
L’indirizzo, per un torneo di tennis, non potrebbe essere più facile: Roger-Federer-Allee. L’unica via di tutta la Germania dedicata al grande campione. Ce n’è un’altra nella sua Svizzera, a Biel, città dove Roger è cresciuto sportivamente (e dove ha conosciuto la futura moglie Mirka), ma curiosamente non a Basilea, dove è nato e nel 2022 gli è stato rifiutato questo onore. E tutto sommato meglio così, visto che a Basilea - secondo regolamento comunale - per avere una via col tuo nome devi possedere un requisito che al momento lui non ha: devi essere morto.
Dunque: via Roger Federer, Halle, Germania. Facile. Eppure c’è chi ancora si sbaglia e finisce 350 chilometri più in là. Ad Halle, sì, ma non quell’Halle. Un’altra, nell’ex Germania Est, vicino a Lipsia. Una città di 200mila abitanti che oltre al nome non ha nulla a che spartire con il piccolo centro della Vestfalia (20mila abitanti) che ospita uno dei soli sette tornei su erba schiacciati nell’affollato calendario ATP. A confondere ulteriormente le cose, in Germania ci sono altre due Halle, una in Bassa Sassonia e un’altra al confine con i Paesi Bassi.
Ogni anno (sempre meno, con l’aumentare della popolarità del torneo) spuntano storie di appassionati che prenotano nella Halle sbagliata e lo scoprono solo una volta arrivati in hotel, se non dentro al taxi con cui pensano di arrivare a ai campi in una decina di minuti prima di sentirsi rispondere che forse non è un taxi quello di cui hanno bisogno.
Storie così succedono più spesso di quanto si possa immaginare anche nel calcio. Nel 2012, alcuni tifosi bilbaini dell’Athletic in viaggio per la finale di Europa League contro l’Atletico Madrid atterrarono a Budapest, in Ungheria, anziché a Bucarest, in Romania, dove si giocava la partita. L’errore opposto, agli europei itineranti del 2021, lo fece un gruppo di francesi con in tasca il biglietto per Ungheria-Francia. Nel 2018, alcuni supporter del Liverpool confusero Genk con Gent (130 km di distanza) e finirono per vedere la partita in un pub. Sempre nel 2018, toccò a dei tifosi del Benfica presentarsi nella Francoforte sbagliata, quella sull’Oder, dove non solo non gioca l’Eintracht, ma non c’è nemmeno una squadra di calcio professionistica.
Halle porta questo tipo di storie a un altro livello, visto che dagli anni Novanta circolano aneddoti legati non a tifosi, ma a giocatori finiti nel posto sbagliato e costretti a correre ad Halle in tempo per presentarsi alla loro stessa partita. La storia più recente - sebbene mai confermata dall’interessato e dell’ATP - è datata 2021 e riguarderebbe l’americano Marcos Giron (attuale numero 46 del mondo). Eliminato durante le qualificazioni a Stoccarda, Giron avrebbe telefonato da un treno diretto a est chiedendo all’organizzazione del torneo di venirlo a prendere in stazione sentendosi rispondere che nella Halle in cui stava andando non ci sarebbe stato nessuno a prelevarlo e che, anzi, avrebbe dovuto scendere al più presto per salire su un altro treno in direzione opposta. Alla fine Giron trovò la strada, percorrendola fino ai quarti di finale, dove venne battuto in due set da Félix Auger-Aliassime.
Io ad Halle ci sono arrivato facendo base nella dimenticabilissima Bielefeld, uno di quei posti stranianti fatto tutto con cubi di cemento a tal punto che sembra generato da un giocatore di Minecraft a cui hanno tolto colori e fantasia. Da lì, un treno ti dovrebbe portare ad Halle in mezz’ora, impresa riuscita una sola volta su sei tentativi, visti i ritardi ormai italianissimi delle ferrovie tedesche, con attese spesso più lunghe dell’itinerario stesso. Il treno si chiama RB75, ma i locali lo chiamano “Haller Willem” (Guglielmo di Halle), dal nome di un popolare vetturino che a fine Ottocento, con la sua carrozza a cavalli, trasportava persone e cose tra Halle e Bielefeld. Probabilmente mettendoci lo stesso tempo che impiega oggi il treno.
