«Per alcuni il Mondiale sarà una festa del calcio. Per altri sarà un festival della violenza».
Si concludeva con queste parole minacciose, pronunciate da un hooligan russo a volto coperto con oltre un anno d’anticipo rispetto all’inizio della manifestazione, il documentario della BBC incentrato sulla Russia e sulle ragioni della violenza dei suoi tifosi. E invece la 21° edizione della Coppa del Mondo – forse quella con le più alte preoccupazioni riguardanti l’ordine pubblico – è filata liscia senza grossi incidenti né particolari arresti, fatta eccezione per alcuni sporadici episodi di vandalismo o piccole risse tra tifoserie.
Il timore che alla vigilia potesse capitare qualcosa di spiacevole era la conseguenza di quanto avvenuto agli ultimi Europei, quando un centinaio di russi, nonostante fossero in netta minoranza, si erano scontrati a Marsiglia con alcuni inglesi, facendone finire due in coma (uno dei quali rimasto persino parzialmente paralizzato). Gli eventi di quei giorni avevano portato alla ribalta il fenomeno dell’hooliganismo russo, punta dell’iceberg della violenza legata al tifo nell’Europa dell’Est e nei Balcani. Ad ispirarlo, paradossalmente, erano stati proprio i disordini provocati dai tifosi inglesi, in patria e all’estero, tra gli anni Settanta e Ottanta.
La storia
L’hooliganismo russo è un fenomeno relativamente recente, che appartiene principalmente alla generazione emersa dopo la caduta dell’Unione Sovietica nel 1991. L’apertura verso Ovest avvenuta dopo la fine del comunismo portò in Russia tendenze prima quasi sconosciute, associate al cibo, alla moda e alla musica, ma anche – per quanto riguarda il calcio – alla subcultura legata ai gruppi hooligan molto diffusi in Gran Bretagna.
In un’epoca in cui per muoversi era necessario un permesso speciale – che di conseguenza impediva ai tifosi di partecipare alle trasferte – era stata una spedizione clandestina di un manipolo di sostenitori dello Spartak Mosca a porre le basi della cultura curvaiola nell’Unione Sovietica. Era il giugno 1977, e le fondamenta di quel movimento di ribellione si sarebbero trasformate nel decennio seguente in un’autentica rivoluzione dei costumi. Di lì a poco l’Unione Sovietica entrò in crisi: in cerca di una nuova identità, stufi di divieti e restrizioni, molti si rivolsero all’Occidente come modello di riferimento con sempre maggiore interesse, anche dentro gli stadi.
Foto Epsilon / Stringer
Libri come Everywhere We Go di Dougie e Eddie Brimson, oppure i film Green Street e The Football Factory divennero gli strumenti per forgiare una nuova tipologia di tifoso, cresciuta idolatrando le malefatte degli inglesi e spinta dal desiderio di emularle. I russi ne copiarono la terminologia per definire i propri gruppi (firm), i comportamenti, l’abbigliamento casual (fatto di marchi Fred Perry e Stone Island) e la massiccia presenza al seguito della Nazionale. Trasformazioni così repentine colsero impreparata anche la polizia, tanto che negli anni Novanta vivere l’esperienza dello stadio in Russia era quasi sempre sinonimo di incidenti.
La prima, concreta mossa delle autorità arrivò nel 2007 con l’istituzione dell’All-Russian Fans Association (Arfa), un ente gestito dal governo con lo scopo tenere gli hooligan sotto controllo, poi sciolto nel 2016 in seguito agli scontri di Marsiglia. Il suo capo, Alexander Shprygin, è stato accusato di aver viaggiato sul volo charter della federazione insieme a 220 tifosi, molti dei quali rimasti coinvolti nei disordini e appartenenti alle frange più estreme di Zenit, Lokomotiv, Dynamo e Spartak.
Il collegamento con la politica
Shprygin, vicino al Partito Liberal-Democratico di estrema destra, un passato da leader della curva della Dynamo e amico di Vladimir Putin, è stato arrestato con altre 42 persone a bordo di un pullman durante gli ultimi Europei e allontanato dal Paese. La vicenda ha portato persino ad uno scontro diplomatico tra Francia e Russia: il Ministro degli Esteri Sergei Lavrov ha convocato d’urgenza l’ambasciatore francese Jean-Maurice Ripert a Mosca, definendo l’espulsione un atto «assolutamente inaccettabile», aggiungendo che «continuare ad alimentare sentimenti anti-russi potrebbe portare a un significativo aggravamento nelle relazioni tra i due Paesi».
