Qualche sera fa ho fatto le ore piccole per seguire in diretta su Facebook una partita che non aveva granché da dire – in ballo c’era solo la gloria effimera che regalano le amichevoli preseason – ma che in qualche senso mi sembrava importante: i Seattle Sounders hanno affrontato la nuova franchigia dell’Atlanta United in quella che è stata, almeno ai miei occhi, una specie di cerimonia di passaggio dell’hype. Atlanta sbarcherà nella nuova stagione di MLS alle porte, mentre quella dei Seattle Sounders è la franchigia che è stata capace di vincere, con grande stile, la stagione conclusasi tre mesi fa ai rigori contro Toronto.
Mentre le due squadre si sfidavano l’impressione era che lo spirito calcistico yankee stesse già trasmigrando dai boschi della Cascadia ai quartieri in red-brick di Marietta; dalle piste ciclabili, dai bar hipster, dai gruppi grunge e indie e dalle lame delle seghe dei taglialegna, a una parata di lowrider su soundtrack dei Migos.
Ovviamente ha vinto Atlanta.
Gli abitanti del dirty south chiamano la capitale della Georgia “Il Purgatorio”, perché, dicono, non importa dove sei diretto o da dove vieni: dovrai per forza passare per Atlanta.
Negli ultimi anni “la New York del Sud” è davvero diventata la città caravanserraglio di tutta una serie di direttrici cool che rendono l’affettuoso nickname di Hot’lanta assolutamente calzante: è il centro gravitazionale della new school hip hop e della trap, nonché il luogo – anche dell’anima – in cui è ambientata una delle serie tv più interessanti degli ultimi tempi (che prende il nome della città, ed è scritta e diretta e recitata da quel talento poliforme conosciuto col nome di Childish Gambino).
Atlanta è l’epicentro della sperimentazione, il ponte di collegamento tra l’esclusività dei movimenti underground più duri e l’aura dorata e innocua del pop anni ‘10. E non c’è ragione di credere che non possa diventare centrale anche per il movimento calcistico statunitense.
Uno degli aspetti più affascinanti del calcio americano (affascinante in un modo del tutto opposto a come possono essere affascinanti la Tradizione e la Storia, ma non per questo in conflitto con queste) è poter assistere, come se noi fossimo degli alieni in procinto di studiare l’umanità, all’innesto di una squadra di calcio professionistica in una città piuttosto popolosa praticamente dal nulla. Tutto quello che nel calcio europeo è sepolto sotto anni di epica sportiva, e in parte sta venendo eroso dal capitalismo, tutti i dettagli, le storie e le decisioni assolutamente arbitrarie che fanno una squadra; in quello americano sono in divenire, stanno succedendo sotto i nostri occhi.
Per questo, anche se non avete ancora deciso se seguire o meno la prossima MLS, se credere o meno nell’eterna esplosione del soccer, in ogni caso dovreste seguire l’Atlanta United. Io personalmente ho deciso che non mi perderò neppure una loro partita, almeno per cinque motivi.
- Perché c’è El Tata
Immaginate di dover edificare una cattedrale ex novo: la prima pietra deve essere veramente angolare. Ad Atlanta hanno deciso che il primo mattone dovesse avere il profilo rassicurante di Gerardo “El Tata” Martino, annunciato come primo head coach nella storia della franchigia quando la squadra non poteva ancora neppure contare su una vera e propria rosa di giocatori.
Martino promette di rappresentare per il parco allenatori della MLS quello che Giovinco è stato per i calciatori della lega due anni fa: una palla demolitrice che cambia i connotati della lega.
Il rosarino è nel pieno della sua carriera, è reduce da due esperienze di primo livello alla guida del Barcellona e della nazionale Argentina e, se siamo d’accordo che l’allenatore può essere considerato l’emanazione diretta dello spirito identitario di una squadra, il suo ingaggio va interpretato come una dimostrazione eloquente di ambizione.
