«Il mito ha il compito di istituire un intenzione storica come natura, una contingenza come eternità» diceva Roland Barthes. Il mito è una narrazione carica di simboli trasmessa da una civiltà che si auto-rappresenta. Gli ebrei hanno il Talmud, Mosè, Abramo, i giapponesi la discendenza divina della famiglia imperiale, i greci la guerra tra i Titani e i figli, in Zeus che sconfigge Crono. E gli americani? Sempre secondo Barthes, ogni cosa può diventare mitica: il Destino Manifesto, il selvaggio West e la sua conquista, la cultura letteraria, le star hollywoodiane, il rock n’roll. E il Wrestling.
Siamo da qualche parte a metà degli anni ‘90 e negli USA le due leghe più importanti, la WWF (World Wrestling Federation) e la WCW (World Championship Wrestling) si fanno la guerra. La chiamavano Monday Night War, la sfida settimanale dell'audience tra Nitro e Raw; durerà fino al 2001 circa, quando Vince McMahon, il proprietario della WWF, acquisirà la WCW devastata dal fallimento finanziario. La WWF avrebbe, nonostante un inizio sottotono, superato l’avversaria e stravinto la guerra. E tutti i cultori di quel periodo di wrestling sanno cosa fu l’Attitude Era, l’ultima età dell’oro del wrestling, un periodo storico che cominciò verso il 1997 e si concluse cinque anni dopo.
Per qualcuno l'Attitude comincia con l'arci noto caso dello “Screwjob di Montreal”. Un affare occulto riguardante alcuni membri della WWF, tra cui Shawn Michaels e McMahon, che portò alla perdita della cintura di campione a Bret Hart senza che egli ne fosse a conoscenza. Ma farla risalire a quell'evento è più che altro una comodità da storici, come quando si dice che il medioevo finisce il 1492 con Colombo che salpa a Cuba. In realtà, l’era dell’attitudine è il punto di arrivo di una cambio di pelle che il wrestling subisce in quegli anni. Succede che la generazione degli anni ‘80, quella di Ultimate Warrior, Sycho Sid, Roddy Piper funziona sempre meno con i nuovi gusti del pubblico, orientato verso un linguaggio più violento ed esteticamente vicino alla moda di quegli anni (grunge e rap sopra tutto). Hulk Hogan per resistere nei panni del wrestler più famoso al mondo dovrà reinventarsi, diventando leader della stable anarchica e anti-sistema in WCW, la famigerata New World Order.
D’altro canto c’era una nuova generazione pronta a prendersi tutto. Il momento simbolo del passaggio di consegne avviene il 23 Giugno del 1996, quando Stone Cold Steve Austin si fregia del titolo di King of The Ring sconfiggendo Jake “The Snake” Roberts, lottatore della vecchia guardia, inventore di una delle mosse più note e potenti del wrestling, la DDT. Roberts in quel periodo combatteva con la gimmick del predicatore, redento dopo una vita di eccessi. Austin, dopo aver sconfitto Jake, pronuncerà una delle catch-frase più famose del wrestling «You sit there, and you thump your Bible, and you say your prayers, and it didn't get you anywhere... Talk about your psalms, talk about your John 3:16 ... Austin 3:16 says I just whipped your ass!» («Te ne sta lì seduto, a sbatterti con la tua Bibbia, a dire le tue preghiere, ma non ti ha portato da nessuna parte… Parli tanto dei tuoi salmi, del tuo Giovanni 3:16…. Austin 3:16 ti dice che ti ha appena fatto il culo!»).
A partire da quella presa in giro blasfema e cazzona Stone Cold diventa per la folla il re di quegli anni, adorato dal pubblico di ogni stadio stracolmo di fanatici d’America. 3:16 è uno di quei momenti che sposta l’asticella della WWF verso una forma d’intrattenimento tardo adolescenziale e meno infantile, più violenta, negli atteggiamenti e nel linguaggio. L’Era dell’Attitudine nasceva sotto la stella della prepotenza.