Non è un mistero che il fenomeno dell’hooliganismo in Russia abbia radici molto profonde nel mondo politico locale. Oltre alla risposta di Lavrov, c’è da segnalare anche l’iniziativa del vicepresidente della Duma e membro della Federcalcio Igor Lebedev, che in quel periodo è arrivato a difendere i tifosi russi coinvolti e a congratularsi con loro per i disordini di Marsiglia. Nemmeno un anno dopo lo stesso Lebedev si è spinto oltre, proponendo di legalizzare le risse tra hooligan e renderle uno sport.
Le frange più estreme delle curve russe sono diventate nel tempo uno strumento di potere e un importante bacino di consenso per Putin e per le sue idee conservatrici e nazionaliste. Si tratta di una consuetudine la cui origine risale all’inizio dei primi anni Novanta, quando esponenti dell’estrema destra cominciarono a vedere nelle bande di teppisti emarginati il prototipo ideale di persone cui strappare voti in cambio di trasporti gratuiti per le trasferte, contratti da guardie del corpo o persino ruoli occasionali all’interno dei propri partiti.
Gran parte delle firm di hooligan sono legate a doppio filo con ideologie di estrema destra, spesso sfruttate dal Cremlino per incoraggiare le infiltrazioni dei tifosi nei consorzi politici. Uno di questi è Nashi, l’organizzazione di massa aperta a ragazzi dai 17 ai 25 anni in appoggio al partito Russia Unita, nata nel 2005 e riempita di esponenti dei GallantSteeds del CSKA Mosca e dei Gladiators dello Spartak Mosca.
Foto Epsilon / Stringer
Gruppi di sostegno al presidente analoghi a Nashi (tra cui, per esempio, Giovane Guardia, la sezione giovanile di Russia Unita) hanno incarnato il punto di contatto tra tifo e politica. A volte queste organizzazioni sono state addirittura utilizzate dalla Russia in contesti bellici non convenzionali. Durante la guerra in Ucraina, ad esempio, diversi hooligan sono andati al fronte come volontari a sostegno dei filo-russi del Donbass.
In altri casi, invece, le tifoserie sono diventate il braccio armato delle autorità per reprimere il dissenso, come capitato nel marzo 2006 durante le manifestazioni anti-governative che coinvolsero oltre 350 città del Paese, durante le quali ci furono diversi scontri in piazza proprio con gli esponenti di questi gruppi.
La commistione tra hooligan e Cremlino ha vissuto un momento di crisi nel 2010, quando 6mila nazionalisti invasero la Piazza Rossa di Mosca in seguito alla morte di Egor Sviridov, tifoso dello Spartak ucciso durante una rissa da una gang originaria del Caucaso settentrionale. I manifestanti si lamentavano soprattutto del fallimento delle politiche migratorie e di integrazione, secondo loro causa dell’omicidio, con una rabbia tale da spingere il capo della polizia a negoziare con i rappresentanti delle curve per placare la situazione.
L’esito della trattativa suggellò ulteriormente i legami tra Cremlino, nazionalismo e calcio, con tanto di successivo omaggio di Putin alla tomba di Sviridov e la promessa di punire più pesantemente i crimini commessi da cittadini non di origine russa.
I problemi strutturali del calcio russo
La connivenza delle istituzioni rientra comunque in un quadro più ampio, dovuto alle condizioni strutturali e alle difficoltà del calcio russo, dove negli ultimi quindici anni la media spettatori non ha praticamente mai superato le 13mila unità.
Con la nascita della Russian Premier League nel 2001, i club hanno basato le loro entrate quasi solo sui ricavi televisivi, rinunciando ad investire negli stadi e scoraggiando la presenza di una larga fetta di pubblico. Gli impianti sono stati quindi monopolizzati dai gruppi organizzati, soprattutto quelli più volenti, portando le autorità ad assumere un comportamento repressivo in modo da soffocare sul nascere qualsiasi incidente.
In questo scenario non bisogna nemmeno dimenticare l’influenza culturale del regime putiniano sulla società, e soprattutto del suo impegno per promuovere un’immagine machista e nazionalista della Russia. Putin, più volte fotografato in mansioni considerate virili (come la caccia alla tigre), in questo senso è l’incarnazione del patriottismo, della salute e della forza fisica, che spesso sono l’aspetto più esteriore dell’ideologia che permea questi gruppi. Gli hooligan russi nutrono anche una certa attrazione per tutte quelle immagini che trasmettono un senso di potere e glorificazione dei fasti vissuti dal proprio Paese. Durante l’ultimo Europeo, per esempio, al Vélodrome campeggiava una bandiera con l’effige della Russia imperiale.