La parentesi con l’Albiceleste, però, si è conclusa in modo terrificante, con la seconda sconfitta in altrettante finali di Copa América (peraltro proprio sul territorio americano) e forse per questo “El Tata” ha deciso di ripartire dal dirty south, di prendere in mano, cioè, una squadra da plasmare a suo piacimento. Relazionandosi al contesto, e facendo un esempio dalla musica che esprime Atlanta, il compito di Martino sarà quello di infondere alla sua squadra le atmosfere bass-heavy di 21savage e la personalità di André 3000.
Peccato per la mise, poteva osare un po’ di più.
Ribaltando la questione, però, non dovremmo chiederci cosa Martino possa dare alla MLS, ma cosa la MLS può fare per Martino.
Tanto per cominciare: offrirgli un’occasione di rilancio. Più che come buen retiro bucolico, lontano dalle pressioni, Martino sembra aver scelto di ripartire dalla provincia, ammesso che Atlanta possa essere considerata tale, alla ricerca di stimoli creativi: quel che si aspettano da lui, in Georgia, è qualcosa che somigli più alla máquina del Newell’s Old Boys o alla brillantezza del Paraguay che alla formalità ingessata dei periodi culé o albiceleste.
Se Martino ha scelto la MLS l’ha fatto con la consapevolezza di poter sperimentare, e di avere l’opportunità di forgiare una squadra puntando su giovani talenti tecnicamente scintillanti ma tatticamente grezzi.
La maniera in cui la franchigia calcistica di Atlanta è sorta – partendo dall’allenatore, anziché da un acquisto roboante – costituisce un unicum anche all’interno di un quadro prepotentemente votato all’innovazione come la MLS, ed è il secondo motivo per cui mi sono invaghito dell’Atlanta United.
- Perché in meno di due anni hanno saputo costruire un’identità.
Atlanta è la più grande area metropolitana del Sud degli States: con oltre cinque milioni di abitanti è (o dovrei dire era) anche il più grande conglomerato urbano senza una qualche radicazione calcistica seria (no, i Silverbacks non possono essere considerati seri).
L’Atlanta United, insieme al Minnesota FC, è una delle franchigie che faranno il loro esordio in MLS nel 2017: il club è stato fondato nel 2014 e costruito praticamente da zero in una maniera innovativa rispetto agli standard cui è abituato il calcio yankee.
Per ogni duro e puro pronto a sostenere che la street cred non si può comprare su eBay c’è sempre un Arthur Blank disposto a smentirti.
Blank è il patron degli Atlanta Falcons, la squadra di football che ha acquistato nel 2002 portandola, quindici anni dopo, a giocarsi un Superbowl drammatico e per certi versi storico (nello stacco tra queste due foto, una in cui esulta e l’altra in cui è basito, si può individuare l’esatto momento in cui il suo cuore si è frantumato). Blank è anche il CEO e cofondatore di Home Depot., il più grande grossista di materiale da costruzione americano, insomma è uno che ha fondato la propria vita sulle costruzioni, anche in ambito sportivo, ed è la perfetta incarnazione di quei rise and fall che pure quando sono fall finiscono per apparire come l’inizio di un nuovo rise.
Blank sa che l’immagine profonda di un club va oltre il suo brand: è quella che ti viene in mente quando senti dire le parole “Atlanta United”. Il suo compito, partendo da zero, è stato ovviamente più arduo, ma anche profondamente libertario: dopotutto, come diceva Roland Barthes, il vergine è l’infinitamente possibile. Il fatto che Atlanta, e più in generale il Sud, non potesse disporre di un retaggio calcistico rilevante dopotutto è stato, più che un ostacolo, un’opportunità.
Blank è partito dal pragmatismo del mattone: ha intavolato il progetto di uno stadio da sessanta milioni di dollari, il Mercedes-Benz Stadium, da destinare sia ai Falcons che allo United, perché dopotutto uno stadio da football americano lo riempi quante volte in una stagione, dodici?, mentre una regular season di MLS ha almeno 21 appuntamenti, più chiaramente l’ambizione di andarti a giocare almeno altre tre o quattro gare dei playoff.
