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Illustrazione di Giordano Poloni
Hype Fabrizio Gabrielli 1 luglio 2015 9'

Hype Jackson Martínez

La nuova puntata di Hype, la rubrica nella quale analizziamo giocatori al confine tra promessa e campione. Il protagonista stavolta è Jackson Martínez.

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Lo stadio Francisco Pacho Maturana è stato inaugurato nel dicembre del 2011: è un campo sportivo all’avanguardia, in erba sintetica, con spogliatoi e tribune, eretto con i soldi dello Stato e in collaborazione con la Coldeportes, ente decentralizzato per la promozione e lo sviluppo dello sport in Colombia, per poi essere posto sotto la vigilanza e amministrazione dell’Università Tecnologica del Chocó.

 

L’unica pecca dello stadio Maturana è che si trova in mezzo alla foresta, a mezz’ora di macchina e qualche minuto in più di bus dal centro di Quibdó, il capoluogo dell’unico dipartimento colombiano che si affaccia su due oceani. Non voglio dire che per questo i ragazzi non siano felici di avere un campo d’allenamento moderno, anche se tutti avrebbero preferito continuare a giocare a La Paternal, il campo del barrio Niño Jesús, il manto terroso sul quale è cresciuto Jackson Martínez, il centravanti che avremmo voluto vedere in Italia—ci abbiamo davvero creduto—e che invece ha scelto di trasferirsi all’Atlético Madrid.

 

In questo documentario Jackson torna ai suoi luoghi di infanzia, dove ha fondato una scuola calcio e dove tutti impazziscono al solo incontrarlo.

 

Quella del Chocó è una regione poverissima, in cui è presente una forte minoranza nera, dimenticata dal Governo e lasciata in balia di sé stessa per anni, lacerata dal conflitto armato tra le forze paramilitari e le FARC. Ma non c’è spazio soltanto per le negatività: i chocoani hanno molto talento per lo sport, dal calcio al basket all’atletica.

 

A Quibdó non c’è un cinema, non c’è un centro commerciale, ma non c’è neppure una squadra professionistica: in realtà non c’è proprio una squadra, neanche nelle serie minori. A Chocó il calcio non è classista, non esclude, ma non è neppure competizione: in campo vanno ricchi e poveri insieme, a nessuno manca mai un piatto brodoso di chupe e il lunedì non è diverso dal sabato né dalla domenica: si gioca il calcio, si balla la rumba, tutti sono felici. «I più felici del paese», dice Oswaldo Moreno, giornalista e tecnico in squadre giovanili (tutti gli sportivi di Quibdó hanno un secondo mestiere: «Anche se oggi è diverso, i genitori vedono che si può vivere di solo calcio e spingono i figli a provarci»).

 

Nel documentario che la tv colombiana gli ha dedicato, a un certo punto, Jackson spiega che sono stati i genitori a mettergli la pulce nell’orecchio che magari sarebbe potuta essere una buona idea, quella di farsi strada nel calcio. Una specie di parabola buonista ma suonata al reverse, che per qualcuno avrà echi mefistofelici: nessun genitore preferisce un figlio calciatore a un figlio laureato.

 

Nascere nel Chocó

Nel cuore pieno del Chocó succedono fatti strambi eppure normalissimi, come battezzare un figlio con il nome del re del pop Michael Jackson con l’auspicio e l’intima speranza che un giorno possa arrivare a lambirne la stessa fama (complicato, in effetti, in uno studio dentistico): è un episodio degno di una saga familiare à la Cent’anni di solitudine. Il padre di Jackson, Orlando Martínez, aveva provato a sfondare già con il calcio a Bogotá: giocava con i Condor, lo pagavano poco e preferì tornare a casa, stare con la sua famiglia, anche se significava abbandonare sogni e pretese. Nella loro casa dalla facciata angusta, poche centinaia di metri dall’aeroporto El Caraño, Jackson si dedicava a migliorare la sua tecnica palleggiando con piccoli oggetti, dalle palle da tennis alle teste delle bambole delle sorelle.

 

Dev’essere palleggiando con la chioma di Barbie che Jackson ha sviluppato questa plasticità insana.