Il soft power promosso dal Cremlino, secondo cui la nazione debba fare affidamento soltanto sulla sua forza per scongiurare la dissoluzione in un’Europa che le sembra avversa, ha persuaso parte della popolazione della sostanziale bonarietà dell’hooliganismo, equiparandolo in modo semplicistico a un’espressione un po’ primitiva della mascolinità disinibita. Questa concezione ha spinto molti cittadini a ritenere faziosa la copertura degli incidenti di Marsiglia, diffondendo l’impressione che i media occidentali abbiano distorto ed esagerato la realtà a causa dei loro pregiudizi anti-russi. Diverse fonti di informazione hanno addirittura minimizzato le responsabilità degli hooligan, pubblicando foto di tifosi inglesi dall’atteggiamento aggressivo che avrebbero provocato i russi per poi «ritirarsi codardamente dal campo di battaglia». Gli stessi hooligan protagonisti dei fatti di Euro2016 sono arrivati a considerarsi soldati al servizio del Cremlino, descritti dal professore Sergei Medvedev della Higher School of Economics di Mosca «una copia della politica estera della Russia». Inoltre, alla domanda del reporter nel documentario della BBC su chi fossero i tifosi implicati negli scontri di Marsiglia, Vasily Stepanov, ex leader della curva della Dynamo, aveva risposto dicendo che si trattava di «forze militari speciali di hooligan mandate da Putin per conquistare l’Europa», come a voler rimarcare una volta di più il legame tra calcio e politica nel Paese.
Alcuni membri delle frange più violente del tifo organizzato hanno trapiantato nelle firm le tecniche apprese nell’esercito (in Russia permane la leva obbligatoria), creando falangi paramilitari solitamente di poche decine di membri. Generalmente giovani, tra i 20 e i 30 anni, si allenano nelle palestre, praticano le arti marziali e si scontrano esclusivamente a mani nude, organizzando risse nei boschi in cui a vincere è la fazione che tiene in piedi il maggior numero di combattenti.
Foto di Mladen Antonov / Getty Images
Rispetto ai disordini che avvenivano all’interno degli stadi fino alla fine degli anni Novanta, adesso la nuova generazione di hooligan preferisce scontrarsi in luoghi isolati, lontano dalle forze dell’ordine e dalle telecamere, per scongiurare il rischio di possibili arresti. Come ci ha spiegato Sébastien Louis, esperto di tifo radicale e autore del libro Ultras: les autres protagonistes du football, «si tratta di un’usanza inventata dai polacchi, poi diffusasi nell’Est Europa e utilizzata dai russi per sfuggire alla repressione della polizia e non coinvolgere gente estranea al loro modo di vivere lo stadio». Sono stati proprio i polacchi ad influenzare i riti e i comportamenti dei russi: «Hanno lanciato la moda della forma fisica, professionalizzando il modo di essere hooligan: hanno detto basta alla gente ubriaca e drogata in favore di persone sportive e allenate, contaminando in questo modo la sfera hooligan dell’Est Europa».
Le risse non servono solo a stabilire la superiorità di una fazione su un’altra, ma fungono anche da mezzo di reclutamento per le nuove leve. Capita infatti che a scontrarsi siano aspiranti hooligan, giudicati dai capi delle firm in qualità di arbitri che ne valutano un eventuale inserimento nel gruppo.
Marsiglia come sineddoche
Il modus operandi degli hooligan si è esplicato in tutta la sua brutalità negli scontri di Marsiglia. Pur disponendo di circa 150 uomini – descritti dal procuratore di Marsiglia come «ben addestrati» – i russi hanno sbaragliato la resistenza dei circa 2mila inglesi intenti a riempirsi di birra nei pub intorno al Porto Vecchio. Li hanno accerchiati e picchiati fino allo svenimento, venendo anche meno a quel codice di comportamento generalmente accettato nel mondo ultras che raccomanda di non infierire su una persona a terra. Gli hooligan russi, in quei giorni e durante una manifestazione particolarmente mediatica, volevano probabilmente fare quanto più male possibile agli inglesi, rubarne le bandiere e vantarsi su internet per aver superato quegli stessi maestri dai quali avevano appreso i rudimenti della guerriglia da stadio.
