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Foto di Odd Andersen/Getty Images
Calcio Fabrizio Gabrielli e Flavio Fusi 27 gennaio 2016 10'

Sogna Berlino Sogna

L’Hertha Berlino è terzo in Bundesliga eppure continua a portarsi dietro l’aura di squadra noiosa, senza fascino e senza tifosi.

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Chi tifa l’Hertha?

Di Fabrizio Gabrielli

Le dinamiche di determinazione identitaria, in molti contesti tra i quali quello calcistico, si basano spesso sulla dicotomia inclusione vs esclusione: a gruppi religiosi, politici, linguistici, a classi sociali. A Berlino più che altrove, nel corso della sua travagliata storia recente, il livello di frammentazione è stato ulteriore e più incisivo: chi e cosa poteva e può dirsi davvero berlinese?

 

Possiamo elevare il calcio a speculum interpretativo per una città a lungo divisa in due parti, Est ed Ovest, da un muro? Qual è il vero senso di Berlino per il calcio? E quando parliamo di Berlino, a quale Berlino pensiamo?

 

Mi sto facendo queste domande da quando ho visto salire, del tutto intenzionato a rimanerci, l’Hertha BSC nei primissimi posti della Bundesliga. Il primo interrogativo che ho sentito sorgere dentro di me è stato: ma chi lo tifa, l’Hertha Berlino?

 

Non è ricoperto del fascino di cui si ammantano il Borussia Dortmund, il Bayern o il Bayer Leverkusen: non ha la storia gloriosa dell’Amburgo, e solo due stagioni fa militava in 2. Bundesliga.

 

Gioca nell’Olympiastadion, cattedrale Art Déco per la quale non riesco a fondere, facendo sì che l’uno sappia dissipare l’altro, i sentimenti contrastanti che suscitano nel mio immaginario lo stadio nel quale l’Italia ha vinto la sua ultima Coppa del Mondo, da una parte; il palcoscenico artato del più inquietante lungometraggio di propaganda nazista, Olympia, dall’altra.

 

Il profilo dello Stadio Olimpico è sostanzialmente rimasto immutato, dal 1936 ad oggi (dal minuto 3.35 in poi).

 

A un livello più ingenuo (ma chissà che dopotutto non sia anche più profondo) il grosso interrogativo che mi sto ponendo ha a che fare con la riconducibilità dell’Hertha al concetto stesso di berlinicità.

 

Come ogni conoscitore medio di contesti calcistici sa, Berlino Est, la capitale della DDR, è stato il palcoscenico sul quale in nuce, negli anni postbellici, è andata in scena la contrapposizione tra il regime comunista filosovietico (la Dynamo era controllata direttamente dalla Stasi, che ne ha influenzato ascesa e declino) e l’opposizione a quello stesso regime (l’Union Berlin era il club libero da ingerenze di esercito, polizia, Stato). Il Friedrich-Ludwig-Jahn-Sportpark era il tempio della celebrazione della Germania Comunista; lo Stadion an der alten Försterei l’arena in cui la massa critica si radunava, e dove, al calcio d’inizio, i tifosi intonavano «Die Mauer muss weg!»: il muro deve crollare.

 

Un derby di DDR-Oberliga: la Dynamo, all’apice della sua parabola, strapazza i cugini meno allineati dell’Union con un annichilente 8-1.

 

Dopo la riunificazione nessuna delle due squadre avrebbe più saputo vivere i fasti di un tempo: sposare le leggi del mercato e del capitalismo era impossibile per i cittadini ex-DDR, per forma mentis e anche per mancanza della capacità d’adattamento a una filosofia fin lì considerata non solo estranea, ma antitetica.

Con l’Occidente, invece, e con le leggi del mercato, l’Hertha ha dovuto giocoforza convivere da sempre, toccandone con mano i vantaggi e le pericolosità.