L'evento che incorona quegli anni fu l’Hell in a cell, un tipo di stipulazione che già esisteva in forma più semplice: due o più lottatori si affrontano circondati da una rete metallica. Ma nel 1997 l’Hell in a Cell, oltre alla gabbia d’acciaio sui quattro lati del ring ne aggiungeva uno strato superiore, in modo tale da impedire di poter uscire scavalcando la rete. Il primo Hell, nella forma così conosciuta, fu disputato tra Shawn Michaels e Undertaker.
Il signore delle tenebre e il genere umano
Nel 1997 l’Undertaker è ormai nella federazione già da sette anni, passati collezionando successi. Quello stesso anno a Wrestlemania vince il secondo titolo WWF Championship e il suo arco narrativo fu tra i più celebrati del periodo: lord of darkness, abito in pelle nera, musica funerea e poteri soprannaturali. Ad accompagnarlo c’era l’iconico manager Paul Bearer, mentore malvagio ed esperto di arti voodoo; secondo il background della sua gimmick Undertaker aveva bruciato la sua casa d’infanzia, ucciso i genitori e lasciato orfano il fratello, l’insano, violento, vendicativo Kane.
L’Hell in a Cell del ‘97 si ricorda per l’esordio della gabbia, ma anche per le innovazioni atletiche derivate dalla nuova struttura. Shawn Michaels, riconosciuto come uno dei più grandi performer e attento innovatore introduce la caduta dal tetto della gabbia verso tavolo dei commentatori. Quasi sempre quello degli spagnoli, vittima prelibata dei match più frenetici.
Nel 1998 il King of the Ring si tiene a Pittsburgh, Pennsylvania,“City of Bridges”; ex capitale siderurgica riconvertita all’alta tecnologia, è stata culla di scrittori come Michael Chabon, autore di I misteri di Pittsburgh. Quell’anno a indossare la corona e sedersi sul trono ci sarebbe stato Ken Shamrock, spinto dalla federazione e robusto atleta che veniva dall’MMA; nella finale vince per sottomissione contro The Rock, che all’epoca stava scalando la montagna per un successo che sarebbe divenuto extra-sportivo. Ma è l’incontro successivo che fa del King of the Ring ‘98 uno dei pay-per-view più iconici dell’era dell’attitudine. Ad affrontarsi nell’Hell in a Cell The Undertaker e Mankind.
L’uomo dietro Mankind si chiama Mick Foley ed è probabilmente una delle figure più affascinanti della storia del wrestling americano. Foley da ragazzino partecipava a eventi di backyard wrestling, una forma di lotta para-professionale che si pratica nei cortili delle villette suburbane e di periferia. Si riprendeva con una telecamera analogica, già con una gimmick ai tempi del college, si faceva chiamare Dude Love: parodia dell'hippy col cervello sciolto negli acidi del flower power, gradasso e sessualmente estroverso. A ventisei anni lottava per la WCW con il nome Cactus Jack, dove si sarebbe fatto ricordare soprattutto per incontri particolarmente estremi. A Monaco, nel 1994, affronta Van Vader (Leon White), in quel momento all’apice della carriera. Una belva del business, un lottatore che proveniva dal mondo del football americano e che nel giro si faceva conoscere per uno stile di combattimento d'impatto, rigido e doloroso. Durante quell’incontro Mick Foley perse un pezzo del suo orecchio destro, incastrato tra le corde del ring durante una mossa pianificata ma rischiosa. Le corde del ring della WCW, per dire, erano i cavi di un ascensore ricoperti di gomma. Quando Vader si ritrova il lembo dell’orecchio di Mick tra le mani lo lancia verso il pubblico, perché nel wrestling lo show non può fermarsi. Per nessun motivo.