 

Il suo primo allenatore, Pedro Sarmiento, ha raccontato che quando lo metteva in campo, appena diciottenne, «insultavano lui e me: era troppo magro, flebile, non aveva forza fisica». Oggi che Jackson è alto quasi un metro e novanta, e ha l’imponenza fisica che rende la sua silhouette in maglia biancazzurra riconoscibile come un brand ben veicolato, ci sembra quasi assurdo che potesse essere lo zimbello, o come si dice in spagnolo l’hazmerreír, della sua squadra, l’Independiente de Medellin.

 

Come un fiore di magnolia sarebbe spuntato qualche stagione più tardi: nel 2008, con undici reti, e poi nel 2009, con la vittoria del campionato nazionale e la nomina a Giocatore dell’anno. Sono gli anni in cui si cristallizzano le sue potenzialità, le sue abilità, le sue fatalities: il gioco aereo, gli stop assurdi, la reattività.

 

La tracklist delle reti segnate con l’Independiente è un guazzabuglio di palombelle, tiri fortissimi, elevazioni in cui sembra lanciato al bungee jumping.

 

«Diventerà un grande calciatore perché ha umiltà e mentalità forti, e tutto questo perché è un uomo timoroso del potere di Dio», dice la madre.

 

Nella vita di Jackson ci sono molte zone calde di banalità: le sue interviste sono piene di timoroso rispetto, in cui si sublima la garra, l’essenzialità del gruppo, si susseguono i gracias a Díos. La sua educazione sentimentale al calcio è merito dei nonni materni: Salomón Valencia, che lo presentò a uno degli allenatori delle scuole calcio de La Paternal, e sua moglie Encarnación, che gli prestò i soldi per trasferirsi successivamente a Medellin, dove per via della timidezza lo soprannominarono el mudo.

 

Da “mudo” a idolo con un suo inno personalizzato, come quelli che accompagnano l’ingresso sul ring dei wrestler della WWE, ma con meno spettacolarità.

 

Secondo Oswaldo Moreno, a rendere davvero speciale ogni calciatore chocoano è il fatto che «nasce silvestre: ha una tecnica innata e per biotipo ha potenza, agilità, velocità. Per questo il Chocó è una vera riserva naturale per cacciatori di talenti».

 

In un’intervista alla rivista colombiana Bocas Jackson ha confessato che il suo sogno recondito, da bambino, era quello di diventare un giocatore di pallacanestro.

 

«La mia esperienza con la pallacanestro è stata frustrante. Non ho mai detto ai miei genitori che il mio desiderio più grande era quello di diventare un cestista, ma in cuor mio sapevo che era così. Ho smesso di pensare al basket come a una possibilità di crescita professionale per via della situazione economica della mia famiglia: è per questo che mi sono orientato verso il calcio, perché vedevo maggiori prospettive e opportunità. Però non ho mai smesso di giocare a pallacanestro».

 

Osservando alcune delle sue azioni con la maglia del Porto mi è venuto da pensare che la tendenza a eccellere nell’elevazione deve venire da quel retroterra, dai pomeriggi passati nei playground sciatti e brulli di Quibdó: ci sono immagini di un Jackson che riesce a saltare anche completamente da fermo, e in quei frangenti sembra proprio un centrale della NBA quando inscena uno slam dunk.

 

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Se volessi avventurarmi in un paragone più ardito direi quasi che quando gli ho visto segnare questo gol nell’anno della sua esplosione all’Independiente è stato come se le sue iniziali, JM, si capovolgessero come rifratte in uno specchio, diventassero MJ, e la maglia dell’Independiente trasfigurasse nella canottiera rossonera dei Chicago Bulls.

 

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Legionario

Nei paesi dell’America Latina c’è una forte tendenza a riferirsi ai calciatori che militano nei campionati esteri come a los legionarios: semanticamente non fa una grinza, perché di fatto—ovviamente accettando pacificamente la metafora bellica—si tratta di uomini che infoltiscono i ranghi di eserciti stranieri. Per sostrato mitico siamo portati però a sottintendere, tra le linee di quella parola, una connotazione negativa, maliziosa, di gente che lo fa essenzialmente per soldi, o per fuggire da qualcosa. Spesso quel qualcosa da cui si fugge è la povertà.