 

La situazione peculiare che Berlino Ovest ha vissuto a cavallo tra la fine della Seconda Guerra Mondiale e la riunificazione delle Germanie ha finito per influenzare inevitabilmente la storia calcistica del suo club più rappresentativo (ammesso e non concesso che l’Hertha possa rappresentare qualcosa o qualcuno), quella di chi ci giocava e anche quella di chi per quel club ha fatto e continua a fare il tifo.

 

L’Hertha è stato fondato nel 1892 da due diciassettenni: la prima sede si trovava in una strada all’esatta intersezione tra i quartieri di Wedding e Prenzlauer Berg, cioè in corrispondenza del punto in cui, nel ’61, il Muro avrebbe diviso Berlino Ovest da Berlino Est. Per due anni consecutivi, nel 1930 e 1931, ha vinto il campionato regionale, la Oberliga Berlin-Brandenburg, prima che il Terzo Reich riorganizzasse la conformazione delle leghe calcistiche: nella Gauliga di afferenza l’Hertha è finito per essere il club più vittorioso, laureandosi campione per tre volte.

 

A guerra terminata, per quarant’anni Berlino Ovest è stata un’isola, exclave della Repubblica Federale a 400 km di distanza dai confini: all’Hertha è stato fatto divieto di affrontare club della DDR, così come a calciatori cittadini DDR era vietato firmare per l’Hertha. Come può crescere, una squadra, in un contesto del genere? Chi sceglierebbe di trasferirsi là?

 

Forse è per via di questa serie di limitazioni che negli anni ’60 i biancoblu sono arrivati a corrompere calciatori affinché scegliessero di vestire la loro maglia: una dinamica vietata dai regolamenti del tempo, che imponevano salary cap rigidissimi. Eppure dettata da quella che sembra la disperazione di chi vuole a tutti i costi affermarsi attraverso le vittorie. O almeno poter contare su una rosa di calciatori seria.

 

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Hertha BSC, Anni ’60. L’erbetta sulle gradinate, l’atmosfera d’abbandono negli occhi dei calciatori prima che sugli spalti.

 

La fortuna aiuta gli audaci

di Flavio Fusi

Anche la storia recente dell’Hertha non brilla, sia per difficoltà tecniche che finanziarie. L’ultima Bundesliga è stata a dir poco negativa per l’Hertha Berlino che ha scacciato lo spettro della retrocessione grazie ad un solo misero punto, dopo aver perso quattro delle ultime cinque partite del girone di ritorno. Un finale disastroso di un campionato in cui i bianco-blu sono stati battuti per ben 17 volte,  lo stesso numero di sconfitte che ha costretto l’Amburgo a giocarsi la permanenza in Bundesliga ai supplementari del playout col Karlsruhe e che ha visto retrocedere il Paderborn in 2.Bundesliga.

 

Dopo una quasi miracolosa salvezza, non c’erano grandi aspettative sulla stagione dell’Hertha, che a detta di molti avrebbe dovuto nuovamente sudarsi la permanenza in Bundesliga.

 

In ogni caso, la stagione del club berlinese è cominciata in luglio con una buona notizia: il direttore finanziario del club, Ingo Schiller, ha potuto finalmente comunicare, anche grazie al contributo del colosso del private equity KKR, che l’anno scorso ha rilevato il 9,7% delle quote dell’Hertha, l’estinzione definitiva delle decine e decine di milioni di euro di debiti che oberavano la società ormai da tempo immemore. Una novità sicuramente confortante, ma che ha determinato ripercussioni sulle risorse destinate al calciomercato, in notevolissima parte finanziato coi 4 milioni di euro incassati grazie alla cessione al Borussia Mönchengladbach del giovane terzino sinistro Nico Schulz. Di conseguenza, il mercato non ha cambiato volto alla squadra, pur portando comunque in rosa  tre elementi rivelatisi importanti: il centrocampista ceco Vladimir Darida, pagato 3,8 milioni al Friburgo, l’esterno ex Bayern Weiser e Vedav Ibisevic, la prima punta che mancava.

