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Devi sempre ricordarti quanto vali, intervista a Haba Baldonado
26 mar 2025
Il giocatore romano è in Canada con la speranza di arrivare in NFL.
(articolo)
13 min
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Foto di Morgan Fleury
(copertina) Foto di Morgan Fleury
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«È una vita che fatico… Se ne vengo fuori, voglio uscirne a testa alta». Negli ultimi giorni dell’aprile di due anni fa, una troupe di DAZN ha seguito e documentato la spasmodica e snervante attesa del romano Habakkuk Baldonado, al tempo giocatore di football universitario in America e, in quell’occasione, spettatore del Draft NFL, in attesa di essere scelto da una squadra della Lega.

Baldonado è un defensive end di venticinque anni e di quasi due metri per centoventi chili, ruolo che lui spiega così: «Gioco in difesa con il compito di evitare che la squadra avversaria segni il touchdown, cioè la meta, che vale sei punti. In sostanza devi placcare e scontrarti continuamente con gli avversari per fermarli o spostarli. Devi essere forte, potente ma anche resistente».

Il Draft invece è l’appuntamento annuale in cui i team della National Football League, la Serie A del football americano, si aggiudicano i giovani talenti che si sono distinti nei campi di college - in un sistema che funziona come una sorta di vivaio. L’approdo di Baldonado in NFL sembrava una formalità, era dato per certo e tutti si aspettavano che venisse scelto nei giorni iniziali del Draft - noi lo abbiamo intervistato per la prima volta proprio in quel periodo, chiacchierata in cui Haba ci ha raccontato la sua vita fino a lì. Cioè dall’infanzia romana all’approdo negli Stati Uniti, tra successi, infortuni, filosofia e mentalità adamantina.

Baldonado riassume brevemente il suo percorso da Roma al college americano.

La sua scelta al Draft è ripresa invece nel documentario Edge. A mano a mano che il Draft procede senza nominarlo, vediamo Baldonado sorpreso, incupito, innervosito, sconsolato, ma sempre composto. Nel salotto da cui segue l’evento, insieme alle persone che gli vogliono bene, la tensione è palpabile, tra momenti di speranza e di delusione. Da un certo momento in poi, quando si capisce che le cose stanno prendendo una brutta piega, il telefono di Baldonado comincia a squillare.

Lo chiamano da diverse squadre per cercare di impegnarlo e di strappare un accordo, ma senza garanzie, almeno fino al termine del Draft. Lui si confronta con il suo agente e prende tempo. C’è chi alla fine ammette di doverlo scartare a malincuore, per prendere il figlio di uno degli scout della società. Baldonado è glaciale, non fa una piega. Alla fine dice solo, con uno sguardo feroce: «Non riesco a spiegarmi perché sia andata così, quindi questo mi fa rosicare… Tantissimo». D’altronde, il nome biblico scelto da suo padre, mancato in un incidente in moto quando Habakkuk era poco più di un bambino, è lo stesso dell’unico profeta che metteva in discussione l’operato di Dio, facendogli domande. Allo stesso modo, Baldonado è costretto a dubitare, a misurarsi con se stesso, rivedendo obiettivi e aspettative, senza timore di guardarsi dentro per crescere e voltare pagina - come emergerà in questa intervista.

A mente fredda, nei giorni successivi Haba analizza: «Mi è servito da lezione, mi ha fatto bene perché nell’ultimo anno mi stavo un po’ rilassando, non spingevo come facevo prima. Questa delusione mi dà la spinta per alzare il livello e raggiungere il massimo. Non è la fine, ma un nuovo inizio». Baldonado resta dunque svincolato e si accorda con i New York Giants, approdando lo stesso in NFL, ma dovendosi guadagnare la permanenza in squadra alla fine della preparazione estiva. Ciò non avviene, perché i Giants decidono di rilasciarlo, ed ecco che si fanno avanti i Saskatchewan Roughriders dalla Canadian Football League. Baldonado firma, gioca una prima stagione interlocutoria e poi diventa titolare fisso.

