivenza più che una tappa. In quell’occasione la direzione della corsa decise di non sospendere la gara e pare che il direttore Vincenzo Torriani avrebbe dichiarato «Lo spettacolo deve continuare e i ciclisti devono soffrire per lo spettacolo».

È poi girata molto negli ultimi giorni una nota frase di Eddy Merckx, «Se avete paura di vento e pioggia, allora lasciate stare il ciclismo»; nello specifico è stato Davide Cassani, ex ct della nazionale e oggi opinionista per la Rai, a commentare con la frase di Mercxk tutta la vicenda del taglio della tappa. Parole che rinfocolano un vecchio dibattito che vuole mettere a tutti i costi in contrapposizione i ciclisti delle passate epoche e quelli moderni, facendo passare questi ultimi e il ciclismo di oggi come meno nobile perché non disposto alla sofferenza fisica. Esistono aspetti del ciclismo di oggi che fanno storcere il naso ai nostalgici come il predominio dei tatticismi di squadra che addormentano le corse, l’uso delle radioline, i computerini che snaturano l’anima istintiva di questo sport. Sempre le stesse polemiche. Altri aspetti che invece segnano un passo in avanti come il passaporto biologico per il contrasto del doping, i progressi nella qualità dell’alimentazione e degli allenamenti e la tutela della salute.

La narrazione del ciclismo ha una forte impronta epica ed è possibile quindi che la natura stessa del ciclismo e la percezione che ne abbiamo, di uno sport epico e di sacrificio, ci rende poco indulgenti nei confronti di un ciclista che rinuncia alla fatica. Tappe come quella del Giro del 1956 sul Monte Bondone frustato dalla bufera di neve, in cui Charly Gaul tagliò il traguardo semiassiderato e Fiorenzo Magni arrivò in cima con una spalla fratturata e tenendo il manubrio con un tubolare stretto tra i denti, sono imprese eccezionali ma come possiamo usarle a metro di paragone per valutare un atleta? Un atleta deve spingersi ben oltre i propri limiti, arrivando fino all’auto-distruzione fisica per appagare il nostro senso dell’epica e dello spettacolo?

Una delle immagini storiche del ciclismo: Fiorenzo Magni che corre stringendo tra i denti una camera d'aria.

In tutta questa vicenda, con estrema chiarezza e puntualità sono arrivate le parole di Adam Hansen, presidente del CPA (Cyclistes Professionnels Associés), il sindacato dei ciclisti: «Io ero un corridore. Voi, da tifosi, potreste leggere che un ciclista va a casa a causa di una caduta di qualche giorno prima o di un'influenza. Ma io so che se un corridore torna a casa per un'influenza, essendo in una cosa importante come il Giro, quel corridore avrà corso con quell'influenza per giorni, e lottato e sofferto in modi che non sono visibili in TV per giorni prima di decidere di fermarsi. Accade molto di più di quello che i fan vedono. Il ritiro è l'estrema decisione per un ciclista, una completa resa, e prima di arrivare a quel punto un corridore è in grado di andare ben oltre il proprio limite a volte per intere settimane. (…) È salutare correre una tappa così impegnativa mentre si è malati? E c'è la pressione di squadre, tifosi, contratti e ogni parte in causa che contrasta l'opinione dei corridori, i quali chiedono una tappa più corta per la propria salute. Nessun medico degno di questo titolo sarebbe d'accordo che qualcuno ammalato trascorresse 5 ore bagnato al freddo con una frequenza cardiaca superiore a 170 mentre il corpo è già affaticato».

Queste parole centrano la discussione su un punto che troppo spesso si dimentica in campo sportivo, tesi come siamo alla semplice ricerca “dello spettacolo” a tutti i costi: quello della salute fisica e mentale degli atleti. Chi non è uno sportivo professionista o non è strettamente contatto con il mondo che ci gira intorno, ignora la pericolosità degli effetti che le pressioni dello sforzo fisico in sé, ma anche le pressioni di altro tipo, esercitano sui ciclisti: quelle degli sponsor, della squadra e dei compagni, del pubblico, della famiglia. Sono tutti aspetti che influiscono sulla performance dei ciclisti, e gli atleti non reagiscono in modo omogeneo alle avversità. Inoltre, essere un atleta forte, vincente, non ti mette al riparo da queste fragilità, così come il discorso dei lauti stipendi perde di valore, se mai ne ha uno, di fronte alla salute fisica e mentale.

I recenti casi più noti e che tante polemiche hanno scatenato sono un esempio lampante di quest’ultimo aspetto: i ritiri di atlete al prime della carriera come Simone Biles e Naomi Osaka e per restare nel ciclismo, del prematuro ritiro dalle corse di Tom Dumoulin, dopo un’agonia iniziata prima della pandemia, in cui ha smesso, poi ripreso, poi annunciato il ritiro definitivo alla fine della scorsa stagione. Nei vari comunicati ha usato espressioni molto chiare: «il serbatoio è vuoto, le gambe sono pesanti, sono l’ombra di me stesso». Questi pochi esempi tanto più clamorosi perché di persone famose, vincenti, sono la punta di un iceberg sotto cui ci sono migliaia di atleti e di atlete a livelli minori che faticano ma di cui non sappiamo nulla, ma che sono sottoposti a simili, se non le stesse pressioni. Tuttavia, il far venire alla luce queste storie spezza in qualche modo il binomio atleta-superuomo e apre ancora un poco di più il velo sull’importanza della salute, prima che della prestazione sportiva (e che spesso sono aspetti che vanno di pari passo).

In questo Giro d’Italia, i ciclisti, a partire da Evenepoel che rinuncia al Giro per curarsi, hanno scelto di dare priorità alla propria salute fisica e mentale. E non è possibile biasimarli: queste prime due settimane di corsa sono state davvero dure e faticose. Hanno corso per tanti giorni centinaia di chilometri sotto la pioggia, guidando la bicicletta in discesa sull’asfalto bagnato – con le biciclette di oggi, i ciclisti vanno molto più veloci rispetto ad anni fa – con una tensione in corpo molto alta. Leggere notizie, vedere immagini e video, di frane, città allagate, case sommerse dall’acqua e dal fango, in località in cui si è appena passati o si passerà, l’incertezza del domani, la prospettiva che possa andare avanti in modo uguale per ancora una settimana, sfido chiunque, a non provare pressione, tensione. E in tutto questo c’è anche una gara professionistica con tutte le sue logiche, da correre.

La richiesta dei corridori è stata dunque legittima, come legittimo è stato il tentativo dell’organizzazione di salvare lo spettacolo: anche loro stanno facendo il loro lavoro, con pressioni di ogni genere. Si è cercato il compromesso, ma qualcuno per forza verrà scontentato.

Si poteva fare meglio? Certamente, si, a cominciare dalla trattativa e la comunicazione con l’esterno. Ma se questa breve storia di una settimana è un passo verso il progresso di uno sport più sano e all’abbandono della logica dello “Show must go on”, questi momenti di crisi sono salutari.

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