Quando nel 1996 Foley arriva in WWF è un momento di cambiamenti, Vince McMahon non è un fan di Cactus Jack: l’idea è quella di coprirgli il volto e dargli connotati particolarmente oscuri. Nasce Mankind (letteralmente umanità), una figura indecifrabile, che indossa una maschera malridotta, parla poco e quando lo fa dice cose inquietanti; desidera sua madre, parla con un ratto di nome George, adora il dolore fisico, soprattutto subirlo. La sua specialità in fatto di luoghi sono gli anfratti della civiltà, metafora di quelli della psiche. È con lui che nascono i Boiler Room Brawl, incontri disputati nelle profondità di un palazzo, tra tubi e vapore. Poi c’è Mr Socko, un pupazzo/calzino che Mankind indossa nella sua finishing move, la mandible claw: blocca la lingua dell’avversario e fa pressione sui muscoli della mandibola, la compressione dei nervi immobilizza e non lascia scampo. Una tecnica perturbante e disgustosa, ispirata a una forma di sottomissione che aveva inventato tale Sam Sheppard negli anni sessanta. Sheppard era un neurochirurgo e un professional wrestler, con in mezzo un’accusa di uxoricidio e qualche anno passato in carcere. Ogni volto di Mick Foley ha qualcosa che riporta a una forma artistica lontana dal suo sport: Dude Love ricorda un personaggio post-moderno a là Vizio di Forma di Pynchon; Cactus Jack è un tizio assetato di sangue che indossa stivali da cowboy e si aggira con strumenti metallici per far male. Cactus è originario di Truth or Consequences, paesino realmente esistente di seimila anime del New Mexico, famoso per il nome allucinante e set di un vecchio film di fantascienza; Mankind può essere visto come una citazione a leatherface da Non aprite quella porta o al Michael Meyers di Halloween, ma chi scrive ci ha rivisto un - inconsapevole - affinità al dio/uomo suicida di Begotten, film sperimentale di Elias Merhige. Mankind è il lato inconscio dell’Attitude Era, il desiderio nichilistico di un’intera nazione - quella americana - nascosto dietro una maschera in un gioco per bambini. La rivalità era d’obbligo con l’oscuro signore per eccellenza della WWF, The Undertaker, accusato dell’omicidio dei genitori, venerato da una setta occulta (che un giorno sarebbe diventata una stable, The Ministry of Darkness), manipolato dal voodoo.
È passando per l’uomo dietro Mankind che ci si fa raccontare la storia di quell’incontro: Mick Foley già da lottatore dimostrò di avere una straordinaria capacità narrativa anche fuori dal ring, esordendo come scrittore con un’autobiografia di successo (Have a Nice Day: A Tale of Blood and Sweatsocks) e, dopo il ritiro, organizzando spettacoli itineranti durante i quali racconta la storia degli anni vissuti in ECW e WWF. In uno spettacolo del 2018, “Mick Foley: 20 years of Hell”, l’atleta racconta che l’approccio per l’in a Cell filtrava prima di tutto attraverso una timorosa ammirazione che aveva per quello del ‘97 con Shawn Michaels, che considera ancora “il più grande evento in a cell mai avvenuto”. Nei giorni prima del match si consulta con il suo amico e mentore Terry Funk, il quale era convinto che non si potesse fare di meglio di quello che avvenne nel ‘97. Propose, scherzando, di far partire il match direttamente dal tetto della gabbia. Per Mick Foley fu l’idea perfetta.
«Perché vuoi ammazzarti?» gli chiede Undertaker alla proposta di far iniziare il match già dal tetto. «We ve’got history, we’ve got legacy» gli risponde Foley.
L’incontro
Mankind si avvicina al ring, finge di voler salire per poi allontanarsi, schiena ingobbita e passo claudicante. Osserva il tetto della cella e gli lancia la sedia, poi, tenendosi aggrappato alla rete metallica, scala la gabbia. E mentre percorre il tetto, piegandolo ad ogni movimento, le luci si spengono: è il momento dell’entrata di Undertaker. Il theme song di accompagnamento è il memorabile Rest in Peace, un requiem introdotto da campane che suonano a morte e un organo solenne. Il pubblico è già in estasi, ma siamo ancora all’inizio.