Un estratto di quegli attimi dal documentario di DAZN

SUL FILO DELL'EQUILIBRIO

È a questo punto del suo percorso che lo chiamo, facendolo tornare ai difficili giorni del Draft 2023, dove lo avevamo lasciato, pacato e misurato nelle reazioni: «In realtà mi sono passate tantissime cose per la testa, e ovviamente mi è dispiaciuto dell’esito finale. Ma sin dal college, tra i giocatori circola un detto che potrei tradurre così: “Non eccitarti troppo per le vittorie, non deprimerti per le sconfitte, trova un equilibrio e continua a lavorare”. L’ho assunto come stile di vita, perché il mio approccio al football è lo stesso che ho fuori dal campo. Lo sport ti forma e insegna molto, alcuni spunti mi hanno incuriosito, ho cominciato a leggere tanto e ho scoperto la filosofia, soprattutto lo stoicismo. Ho capito che la differenza non la fa cosa ti accade, ma come la prendi. A volte ci facciamo condizionare dai nostri pensieri e rendiamo la realtà più difficile di quella che è davvero. Tutto ciò che ci succede è superabile, tendiamo a sottovalutarci ma abbiamo risorse che neanche immaginiamo».

Haba mi spiega che ci sono più fattori che probabilmente sono risultati determinanti per il suo mancato approdo in NFL durante il Draft: «Ho fatto degli errori di strategia e valutazione. Mi sono fermato un anno in più al college nonostante avessi fatto una stagione strepitosa, ma mi ero infortunato alla fine dell’ultima partita e l’ho preso come un segno del destino, dando retta al parere degli altri. Dopo, mi sono presentato in modo sbagliato all’NFL Combine, un evento d’élite a cui partecipano i duecentocinquanta migliori giocatori di football del college per venire sottoposti a test fisici e mentali. Lì ho giocato in uno schema diverso rispetto a quello a cui sono abituato, quindi fuori posizione, e ci sono arrivato troppo leggero per performare come dovevo - consigliato da altre persone che non dovevo ascoltare».

Una rassegna di highlights per conoscere meglio Haba.

«E poi, sono stato troppo onesto nei questionari che mi hanno fatto, quando invece avrei dovuto bluffare ed essere più furbo», continua. «Sono quasi degli interrogatori in cui cercano di metterti in difficoltà, e vanno a verificare quello che dici. Ti chiedono, ad esempio: “Hai mai avuto problemi alle caviglie?”. A tutti gli sportivi è successo almeno una volta, è normale, ma se tu rispondi di sì, pensano che magari hai avuto dei problemi più seri che stai nascondendo». Dunque, ragiono con lui, sono stati errori dovuti alla sua inesperienza nel mondo del football, sport che ha cominciato tardi, a sedici anni, e in cui ha bruciato le tappe.

È d’accordo: «Non l’ho vissuto abbastanza da capire le dinamiche complesse e delicate che ci sono dietro alla carriera di un giocatore. Sono arrivato in America che ero da solo, non avevo amici né conoscenze nell’ambiente. Ho imparato piano piano, a mie spese. Sono stato assistito, gestito male dalle persone a cui mi sono affidato, tra agenzie di management sportivo e un altro agente che ho licenziato». Gli chiedo se nel football sia come nel fighting, con manager che firmano centinaia di atleti per guadagnare sui grandi numeri, trattandoli come figurine e pedine di scambio con le organizzazioni - come avviene spessissimo in UFC, ed è successo a diversi nostri connazionali. Risposta affermativa.

«Insomma, è andata così», riflette Haba. «No, non ho mai pensato di chiudere con il football dopo questa delusione, anzi, mi ha motivato a spingere ancora più forte. Se trovo un muro davanti a me non ci rinuncio, mi fomento e cerco di abbatterlo. Non ti nascondo però che ci ho messo un anno a riprendermi e a superare quello che è successo - pensi: “Non mi hanno voluto”. Finché non sono andato a rivedermi i miei highlights del college, quando ero in top ten del Paese nel mio ruolo, e mi sono detto: “Aspetta un attimo, tu sei questo. Non sarà un Draft andato male a buttarti giù”. L’ho superata così: va bene mettersi in discussione, ma mai dimenticare il proprio valore».

OGNI MALEDETTA DOMENICA

Colgo l’occasione per approfondire il profondo significato che il college football ha per gli americani, distinguendosi come un vero e proprio fenomeno culturale raccontato in libri e film: «È il football universitario, quindi giocato da studenti, ma ha un seguito enorme, ha più tifosi dell’NFL. Ci sono tantissimi team e lo stadio della squadra in cui giocavo ospita sessantacinque mila persone, ma ce ne sono alcuni che superano i centomila spettatori. Come si spiega? Gli americani hanno un legame fortissimo con l’alma mater, l’università in cui hanno studiato, che per loro significa anche il campus in cui hanno abitato e condiviso esperienze di vita. Così nasce un legame fortissimo che esprimono nel tifo. Una volta laureati, il senso di appartenenza rimane e si tramanda».