 

Così come gran parte della rosa, anche l’allenatore è rimasto lo stesso: il carismatico Pál Dárdai, giocatore dell’Hertha tra il 1996 e il 2011, lo stesso che da febbraio a luglio 2015, ingaggiato ad interim dopo il prevedibile esordio di Jos Luhukay, si è diviso tra il suo precedente impiego come commissario tecnico della Nazionale Ungherese e l’Hertha, prima di lasciare l’incarico con l’Ungheria per dedicarsi unicamente al ruolo di allenatore di club.

 

Il terzo posto con cui l’Hertha ha chiuso l’Hinrunde, alla luce di questa “non-rivoluzione” è dunque a dir poco sbalorditivo. Dopo un inizio con il freno a mano tirato, con due sconfitte nelle prime cinque, la squadra di Dárdai ha iniziato a risalire la classifica vittoria dopo vittoria, dopo aver trovato il coraggio di passare dal calcio difensivista delle prime uscite ad uno stile di gioco più espansivo, grazie anche all’iniezione di qualità determinata dall’arrivo di Darida a centrocampo.

 

Poco ma sicuro, la rosa non brilla per talento o doti individuali, ma il 39enne allenatore ungherese si era già dimostrato abile a fare di necessità virtù, gettando le basi per la qualificazione al primo Campionato Europeo dal 1972 dell’Ungheria, selezione di certo non graziata da una generazione particolarmente talentuosa.

 

A livello tattico Dárdai ha finora alternato 4-2-3-1 e 4-4-2. Nel 4-2-3-1 è Darida a giocare alle spalle di Ibisevic, con Kalou allargato indifferentemente sulla corsia di sinistra o su quella di destra e Lustenberger (che può giocare anche da difensore centrale) ad affiancare Skjelbred in mediana. Nel 4-4-2, Darida gioca invece al fianco di Skjelbred, mentre Kalou, più libero di svariare e di venire incontro al portatore, affianca in avanti Ibisevic, che rimane il principale riferimento offensivo.

 

Indipendentemente dalla formazione uno dei cardini del gioco dell’Hertha è la costante ricerca dell’ampiezza.

 

1

4-4-2 – Con il centrale Brooks a gestire palla, la coppia di centrocampisti Skjelbred-Darida non è mai piatta, ma si sfalsa, con uno dei due (solitamente il ceco) più avanzato in modo da avere più opzioni. I terzini Plattenhardt e Regasel si portano molto larghi in prossimità della linea laterale, mentre Haraguchi e l’altro esterno Weiser (fuori inquadratura), fanno altrettanto. Kalou, posto a supporto di Ibisevic, è l’attaccante designato ad abbassarsi e venire incontro al centrocampo.

 

 

2

4-2-3-1 – Skjelbred si abbassa in mezzo ai centrali per non lasciare i difensori a gestire il possesso in inferiorità numerica, come sarebbe successo in questo caso. I terzini Plattenhardt e Weiser rimangono sempre larghissimi, mentre gli esterni, contro il Mainz Kalou ed Haraguchi, si allargano a loro volta. Quando però la squadra avversaria difende compatta il centro, lasciando maggiore libertà sulle corsie, i due esterni d’attacco rimangono più stretti, allargandosi più che altro per creare superiorità numerica.

 

 

Molto spesso sono direttamente i difensori ad allargare subito il gioco in fascia, considerato che entrambi i centrali sono chiamati molto spesso a distribuire il gioco, visto che la salida con uno dei due centrocampisti, generalmente Skjelbred, ad abbassarsi in mezzo ai difensori avviene principalmente nel 4-2-3-1 e solo in casi di evidente inferiorità numerica o di pressione intensa da parte degli avversari. Non è un caso quindi che il centrale americano di passaporto tedesco John Anthony Brooks sia il giocatore che gioca più passaggi per 90 minuti (63.9) di tutta la squadra, con il compagno di reparto Langkamp comunque nella top 3, con 57.7 passaggi per 90 minuti.