Il becchino si ferma ai piedi della gabbia, si sfila la lunga tunica cerimoniale ed accetta il guanto di sfida, dal momenti in cui sale sul tetto. I due cominciano a scambiarsi qualche colpo. Poi Mankind con la sedia abbatte l’avversario, colpendolo sulla schiena. Dopo qualche passo la rete metallica si dimostra un terreno di lotta indecente, piegandosi pericolosamente e rischiando di far sprofondare Undertaker. Il tempo di spingersi al bordo della rete e Taker lancia Mankind dopo averlo afferrato. Foley fa un volo di circa sette metri e crolla sul tavolo dei commentatori spagnoli, vittima costante degli incontri più duri di quel periodo.
«Oh my god, as god as my witness, he is broken in half», esclama Jim Ross. L’arbitro Tim White è in panico e lo sarà per i minuti restanti. Il volo di Foley è, da vedersi, una piccola opera d’arte, non si stanca mai di ammirarlo. Ricorda vagamente l’abilità dei gatti, capaci di cadere sulle proprie zampe se hanno il tempo di girare il proprio corpo ed assumere la postura corretta di impatto. È una delle abilità necessarie per un wrestler e vederlo fare in quel momento, col corpo massiccio di 150 kg di Foley è impressionante. Fortuna, bravura, salvo per miracolo o per mirabile coordinazione?
Foley, comunque, sviene per quasi mezzo minuto.
«Nel 1998 in WWF i match non si interrompevano mai, ma prendevamo tempo». Il primo a soccorrere Mankind è Terry Funk, evidentemente preoccupato. Siamo nel regno di uno shoot, dove i livelli di realtà e finzione si fanno confusi. Le telecamere si intrufolano tra la folla attorno al lottatore, ne riprendono lo sguardo confuso e il corpo intorpidito. Foley e il suo amico si dicono qualcosa, sotto la presenza attenta degli arbitri e altri responsabili.
Il conduttore Jim Ross si scusa con il pubblico per la brevità del main event in cartellone e Jerry Lawler, co-conduttore, gli ribatte schietto che «Come fai a scusarti dopo aver visto qualcosa del genere?». Intanto Undertaker è immobile, ancora sulla cima, assorto e minaccioso. Il match sembra ormai giunto al termine con l’arrivo dei paramedici e la barella. Succede invece che Mankind si rialza e, sfidando l’evidente e chiara opinione di chi gli sta vicino, si incammina di nuovo verso il ring. Entrambi salgono per una seconda volta sulla cima della gabbia che in più punti sembra pronta a cedere. Questa volta l’Undertaker compie una chokeslam mirando alla sedia - quella vista all’inizio - ma il corpo di Mankind rompe una volta per tutte l’area del tetto, sprofondando sul ring. Tutti quelli che conoscono questa storia sanno che quella caduta non era stata prevista e che la reazione di Terry Funk, che corre verso il corpo del compagno, è data dal timore di trovarlo in condizioni disastrose. Foley è di nuovo svenuto e questa volta la preoccupazione è evidente.
Successivamente Mick Foley racconterà che molto probabilmente, se fosse riuscito a raccogliere la chokeslam con più forza, quindi riuscire a farsi spingere un po’ più in alto, allora nel peggiore dei casi sarebbe morto, in quelli buoni si sarebbe spaccato qualche osso della schiena irrimediabilmente.
Comunque, anche questa volta, Foley riprende coscienza. Terry Funk scambia due parole con Undertaker. Bisogna in qualche modo sgomberare l’area e tornare a creare spettacolo: Terry subisce una chokeslam che fa gli fa volare le scarpe, delle colorate Nike Air. «Cosa ci fanno qui delle scarpe?» si chiede Foley/Mankind, massa di carne e ossa rotte: ha una mandibola andata e uno dei due incisivi, staccandosi dalla gengiva, si è infilato, tra l’horrorifico e il comico, nel naso.
Quell’immagine sanguinolenta del volto deturpato di Foley, eppure sorridente nel ghigno adrenalinico, sarà ricordata tra le più rappresentative dell’Attitude Era. Foley si è (finalmente) fatto Mankind, la follia dell’uomo.
Per qualche minuto l’incontro continua grazie al fattore di resistenza di Foley, che subisce altri pugni contro la rete e colpi violenti con le scalette metalliche, ma riesce comunque a fare una piledriver sul corpo dell’avversario. Il volto di Undertaker si sporca del sangue di Mankind.