Gli studenti si trovano quindi a giocare per quattro anni della loro vita in stadi che neanche i giocatori professionisti calcano, con la pressione di un pubblico, di una comunità di tifosi così numerosa, dovendo al contempo mantenersi al passo con gli studi, pena l’espulsione dall’università. «Quando giochi bene la gente ti ama, ti idolatra, quando la squadra va in crisi ti odia, ti lascia minacce di morte sul cofano dell’auto. Sono anni intensi, tosti, belli, indimenticabili proprio per questo. Me li sono goduti al massimo», aggiunge Baldonado, specificando che «tanta gente non ce la fa per diversi motivi, sia fisici, come gli infortuni, sia mentali, c’è una bella selezione».

Una lunga e interessante intervista ad Haba nel podcast “Growing Up Italian”.

Ecco un esempio: «Sono arrivato al college che pesavo sui novanta chili, e un giocatore medio del mio ruolo ne pesava sui centoquindici, centoventi. Così ho cambiato alimentazione, cominciando a mangiare cinque o sei volte al giorno per un totale di seimila calorie - ovviamente seguito da un nutrizionista - e ho spinto tantissimo con i pesi in palestra. In due mesi ho preso venti chili. Per me, anche mangiare è un lavoro».

E dato che in NFL ci arriva poco più dell’uno per cento di chi gioca al college, tantissimi si ritrovano a dover relegare il football, i bagni di folla, la sovraesposizione sociale a una parentesi della loro vita, tornando all’anonimato: «Il football è così e si sa, può finire da un giorno all’altro».

SCELTE DIFFICILI E CATTIVI CONSIGLI

«L’esperienza con i Giants è stata amara», mi dice, riprendendo con la cronologia degli eventi. «Perché non sono stato confermato? Non lo so, non te lo dicono. A volte il coach che ti allena neanche lo sa, sono decisioni che vengono prese da figure manageriali interne alla società, con cui non c’è un rapporto. Si ragiona come in qualsiasi grande azienda. Con i Giants ho giocato tre amichevoli pre stagionali, la prima partita l’ho fatta benissimo, infatti i giornali hanno parlato di me. Nella seconda mi aspettavo più spazio e invece me ne hanno dato molto di meno, ma me la sono cavata bene lo stesso. Alla fine delle amichevoli avevo delle ottime statistiche, ma qui influiscono altri aspetti».

Quali? «Considera che quando ti accordi con una squadra da free agent, devi sperare di soffiare il posto al giocatore che hanno scelto nel Draft» spiega. «Avendolo selezionato, è un ragazzo in cui credono e in cui hanno investito a livello economico, a volte pure parecchio, con un vincolo contrattuale di anni. Quindi, anche se ti riveli migliore di lui, è difficile che un asset societario fresco di firma, con stipendio garantito per il futuro, venga subito relegato ai margini della squadra. Capita, ma in casi eccezionali, magari in caso di infortuni. Perciò era una strada in salita dal principio».

Ma non è finita qui: «A quel punto ho fatto un provino con un’altra squadra di NFL, i Cincinnati Bengals. Sono occasioni in cui ti chiamano soprattutto per conoscerti e vederti, ma è difficile che ti prendano sul momento. Così, scartata anche questa ipotesi, avevo davanti a me due scelte: tornare a casa, tenermi in forma e aspettare una chiamata dall’NFL, cosa che è molto probabile che accada in casi simili, oppure accettare l’offerta dei Saskatchewan Roughriders e trasferirmi in Canada. Dato che per attendere una telefonata dalla Lega americana avrei dovuto prendere una casa in affitto, capire la mia posizione burocratica per poter restare in America da straniero, trovare un posto in cui allenarmi, eccetera, che sarebbe stato anche costoso, ho scelto la seconda opzione».

Se fosse andata bene, sarebbe stato troppo semplice: «Il contratto mi ha vincolato alla squadra automaticamente per tre anni - ora me ne manca uno. E qui, di nuovo, è stato fatto un errore - motivo per cui mi sono separato dal mio agente, come ti dicevo - perché sarebbe stato meglio aspettare novità dall’NFL. Lui ha spinto per il Canada così da guadagnare la sua fetta, perché un giocatore svincolato non rende, per di più facendomi intuire che sarebbe stata una tappa veloce, da trampolino per tornare in NFL. Invece, appunto, è scattata la clausola dei tre anni, per cui sono rimasto».

