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Luca Misculin
Guida ufficiosa al Torino 14/15
17 ott 2014
17 ott 2014
Nella settima delle nostre guide alla Serie A 2014/2015, un romanista innamorato di Ventura e un milanista che rimpiange la coppia Cerci / Immobile ci parlano delle potenzialità del nuovo Torino.
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Luca Misculin
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Me lo chiedo sempre, ogni volta che mi capita di guardare una partita del Torino: chissà come deve sentirsi uno che tifa per una squadra oggi medio-piccola che l'anno scorso s'è goduta

- piccolo inciso: per nulla sfruttata da Prandelli, che ai Mondiali aveva sia Alessio Cerci sia Ciro Immobile - a veder giocare là davanti, quest'anno, Fabio Quagliarella e uno fra Larrondo, Barreto e Amauri. (Diciamo che posso farmene un'idea).

 

Per come la vedo io l'anno scorso, il Torino - o Giampiero Ventura, se vogliamo - era riuscito ad azzeccare soprattutto tre cose (già piuttosto rare a vedersi da sole, va detto): a) aveva ricavato il massimo da un giocatore considerato da molti po' matto e fondamentalmente discontinuo (Cerci) e da tre non-più-così-giovani ex grandi promesse (El Kaddouri, Darmian ma soprattutto Immobile); b) aveva trovato un meccanismo di gioco solido ed efficace, costruito attorno ai migliori giocatori della rosa e adattabile a ogni tipo di avversario; c) aveva saputo dire qualcosa di nuovo dal punto di vista tattico: penso alla posizione di Cerci, o a quella di El Kaddouri, o in generale agli ottimi meccanismi del suo centrocampo. È difficile stimare quanto di queste conquiste possiamo ritrovare nel Torino di quest'anno .

 

Dopo un anno del genere, concluso al settimo posto a 25 punti dalla zona retrocessione (e qualificandosi per l'Europa League), è tutto sommato normale che una società come il Torino abbia deciso di monetizzare il monetizzabile: in un colpo solo, vendendo Cerci e Immobile rispettivamente all'Atletico Madrid e Borussia Dortmund, ha ottenuto circa 26,4 milioni di euro, una cifra

a quanto la società spende all'anno per pagare

di stipendi a tutta la propria rosa (il Torino, dopo vari anni fra Serie A e Serie B, ha ottenuto il miglior risultato dal terzo posto del 1991-1992).

 

Il Torino ha scelto di investire parte dei soldi ottenuti dalle cessioni di Cerci e Immobile per arricchire la cosiddetta "classe media" della squadra: comprando cioè delle buone riserve che potenzialmente, e credo anche nei piani della società, potrebbero/dovrebbero sostituire gli attuali titolari. Sono arrivati a titolo definitivo i difensori Pontus Jansson - 23enne nel giro della nazionale svedese - Bruno Peres - 24enne terzino che faceva la riserva al Santos - e i centrocampisti Rubén Pérez e Juan Manuel Sánchez Miño rispettivamente dall'Atletico Madrid e dal Boca Juniors. Altri soldi sono stati spesi poi per acquistare vecchie volpi della Serie A (Cristian Molinaro, Antonio Nocerino e Fabio Quagliarella) e qualche giovane interessante (il difensore uruguayano 20enne Gastón Silva e l'attaccante 21enne venezuelano Josef Martínez).

 

Ad oggi, mi sembra che uno dei punti deboli della squadra sia proprio la difficoltà che sta affrontando Ventura nell'inserire i nuovi acquisti: quello che si sta trovando meglio è Sánchez Miño (che però è anche il più "pronto" - e probabilmente il più forte - fra i nuovi), il quale però si è semplicemente "inserito" nel giro dei centrocampisti quasi-titolari. La squadra titolare, insomma, è finora quasi la stessa dell'anno scorso, ad eccezione dei due là davanti (e gioca anche con lo stesso modulo, a parte rare eccezioni). Probabilmente è comunque troppo presto per giudicare quelli nuovi, ma vorrei chiedere a Fabrizio Gabrielli cosa ne pensa a riguardo.