Infine c’è l’ennesimo momento iconico del match: Foley sfodera, nascosta sotto il ring, una borsetta contenente centinaia di spillette da disegno che lascia cadere sul terreno. L’idea è quella di farci cadere sopra l’avversario dopo averlo sottomesso con una mandible claw, ma finisce che Undertaker se lo carica sulle spalle, lo porta al centro del ring e lo butta sul mare di spillette. Foley non è più solamente mandibole rotte e denti volanti, ma anche costellato di luccicanti puntaspillo.
Mankind si rialza per subire l’ennesimo chokeslam sulle spillette. E poi di nuovo in piedi, in preda ad una sorta di trance performativa. Ma con la tombstone piledriver, la finisher dei Undertaker, il match si conclude.
«Misericordia, è tutto finito. In venticinque anni non ho mai assistito a qualcosa che assomigli anche solo lontanamente a tutto questo» sono le parole di Jerry Lawler. Il momento di distensione con la fine del match è incredibile: il requiem del becchino accompagna una folla delirante, in estasi. Undertaker ha difficoltà a lasciare il ring, in preda a una stanchezza psicologica oltre che fisica. Terry Funk è di nuovo sul ring con i paramedici e altri volti noti, come l’allora Commissioner Sgt. Slaughter (campione WWF nel lontano ‘91), che devono accompagnare Foley fuori dal match.
L’incontro viene eletto Match of the Year da Pro Wrestling Illustrated e diventa punto di riferimento per uno spettacolo considerato pericoloso. In un’intervista di qualche settimana fa a WWE’s the Bump, programma del network, Mick Foley parla di quell’incontro concentrandosi sull’abilità che aveva Undertaker di affidarsi alla gimmick senza stare troppi giorni ad inquadrare il match. L’immedesimazione attoriale, la capacità di chi sa stare sul palcoscenico, in quell’incontro divenne una forma di sublimazione. Ogni pragmatismo e atto di prevenzione fu sacrificato sull’altare dello spettacolo. «Non hai idea di quanto io apprezzi quello che hai fatto per questa compagnia, ma non voglio vedere mai più nulla del genere»” dirà Vince McMahon a Foley, qualche minuto dopo il match.
Il tempo dei miti e delle leggende
Foley, come quel dio che per diventare sapiente dovette sacrificare un occhio, tra un orecchio e denti rotti o mancanti, varie fratture e una evidente zoppia, ha pagato vistosamente la sua dedizione all’intrattenimento.
Deciderà di non farsi rimpiazzare l’incisivo perso durante quella serata a Pittsburgh perché, testuali parole, «quel momento fu unico e irripetibile. E decisi di non farmi aggiustare dal dentista perché avrei perso il ricordo più prezioso della notte più grande della mia carriera.».
L’Attitude Era è stata un pantheon di personaggi diventati eroi: The Rock, Stone Cold Steve Austin, Kane, Chyna, Triple H, solo per citarne alcuni.
L’Hell in a Cell ‘98 fu solamente uno degli eventi che hanno reso The Undertaker la leggenda definitiva. Un viaggio che è sembrato interminabile, protagonista dello streak (una striscia di ventuno vittorie a Wrestlemania, dal 1991 al 2014) e sette volte campione del mondo. Una cavalcata durata trent’anni e che si è conclusa ufficialmente solo pochi mesi fa, con una cerimonia di addio a Survivor Series 2020.
Per Mick Foley questo incontro fu invece la sua grande fatica d'Ercole. L’anno dopo avrebbe vinto a Summerslam un Triple threat match contro Austin e Triple H. I palazzetti si riempirono di spettatori che portavano da casa cartelli scarabocchiati col pennarello sui quali si leggeva “Foley is God”: il regno dell’oro della wrestling americana aveva trovato un nuovo dio. L’Attitude Era sarebbe durata ancora qualche anno di violenze, scherzi, incredibili acrobazie e fisicità, giochi di potere e americanismo sfrenato, per poi spegnersi e lasciare il posto a nuove storie di wrestling.