È una questione di prestigio e vanità, così ricercati da aver spinto un hooligan a filmarsi con la GoPro durante gli scontri, come a voler lasciare una concreta testimonianza di quanto compiuto da lui e i suoi compagni. Questa spettacolarizzazione rappresenta soltanto l’ultima frontiera del tifo violento russo, in controtendenza con l’ambiente ultras occidentale solitamente restio ad usufruire della tecnologia, ritenuta incompatibile con i valori di una “mentalità” non incline all’appariscenza e alla superficialità.
Foto di Jean Christophe Magnenet / Stringer
Ed è proprio su internet che erano arrivate minacce di morte rivolte ai tifosi inglesi intenzionati a seguire la propria Nazionale in Russia. Sul social network VKontakte erano apparsi inviti a «scatenare l’inferno», uniti alle immagini che ritraevano alcuni hooligan mentre si allenavano nei boschi. Sempre in rete si era vociferato di un’alleanza tra russi e argentini contro gli inglesi, che a loro volta avrebbero fatto sapere di essere pronti a unire le proprie forze per scatenare «la terza guerra mondiale».
Nulla di tutto questo si è tuttavia concretizzato.
In primis per il severo giro di vite voluto da Putin mediante l’approvazione, nell’aprile 2017, di un disegno di legge inerente le sanzioni per i tifosi responsabili di cattivi comportamenti durante gli eventi sportivi. La normativa comporta multe da 357 a 890 euro, sostituibili con la detenzione in carcere da dieci a quindici giorni. In caso di «gravi violazioni» – ovvero tutte quelle azioni che «rappresentano una minaccia per la sicurezza e la vita e provocano un danno alla salute dei presenti, così come quelle che portano alla sospensione della gara» – le pene possono anche portare alla squalifica dal calcio da uno a sette anni.
Il piano delle autorità prevedeva anche tolleranza zero per chiunque fosse stato sorpreso a rivendere biglietti e una notevole attenzione per il consumo di alcool, consentito purché non andasse a disturbare l’ordine pubblico.
A testimonianza dell’inasprimento delle pene anti hooligan, c’era la blacklist online che il Ministero degli affari interni russo pubblica e aggiorna regolarmente, contenente i nomi dei tifosi banditi dagli stadi a partire dal luglio 2016. Attualmente sono oltre 450, la maggior parte dei quali sotto i 35 anni, anche se pare che esista un database ancora più vasto con i profili di un migliaio di persone tenute sotto stretto controllo dai servizi segreti. Per paura di essere scoperti, e quindi interdetti dagli impianti o addirittura incarcerati, diversi hooligan avrebbero deciso di mantenere un basso profilo.
Discorso simile per oltre 1000 inglesi, già destinatari di banning order, ai quali era stato ordinato di consegnare alle autorità i loro passaporti per scongiurare una possibile apparizione in Russia.
Nonostante il clima intorno al Mondiale sembrasse incandescente, il revival di Marsiglia non si è verificato. Ospitare per la prima volta la più importante manifestazione calcistica al mondo era una grossa occasione per dare una buona immagine del Paese agli occhi dell’Occidente, oltre a rappresentare un importante strumento geopolitico. A pochi giorni dall’inizio del Mondiale, Marc Bennets, giornalista inglese residente a Mosca, esperto di politica russa e firma di Politico e del Guardian, ci aveva raccontato che «è improbabile che ci saranno episodi di hooliganismo perché i servizi di sicurezza russi sono parecchio tosti. Alcuni politici erano contenti di vedere disordini provocati dai loro connazionali in Francia, ma non vogliono che le stesse scene si ripetano a Mosca e nelle altre città».
Sul piano organizzativo Putin può ritenersi il vincitore di questo Mondiale, costato intorno ai 12 miliardi di euro e gestito in maniera impeccabile come forse era mai successo prima d’ora: nessun «festival della violenza» come promesso dagli hooligan, né particolari problemi di ordine pubblico nonostante i 700mila tifosi stranieri giunti in Russia.
Consapevole dell’influenza dei gruppi organizzati – sia come grande bacino di potere che come bomba sociale pronta a deflagrare – il Cremlino ha salvato la faccia con misure ad hoc che non ne hanno pregiudicato la sua immagine internazionale e il prestigio che ne deriva.