Una volta in Roger-Federer-Allee, con davanti gli stand che grigliano enormi bratwurst e currywurst per 4 euro, un negozio ufficiale dentro un piccolo gazebo con merchandising di dubbio gusto e qualità, e l’imponente, bellissimo stadio da 12mila posti (più capiente rispetto al centrale di tornei prestigiosi come Roma, Cincinnati, Amburgo e Rotterdam) si capisce subito di essere finiti in un luogo in cui - chissà come - si riesce a mantenere perfettamente in equilibrio due dimensioni teoricamente inconciliabili, quella del grande evento sportivo internazionale e quella della fiera di paese. Un esempio per tutti: sulla strada che porta all’ingresso, poco distante dai cartelli che pubblicizzano notissimi orologi svizzeri per ultraricchi, ce n’è uno che sembra messo insieme in fretta e furia con Paint, con una foto amatoriale di un pollaio e una grande freccia bianca che indica la fattoria più vicina dove puoi andare a comprare le uova fresche.
È più o meno così anche dentro, dove l’immacolato stand in cui servono gamberetti, champagne e cibo pretenzioso in un'atmosfera da golf club non sta in disparte, ma gomito a gomito con la birreria con le panche in stile Oktoberfest, il chiosco dei gelati e il venditore di fragole, grande orgoglio locale. E dove le signore ingioiellate con cappellini alla Ascot passeggiano accanto a signori sciabattanti (con calze annesse) con l’ombelico che spunta dalla maglia troppo stretta. Unica area off-limits è quella del Court Hotel, l’albergo a quattro stelle con laghetto annesso usato come base dai giocatori e dai loro staff, i cui ingressi sono piantonati da addetti alla sicurezza. Dal terrazzo della suite all’ultimo piano, con vista sui campi, si è affacciato - durante il tiebreak decisivo tra Cobolli e Shapovalov - il padrone di casa "Sascha" Zverev, trattato ad Halle come un re, eppure mai capace di conquistare la corona, battuto in finale nel 2016 da Florian Mayer (all’epoca 192 del mondo) e nel 2017 da Federer, che quell’anno vinse il nono dei suoi dieci titoli sull’erba tedesca: il torneo che ha vinto più volte in carriera (insieme a quello di Basilea, a Wimbledon invece si è fermato a otto).

Motivo per cui ad Halle c’è una via in suo onore e motivo per cui qui tutto riporta a Roger, anche se lui non gioca più. D’altronde, il patron del torneo, Gerhard Weber, quello che nel 1991 inventò dal nulla un challenger su terra battuta, rendendolo dal 1993 un torneo in erba, riuscì a convincere Federer a siglare un contratto a vita che lo obbligava (in cambio di un sacco di soldi, ovviamente) a giocare sempre ad Halle il suo torneo pre-Wimbledon. Su un tendone che fa da passaggio obbligato tra lo stadio e gli stand che vendono materiale sportivo sono allineati tutti i poster di presentazione del torneo dal 1993 a oggi. I primi sono ispirati all’impressionismo e al puntinismo e nessun volto è riconoscibile. Da un certo punto in poi compare il viso di un giovane Federer, di cui si può osservare l’invecchiamento nei lineamenti fino alla foto del poster dell’edizione 2020, quella mai giocata per la pandemia, in cui lo svizzero bacia la coppia vinta nel 2019, l’ultima. I poster successivi, sempre meno fantasiosi (e sempre più brutti), sono dei semplici collage fotografici dei migliori giocatori iscritti. Poco più in là c’è un grande cartonato che sintetizza il “Legenden Club”, ovvero il gotha dei migliori sportivi e artisti che si sono esibiti nell’arena di Halle: al centro, nettamente più grande di tutti, sempre Federer, attorniato da Whitney Houston, Elton John, Placido Domingo, Luciano Pavarotti, Santana e Henri Leconte, primo vincitore del torneo. Al cospetto dello svizzero, che giganteggia su tutti, perfino due miti locali come Boris Becker e Steffi Graf si ritrovano a fare da cornice, raffigurati in miniatura e schiaffati in un angolo.
Orfani di Federer dal 2021 (quando perse negli ottavi contro Auger-Aliassime) ed eternamente delusi da Zverev, gli appassionati di Halle hanno dovuto guardare altrove, facendo ricadere il proprio affetto su due giocatori tra loro molto diversi, quasi agli antipodi, sia caratterialmente che in campo: Jannik Sinner e Alexander Bublik. L’italiano quest’anno si presentava da campione in carica, il kazako aveva vinto invece l’edizione precedente riuscendo anche a sfatare una delle tante maledizioni associate ad Halle, quella del trionfatore del torneo poi eliminato al primo turno di Wimbledon: è sempre accaduto dal 2011 al 2022 (colpendo Kohlschreiber, Haas, Mayer, Ćorić, Humbert e Hurkacz) eccezion fatta - ovviamente - per Federer.