 

Una volta distribuito il gioco in fascia, l’Hertha cerca di prevalere numericamente sull’avversario: nel 4-4-2 è uno dei due centrali di centrocampo ad allargarsi a fornire supporto a terzino ed esterno, attirando spesso con sé il proprio marcatore ed aprendo spazi  centralmente; nel 4-2-3-1 il compito è del trequartista Darida, che scivola alternativamente verso gli interni del campo, creando spesso situazioni di tre contro due.

 

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L’azione che ha portato al primo gol col Bayer Leverkusen. Darida si allarga sulla fascia destra, dove già stazione Weiser, portando con sé sia Toprak che Kramer. Il suo movimento apre spazio al centro e determina un due contro uno tra l’altro centrale avversario Tah e i due attaccanti Kalou e Ibisevic, presupposto decisivo nel gol del vantaggio dei berlinesi.

 

 

4

Con il 4-2-3-1 Darida scivola sulla stessa fascia dello sviluppo del gioco, formando un triangolo con terzino ed esterno offensivo e creando superiorità numerica, in questo caso un tre contro due.

 

Ibisevic e Kalou hanno segnato 15 gol complessivi, di cui 9 ad opera dell’ivoriano che l’anno scorso aveva trovato la via del gol per appena 6 volte. E’ in fase difensiva  che però l’Herta è migliorata di più, grazie all’organizzazione che Dárdai ha dato soprattutto nella difesa della propria metà-campo: con appena 18 gol subiti, l’Hertha è la seconda miglior difesa, a pari merito con l’Ingolstadt ma seconda sola al Bayern Monaco. La solidità difensiva e la tendenza ad andare spesso in vantaggio (11 volte su 17, tante quanto il Borussia Dortmund)  ha permesso ai bianco-blu di vincere 10 partite su 17 nell’Hinrunde, quando la scorsa stagione avevano collezionato appena 9 vittorie in totale.

 

Diverse statistiche avanzate dimostrano però, come la causa di un miglioramento così considerevole sia da ricercarsi, più che nella tattica, in una buona dose di fortuna, che difficilmente accompagnerà la formazione della capitale per tutto l’arco della stagione. Effettivamente, a fronte di soli 17.7 expected goals, il quartultimo dato più basso della Bundesliga, i berlinesi hanno segnato ben 26 gol (3 su rigore). Anche per quanto riguarda i 18 gol subiti, i bianco-blu stanno andando oltre le aspettative, considerato che hanno concesso occasioni per un totale di 22.9 expected goals. Inoltre come ha illustrato Dustin Ward su StatsBomb, le statistiche di dominio territoriale non sono particolarmente positive per la squadra di Dárdai, né presentano un miglioramento rispetto alla scorsa stagione, seppur ci sia stato un incremento nella precisione dei passaggi e nel possesso palla complessivo.

 

In sostanza, è lecito attendersi una regressione nei risultati e nella classifica dell’Hertha: anche un sesto posto finale sarebbe un miracolo ancora più grande della salvezza della scorsa stagione, ma la qualificazione all’Europa League sarebbe l’ideale per lasciarsi definitivamente stagioni complicate sia livello sportivo che finanziario.

 

Uncool

di Fabrizio Gabrielli

L’Hertha non è il club di Berlino. È stato fondato e ha sempre giocato nella città dell’Orso, certo ne è tra i più famosi portavessillo: ma chi rappresenterebbe di preciso? Chi tifa, oggi, l’Hertha?

 

Per farmi un’idea ho fatto qualche domanda a Tom Littlewood, editor in chief di VICE Germania, inglese ma di stanza a Berlino e tifoso dell’Hertha.