Questo non significa che non abbia capito che il calcio è soprattutto magia, anzi. Ha messo sotto contratto un tecnico più iconico che carismatico, si è fatto guidare nella scelta di giocatori – ci arrivo – altrettanto simbolici e ha lanciato la sfida con l’inconsapevolezza di chi, da perfetto nuovo arrivato, può sentirsi libero dai vincoli delle esperienze pregresse.
Scrivere la storia dell’Atlanta United, per Blank, non è stato riscrivere la storia di nessun altro.
La decisione di non assegnare a nessun giocatore la maglia numero 17, ma di destinarla a un generico e iperecumenico Atlanta, è stata il colpo di teatro più vistoso di questa narrativa della magia.
Come dicono i Migos, “Mama told me not to sell work, Seventeen five, same color t-shirt”.
Forse imitando una dinamica culturale da calcio europeo – o forse con semplice fiuto commerciale – il numero che ricorda la prima stagione di Atlanta in MLS non finirà perciò sulle spalle di nessuno, neppure del venezuelano Josef Martínez, che pure lo indossa da sempre in Nazionale – lo faceva anche a Torino – e che se l’è pure tatuato sul collo. «Sarà pure il mio numero preferito, ma ci rinuncio se è per la gente di Atlanta», ha detto un po’ sorpreso subito dopo il cerimonioso annuncio.
Se l’obiettivo era creare un senso di appartenenza, ecco: direi che Blank sembra esserci riuscito.
Alle porte della gara inaugurale, lo United ha già 30mila abbonati, e per la sfida al New York City FC sono stati venduti più di 45mila biglietti.
- Perché ha inaugurato un nuovo modello, non necessariamente malvagio
Atlanta non è la prima franchigia estremamente ambiziosa a presentarsi in MLS con l’arroganza del newcomer. Per certi versi il suo processo fondativo somiglia a quello dei New York City Football Club, seppure con un elemento di rottura tutt’altro che trascurabile: se da una parte il NYCFC poteva contare su un know-how conclamato, quello del City Football Club, su una rete di scouting e un modello di business radicato, dall’altra Atlanta è davvero partita dal nulla.
Blank ha consegnato le chiavi del progetto nelle mani di Darren Eales, già direttore sportivo del Tottenham, che ha scelto di farsi affiancare da Carlos Bocanegra, ex difensore con un passato importante in MLS e di medio livello in Europa, e da Paul McDonough. McDonough è stato l’architetto dietro le strategie di costruzione del roster dell’Orlando City, ed ha apportato la sua expertise relativa alle dinamiche di mercato, tesseramenti e scelte ai draft.
L’aspetto davvero interessante dell’assemblamento della rosa di Atlanta è stato tanto il come quanto i chi. Un ruolo fondamentale l’ha ricoperto Lucy Rushton. Laureata in Sports Leadership alla Reading University, Rushton è stata per due stagioni a capo del dipartimento di video-analisi tecnica del Reading FC: si occupava di analizzare statisticamente potenziali target di mercato e delle analisi prepartita e postpartita da sottoporre ai giocatori del Reading.
Non si trattava di valutare l’adattabilità di un giocatore a un modulo, a uno schema, a un’idea di calcio, ma quasi di individuare gli interpreti più adatti a una sceneggiatura già confezionata.
«Avremo uno stile di gioco, un’idea di come dovrà giocare il nostro laterale destro o di come dovrà muoversi il nostro centrocampo», ha detto Eales in un’intervista di poco successiva alla nomina di Martino. In quel momento l’Atlanta United aveva sei giocatori soltanto. «Daremo perciò questi dati al nostro reparto di scouting tecnico che cercherà di identificare i giocatori che posseggono tutte le condizioni che stiamo cercando».