Il sorteggio, però, ha messo Sinner e Bublik uno contro l’altro già agli ottavi di finale. Il secondo - dopo la netta sconfitta subita nei quarti del Roland Garros (quella che gli fece ironicamente scrivere su Instagram “I almost got him, guys”) - sembrava destinato al ruolo di vittima sacrificale, specialmente dopo un primo set vinto da Sinner senza sforzi apparenti. In quei momenti, Bublik, sempre più nervoso, continuava a richiamare l’arbitro indicandogli il terreno e dicendo “è un campo di patate”. Poi si è sciolto, portando il pubblico della sua parte con giocate spettacolari sotto rete e il servizio da sotto, che fa impazzire le folle dai tempi del mitico Chang-Lendl al Roland Garros del 1989. Lì, nel secondo set, Bublik ha girato il suo torneo, battendo Sinner (ha poi scritto su Instagram “I got him guys”, riprendendo il messaggio di Parigi) e arrivando in finale con l’aria del predestinato, sconfiggendo nei quarti Machac in una delle partite più divertenti (il ceco, ottimo doppista, ha giocato all’attacco stimolando la fantasia di Bublik) e poi Khachanov in semifinale, dove si è visto tutto il meglio e il peggio del kazako, capace di infilare tre doppi falli consecutivi e vincere comunque un game decisivo partendo da 0-40 o di battere da sotto, vedere la palla fermarsi sul nastro, chiedere gli applausi del pubblico e poi rifarlo subito dopo conquistando il punto nel tripudio generale.
Nell’altra semifinale, giocata poco prima, Zverev cercava la sua terza finale ad Halle contro Medvedev, provando a interrompere la sua personale maledizione. Ha vinto il russo, in una partita tirata in cui a un certo punto Zverev si è lamentato per la luce che arrivava da una cabina tv dall’altro lato del campo. Non sapendo bene come avvisare chi era dentro, con il giudice di sedia che nel frattempo guardava Zverev e allargava la braccia, un signore seduto sugli spalti si è girato e ha iniziato a colpire fortissimo il vetro della cabina, urlando e chiedendo di spegnere la luce. Detto, fatto: a certificare come una partita di tennis tra due dei più grandi giocatori del mondo dentro a uno stadio avveniristico che sembra un’astronave ad Halle possa trasformarsi in un attimo in un torneo di quartiere.
A seguire Zverev, fin dai turni precedenti, una fila sotto di me, c’era un tifoso tedesco che è diventato da subito la mia ossessione. In dubbio fino all’ultimo se chiedergli qualcosa di lui e della sua vita, ho preferito tenermi l’idea che mi ero fatto osservandolo. Jeans tagliati al ginocchio per quattro giorni di fila, maglietta con bandiera tedesca stampata all’altezza del petto, scritta Team Zverev al centro e poco più sotto l’autografo del tennista a pennarello. Nella mano, come se fosse un naturale prolungamento del suo corpo, una bandierina che non mollava mai. Faccia, taglio di capelli e occhiali scuri erano tutti rigorosamente anni Ottanta. Mi rimandavano l’immagine di uno di quei vice-detective dei vecchi telefilm alla “Ispettore Derrick”, dove all’assistente toccava il ruolo ingrato di fare domande stupide al protagonista per far capire anche al meno sveglio dei telespettatori chi era il colpevole, cos’era successo.
Al posto di stare seduto come tutti gli altri, abbassando il seggiolino, il fan di Zverev stava appoggiato allo schienale (per sua fortuna nel posto dietro al suo non c’era mai nessuno), mostrando grande patriottismo, ma anche una certa sportività, applaudendo i bei colpi degli avversari quando non erano decisivi e annuendo convinto e sconsolato quando il punto pesava di più. Accanto a lui, la moglie con una specie di collana hawaiana da discount con il tricolore tedesco e anche lei la bandiera, esibita però solo nei momenti più importanti. Il giorno della finale, senza più Zverev da tifare, l’assistente detective ha estratto dal suo zaino un enorme quadernone ad anelli in cui teneva statistiche scritte a penna e decine di foto di Zverev - scattate da lui - che ha iniziato a regalare alle vicine di posto. Poi si è messo a tifare Bublik come se fosse tedesco.