 

Jackson Martínez, dopo l’esplosione con l’Independiente, è stato contattato dai coreani dell’Ulsan, la squadra proprietà della Hyundai: forse non il meglio per un calciatore che punta alla crescita professionale, di certo un porto di approdo sicuro per chi mira a rimpinguare il conto. Eppure Jackson ha deciso, in ultima battuta, di rifiutare. Ufficialmente lo ha fatto per alcune postille che avrebbero sminuito il suo status di calciatore professionista. Qualche settimana più tardi ha firmato per i Jaguares de Chiapas, una squadra senza storia, nata appena sei anni prima. Le scelte professionali sono spesso molto eloquenti delle attitudini personali: sarebbe poetico ipotizzare che per Jackson trasferirsi in Messico, nella zona più disastrata e controversa del paese, militare in una squadra che perpetra il culto dell’identità regionale potesse significare dare continuità alla sua parabola personale. Piuttosto, però, l’impressione è che si sia trattato di accettare l’unica (o una delle poche) proposte concrete.

 

Con i Los de la Selva Jackson mette in mostra essenzialmente caparbietà e forza fisica, cioè le caratteristiche che gli hanno permesso di iscrivere il suo nome nel secondo posto dei migliori marcatori di sempre della squadra (subito dopo Salvador Cabañas) e di rimanere impresso nei cuori dei tifosi di Tuxtla Gutiérrez.

 

Vivere all’ombra di Radamel

L’ingrato destino dei figli delle generazioni d’oro è quello di avere più difficoltà del solito a emergere: a volte può risultare uno stimolo, a volte può tagliarti le gambe. A cavallo tra il 1985 e il 1986 in Colombia sono nati Carlos Bacca, Teo Gutiérrez, Jackson Martínez e Radamel Falcao García, quattro bocche da fuoco che avrebbero fatto, in prospettiva, le fortune del calcio colombiano degli anni Dieci.

 

Ma se i primi due hanno avuto carriere discretamente indipendenti, arrivato in Europa dalle porte belghe il primo, protagonista di una parentesi esotica a Trebisonda e poi definitivamente esploso al Monumental con la maglia del River il secondo, la mia idea è che Jackson Martínez si sia trovato, da un certo punto della carriera in poi, a vivere l’infame condanna di una reincarnazione continua negli avatar lasciati sgonfi e riposti in un angolo degli spogliatoi appena abbandonati da Radamel.

 

A Oporto Jackson va a vivere nella casa lasciata libera da Falcao, guida la BMW riconsegnata al club da Falcao dopo il trasferimento all’Atlético Madrid.

 

Eppure, paradossalmente, Jackson è finito per indossare i panni della primadonna molto più di Bacca, Teo e Falcao: il suo ruolo nel Porto è sempre stato quello del finalizzatore, non dell’assistman, dello spietato cannoniere. Per certi versi ci siamo visti costretti a una travisazione del suo potenziale tecnico e tattico; se anziché incentrare compilation di sette minuti sulle reti impallinate del Beira Mar o dell’Académica de Coimbra ci fosse qualcuno che si prendesse la briga di immortalare la maniera in cui ha creato spazi per gli inserimenti di Herrera, Tello o Óliver Torres, probabilmente avremmo una visione più completa ed esaustiva di Jackson Martínez.

 

La performance abbacinante contro il Bayern Monaco nella gara d’andata dei quarti di finale di Champions League ci dona un’immagine più nitida di Jackson. Non so se vi ricordate di come ha sradicato la palla dai piedi di Xabi Alonso: la capacità di mettere in difficoltà la difesa con la sola presenza proattiva è una sua caratteristica troppo sottovalutata. Poi è andata diversamente, ma gli resta pur sempre la soddisfazione di aver fatto sembrare Neuer un portiere “umano”.

 

Accettare di trasferirsi al Porto, per Jackson, è stato molto di più di un semplice approdare in Europa, perché ha coinvolto la volontà—e per certi versi necessità—di mettersi in competizione con un avversario diretto—per quanto le parole spese da Martínez nei confronti del suo capitano in Nazionale siano sempre state di elogio e rispetto—, con un connazionale e perciò quasi con un suo fratello. Vestire la maglia dei Dragões, per Jackson Martínez, ha significato lottare un’intestina guerra civile.

 

Uscire (per un attimo) dall’ombra

Jackson è stato il primo calciatore colombiano a segnare una doppietta in una Coppa del Mondo (subito raggiunto, qualche partita più tardi, da James, autore di un doblete contro l’Uruguay).