FIN QUI TUTTO BENE

Parliamo, quindi, di oggi: «Nei Saskatchewan Roughriders mi sento a casa, è la squadra di Regina, città di quasi duecentomila abitanti in mezzo al nulla, tranquilla, senza troppi svaghi. La società è storica e affermata, con i miei compagni c’è intesa. L’anno scorso siamo arrivati fino alle semifinali, adesso vogliamo spingerci oltre. Quello canadese non è un campionato così tanto distante dall’NFL come livello. Ci sono dei ruoli per cui esistono pochi giocatori in giro, e sono tutti in NFL, mentre per altre posizioni più affollate, tanti vengono in Canada, e sono giocatori fortissimi. Certo, l’NFL resta il top, ma noi veniamo subito dopo».

Domando a Baldonado se il suo obiettivo sia quello di tornare nella Lega americana, e quante possibilità sente di avere per riuscirci: «Diverse squadre hanno già chiesto di me. Mi serve un’altra stagione positiva per confermarmi e sono pronto a fare il salto. Ho venticinque anni e sono nel pieno della mia carriera, il treno non è perso, anzi».

E cosa gli manca per fare quest’ultimo step di crescita? «Sono un giocatore aggressivo e intelligente. Vorrei essere più costante, è un aspetto che mi viene rimproverato spesso. Sono un po’ altalenante, non intendo nel senso che in una partita gioco benissimo e in quella dopo vado male, ma che magari sfoggio una performance superiore alla media che però faccio fatica a ripetere, e a renderla un nuovo standard. È uno scherzo che mi gioca la mente, voglio e devo lavorarci. Mi sono accorto di rendere tanto quando mi danno fiducia, mentre se mi concedono poco spazio e occasioni contate, faccio più fatica ad esprimermi».

NELL'OTTAGONO

Baldonado non ama solo il football: lo appassionano anche le arti marziali miste, che ha praticato per un periodo. «Quando ero ragazzino, a Roma c’è stata un’esplosione delle MMA, erano di moda, così le ho provate anche io. Mi ci sono dedicato per un paio d’anni, lasciando definitivamente il calcio, e poi sono approdato al football. Mio fratello Jonathan invece è diventato un fighter dilettante e ha combattuto per la Nazionale, ora si allena in Australia sotto la guida di Renato Subotic, eccellenza italiana all’estero». Haba conosce bene Alessio Di Chirico, ex fighter UFC: «Ci ha presentato cinque anni fa un amico in comune, da allora abbiamo lottato insieme qualche volta. Mi aiutato a tenermi in forma durante il periodo del Covid, è nata una bella intesa. Lui stava preparando il match contro Joaquin Buckley, che ha vinto per KO al primo round con un high kick spettacolare. Tra l’altro Alessio ha un passato nel football romano».

Baldonado è in contatto anche con Marvin Vettori, con cui condivide il nutrizionista, Matteo Capodaglio. Ed è proprio in una visita con Vettori all’UFC Performance Institute che Haba ha avuto l’occasione di fare sparring con Sean Strickland, ex campione mondiale dei pesi medi in UFC - Baldonado ce lo aveva già accennato due anni fa, ma gli ho chiesto di dirmi di più: «È andata che entro in palestra, c’era lui che faceva sparring con un ragazzo nell’ottagono, mi ha visto e mi fa: “Tu sembri grosso, ti va di scambiare due colpi al volo?”. Io ero distrutto, reduce da una partita, ma ho accettato. Mi sono tolto la maglietta, restando in tuta, mentre lui era con i pantaloni cargo - niente caschetti, guantoni alle mani e via, abbiamo iniziato. È stato uno sparring di striking, solo pugni, che non sono il mio forte - vado meglio con i calci e nel grappling. Strickland si è comportato bene, ci siamo divertiti. Mi è sembrato una gran persona».

In chiusura, un accenno anche ad Habakkuk, la persona sotto a casco, paraspalle e alle altre protezioni: «Mi definirei un ragazzo positivo, divertente e costante, quello che devo diventare anche in campo. Sono soddisfatto della mia vita, sto bene perché essere un giocatore di football in America mi sembra ancora un sogno ad occhi aperti, è successo tutto in pochissimo tempo. Se penso che è cominciato per caso non mi sembra vero… È indescrivibile, sono grato di questa opportunità. Ora sta a me portarla a un livello superiore».

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