La finale non era ancora iniziata che sembrava essere già su un piano inclinato a favore del kazako, la cui foto di presentazione sul tabellone luminoso ricordava il replicante di Rutger Hauer in Blade Runner. Sarà per il tifo più caloroso per Bublik, per lo slancio che gli ha dato la vittoria su Sinner (diversi italiani con biglietti prenotati sino alla finale hanno abbandonato Halle e il torneo dopo la sua eliminazione) o per il fatto che la fortuna non ha mai aiutato Medvedev quando la pallina danzava sul nastro, ma a ogni game che passava, prevaleva la sensazione che ci sarebbe stato un bis del 2023, e così è stato. La seconda vittoria ad Halle (su cinque trofei in carriera) del tennis libero, sfrontato, talvolta bambinesco oltre ogni limite di Bublik (uno che ha provato, in partite vere, a fare degli smash con il manico della racchetta), acquista ancor più senso pensando come a pochi passi da qui ci sia il Museum für Kindheits- und Jugendwerke, un museo particolare dove sono esposte le opere che alcuni artisti famosi (tra cui Paul Klee e Pablo Picasso) hanno realizzato quando erano bambini o poco più.

Per la premiazione, lo speaker annuncia Boris Becker, che però non arriva mai e quando arriva ha l’aria di uno di non aver capito bene cosa deve fare. Quando è il momento di parlare, lo sconfitto Medvedev, dopo aver fatto complimenti a tutti, dice: «L’anno prossimo tornerò. Qua è tutto perfetto, eccetto una cosa, e Alexander sarà d’accordo con me. Perché avete messo le panchine dal lato esposto al sole? C’era da morire». Bublik annuisce, tutti ridono. A rendere ancora più comico il tutto, il fatto che non fossero panchine, ma divani bianchi di pelle messi lì per via dello sponsor - che vende mobili - e che dovrebbero stare in un salotto, non su un campo da tennis.
Un campo, quello di Halle, definito da alcuni “stregato”, dove sono successe diverse cose strane nel tempo, compreso quest’anno, quando durante l’incontro tra Zverev e Giron (quello che nel 2021 sarebbe finito nella Halle sbagliata), un pezzo di cartellone si è staccato precipitando su una spettatrice, ferendola in modo solo lieve. La leggenda nasce nel 1999, quando durante l’incontro tra Kiefer e un qualificato, a un certo punto si è materializzata in campo una pallina senza che nessuno capisse da dove arrivasse: non era caduta dagli spalti, né dalla tasca di un giocatore o da un raccattapalle. Il mistero resta tutt'oggi, perché una volta non c’erano tutte le telecamere che ci sono ora. Poi ci fu la volta dei riflettori rotti e quella dei riflettori che si accendevano da soli, mentre nel 2004 ci sono stati problemi con gli irrigatori, che si azionavano in modo casuale e non richiesto durante gli incontri. Stregata, a modo suo, Halle lo è stata anche per Jimmy Connors, che proprio qui, nel 1995, prima di perdere nei quarti di finale contro lo svizzero Rosset vinse la sua 1274esima e ultima partita da professionista, battendo un giocatore tedesco dimenticato, ma dal cognome profetico: Sinner.
Quest’anno, poi, si è consolidata un’altra piccola maledizione, quella che colpisce i Medvedev: oltre a Daniil, già sconfitto in finale da Hurkacz nel 2022, c’era stato un altro Medvedev in finale, l’ucraino Andrei, battuto da Henri Leconte nella prima edizione del torneo sull’erba, datata 1993. All’epoca, trenta dei trentadue giocatori presenti nel tabellone del singolare di quest’anno non erano ancora nati.
Fu la prima sconfitta di Medvedev in una finale del circuito dopo averne giocate e vinte cinque, ma non la più dolorosa della carriera, arrivata sei anni più tardi al Roland Garros per mano di Andre Agassi. Dopo aver eliminato due favoriti come Sampras e Kuerten, Medvedev dominò a sorpresa l’americano per oltre due set. Davanti 6-1 6-2 e con una palla break sul 4-4 che gli avrebbe consentito di servire per il match, Medvedev non colse l’occasione e un paio d’ore dopo si ritrovò con in mano il vassoio dello sconfitto mentre Agassi diventava il secondo uomo, dopo Rod Laver, a completare il Career Grand Slam.