 

A quel punto della sua carriera sembrava che il rapporto con Falcao potesse subire un’orizzontalizzazione: Radamel miglior marcatore di sempre dei cafeteros, Jackson unico doppiettista. E poi, soprattutto, entrambi titolari, perché a differenza di quanto si possa pensare i loro stili di gioco non sono sovrapponibili, ma complementari.

 

Nella doppietta contro il Giappone di Zaccheroni c’è la summa di cosa significhi essere Jackson Martínez, e un succo concentrato di perché abbiamo imparato ad amarlo nelle performance col Porto, soprattutto in Europa.

 

Non riesco a capire se è più entusiasmante el tano Sanin o la finta che manda fuori giri il difensore giapponese prima del tiro a giro.

 

Al termine del meraviglioso (e sfortunato) cammino della Selección di Pekerman in Brasile, per Jackson sembrava prospettarsi il trasferimento in Premier League (a voler essere puntigliosi e malvagi, proprio come Falcao), all’Arsenal. Jackson si dimostrava entusiasta: «Giocano un gioco che mi si confa, se mi chiamassero direi Yes», Henry meno.

 

Alla fine è rimasto al Porto, dove si è reso protagonista di una cavalcata trionfale da un punto di vista personale (capocannoniere per il terzo anno consecutivo), ma senza riuscire a eguagliare i primati di Radamel, né in patria né in Europa.

 

Cosa ci stiamo perdendo? E cosa guadagna l’Atlético di Simeone?

È un peccato che non vada in scena nessun Jackshow italiano. Il Milan lo ha cercato in maniera estenuante, con la tenacia di un corteggiatore che alla lunga risulta stucchevole e spinge il corteggiato a scegliere di andare al Ballo di Primavera con qualcun altro.

 

L’esplosività, la capacità di dare profondità, la reattività insieme alla forza fisica avrebbe fatto di Jackson l’attaccante perfetto per ridisegnare la linea offensiva dei rossoneri: per Sinisa Mihaijlovic sarebbe stato un Okaka potenziato, ma con la credibilità e il lustro internazionale di Eto’o.

 

Scegliendosi vicendevolmente, Jackson Martínez e l’Atlético Madrid hanno scritto un testo assai più ampio e arioso di quello che finiremo per leggere quando cominceremo a sfogliare le pagine del romanzo della nuova Liga.

 

L’Atletico si è assicurato molto di più di un semplice sostituto di Mandzukic: direi piuttosto che ha acquistato un biglietto di sola andata sulla DeLorean™ che porterà i colchoneros indietro di due anni, quando al centro dell’attacco c’era Diego Costa e tutti, soprattutto i centrocampisti con il vizio dell’inserimento come Koke e Arda Turan, potevano godere degli spazi creati da una punta centrale di peso come era Diego. E come è Jackson.

 

Sarà interessante vedere come Griezmann e Vietto riusciranno a interagire con la prestanza di Jackson: è verosimile che la loro posizione in campo subisca uno sprimacciamento verso le fasce esterne.

 

Dalla sua, Jackson si è infilato nuovamente nel periglioso tunnel del paragone reiterato. Nel Chocó, terra brulla di paludi e di santería, lo sanno tutti che tagliare la testa di un gallo nelle notti di luna piena può riorganizzare le realtà dell’universo. E anche che certi pupazzi di legno, battezzati con nome d’uomo, possono impadronirsi del loro doppio vivente.

 

Tra gli uomini, a Chocó, esistono vincoli segreti. Deve dipendere da questo: difficilmente Jackson riuscirà a liberarsi dell’ombra di Radamel Falcao che incombe su ogni tappa, non esclusa quest’ultima, della sua carriera. C’è da chiedersi se ne abbia davvero voglia, dopotutto.

 
 

Tags : atletico madridhypejackson martinezmilanradamel falcao

Fabrizio Gabrielli scrive e traduce dei libri. Ha tradotto Lugones e collaborato con i blog di Finzioni, Edizioni Sur e Fútbologia occupandosi di Sudamerica, calcio e letteratura, anche in combine. Il suo ultimo libro si intitola "Sforbiciate. Storie di pallone ma anche no" (Piano B, 2012). È vice-direttore de l'Ultimo Uomo.

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