 

«L’Hertha non è considerato cool», mi ha detto. Poi mi ha raccontato che quando si è trasferito a Berlino, tutte le persone che ha incontrato in quel periodo tifavano per l’Union. «Anche la maggior parte degli expats che puoi trovare a Berlino tifano per l’Union, o per il St. Pauli di Amburgo. L’Hertha era un club assolutamente non pretenzioso ed è per questo che ho iniziato a tifarlo»

 

La difficoltà di costruirsi una vera identità secondo Tom dipende essenzialmente dalla conformazione della cittadinanza di Berlino durante la Guerra Fredda: «Berlino Ovest era una città chiusa. Questo significa che il fan-base potenziale, per la squadra, era molto molto ridotto: la situazione sociopolitica e geografica in cui si è trovata Berlino Ovest è stata, per l’Hertha, un grosso svantaggio. Inoltre a causa dell’occupazione delle forze alleate tutto ciò che riguardava la cultura occidentale destava molto più interesse per i cittadini di Berlino Ovest rispetto a quello che poteva essere autoctono, inclusa la squadra di calcio locale».

 

Ovviamente gli effetti si ripercuotono sull’oggi, tanto che è complicato ricostruire l’identikit del Tifoso dell’Hertha.

 

«È davvero un club per famiglie, da classe operaia. Con molta approssimazione il suo fan base è composto da giovanotti della classe operaia, famiglie della classe operaia e pensionati della classe operaia. Però occasionalmente alle partite puoi trovare anche ragazzi della classe media che magari si sono trasferiti a Berlino e vanno allo stadio due o tre volte l’anno, sempre ragazzi della classe media ma che tifano per gli avversari, giovani americani o inglesi che si trovano a Berlino in vacanza e vanno allo stadio per devastarsi. Recentemente anche rifugiati, ai quali regalano biglietti nella speranza che possa aiutarli a integrarsi nella società».

 

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Tom, sul suo profilo Facebook, ha un’immagine di copertina secondo me molto eloquente del senso profondo dell’Hertha: raffigura Ronald De Boer, con la maglia del Barça del centenario, che fuoriesce dalla nebbia di un Olympiastadion opprimente in una delle rare apparizioni del club di Berlino in Champions League.

 

La Bundesliga, oggi, è il campionato con la maggior affluenza di spettatori al mondo. A differenza di quanto si possa pensare, l’Hertha riesce a portare allo stadio, di media, cinquantamila persone per ogni partita casalinga.

 

Gli ex-cittadini del versante orientale della città continuano ad essere legati alla tradizione dell’Union, che milita in 2. Bundeslinga: partecipano attivamente alla vita sociale del club, nel giro di un anno hanno contribuito su base volontaria alla ricostruzione dello stadio, nel periodo natalizio si ritrovano sugli spalti per intonare canti di Natale come fossero cori, hanno una ragione vecchie maniere di sentirsi tifosi.

 

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Quando si dice «sentirsi a casa»: nell’estate del 2014 i fan dell’Union hanno portato i loro divani sul prato dello stadio, trasformandolo in un gigantesco ecumenico salotto.

 

L’Hertha, che è noioso e pare non tifarlo nessuno, attinge invece trasversalmente da anime apparentemente lontanissime, che anche grazie ai successi recenti si trovano cementificate in un amalgama complicato da comprendere, ma forse proprio per questo affascinante. Un po’ come Berlino in sé, dopotutto.

 

 

Tags : bundesligagermaniaHertha Berlino

Fabrizio Gabrielli scrive e traduce dei libri. Ha tradotto Lugones e collaborato con i blog di Finzioni, Edizioni Sur e Fútbologia occupandosi di Sudamerica, calcio e letteratura, anche in combine. Il suo ultimo libro si intitola "Sforbiciate. Storie di pallone ma anche no" (Piano B, 2012). È vice-direttore de l'Ultimo Uomo.

Flavio Fusi è nato nel 1993 e vive ad Arezzo. Laureato in Management, lavora per una startup tech e collabora anche con il sito di analytics StatsBomb.

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