 



Juan Sánchez Miño, così ad occhio, per come lo conosco io, è sicuramente il nuovo innesto più interessante tra i granata, sempre se accettiamo di fare un discorso in termini di valore assoluto. Sette anni fa, quando ne aveva appena 17 ed era un punto di forza della cantera del Boca, ha partecipato coi suoi al Sudamericano U17 facendo parlare abbastanza di sé soprattutto per certi aspetti che lo rendevano diverso dai suoi coetanei. Sánchez Miño parla correntemente francese e inglese (dice che il francese glielo ha insegnato il nonno, poliziotto in missione nell'Esagono) e all'epoca era uno studente modello, «pieno di inquietudini, maniaco dei dettagli», come veniva definito sul

. «Per il fatto che parlo fluidamente due lingue non è che sono più degli altri. Questo è sempre il calcio, e dovrò dimostrare che oltre che uno studente modello sono anche un buon giocatore». Nel Boca Carlos Bianchi ha spesso puntato su di lui: a molti habitué della Bombonera ha ricordato lo stile sulla fascia sinistra di Clemente Rodriguez, e quando quest'ultimo s'è trasferito al Sao Paulo, ecco, almeno non l'ha fatto rimpiangere (e i tifosi xéneizes hanno un approccio molto particolare nei confronti delle somiglianze e dei rimpianti).

 

Giampiero Ventura ama questo tipo di giocatori, che fanno "frullare" la palla, intelligenti, capaci di calarsi, più che negli schemi, nella sua "idea" di calcio. Forse dovrà abbandonare l'idea di giocare sulla fascia sinistra, come amava fare in Argentina (Ventura, nelle prime giornate di questa Serie A, lo ha schierato più come enganche, quello - per intenderci - "di qualità" nel trilatero di centrocampo, nel vertice alto, à la El Kaddouri; oppure un po' più fermo sulla mediana, da volante, come si dice in spagnolo, de cinco, più argentinamente ancora). Potrebbe essere la non-più-così-giovane-ex-promessa dell’anno, per citarti: il Toro peraltro ha investito abbastanza sul giocatore, che non è in prestito (come, per dire, El Kaddouri) e quindi assolutamente suitable per la programmazione di Ventura, che per sua stessa ammissione preferisce uomini sui quali puntare nell’ottica di una pianificazione pluriennale.

 

La coerenza (che in genere porta compattezza e solidità, l’efficacia poi è figlia delle contingenze) dei meccanismi di gioco di Ventura con il percorso tattico di Ventura stesso mi sembra cristallina e fuori discussione: abbandonato ormai lo sfavillio delle quattro punte con cui il Signor Libidine entusiasmava le piazze di Pisa e Bari, il Toro si è infilato nella comoda eleganza del 3-5-2 (pronto a trasformarsi - nell’evenienza di una più spiccata difensività - in un 5-3-2) con la nonchalance di una signora che per le faccende domestiche indossa la sua tuta da ginnastica in ciniglia. Granata, ça va sans dire.
Manca, certo, l’intuizione destabilizzante di una delle due punte (Cerci, negli anni passati) che parte bassissimo e larghissimo; in generale è proprio l’attacco che sembra meno sfacciato, meno maleducato, più vecchio - e non è per mera questione anagrafica, pur essendolo un po’: ecco, più ancien régime, da un punto di vista proprio concettuale.
Il Toro dovrà per davvero affidarsi solo al senso di rivalsa nei confronti della metà avversaria della città di Amauri e Quagliarella? Non ci credo, è troppo argomento-easy-da-giornalista-pigro-d’agosto.

 


Dici bene, quando scrivi che ormai il 3-5-2 di Ventura è talmente rodato da poterci fare grande affidamento. E credo anche che malgrado tutto il sistema di gioco funzionerà anche quest'anno: la variabile fra vincere o perdere qualche partita, fra le altre cose, lo farà probabilmente il grado di inserimento dei giocatori all'interno di questo sistema. Piuttosto, sono davvero curioso di cosa potranno combinare quei due là davanti. Temo in particolare di avere dei precisi mixed feelings riguardo Quagliarella, a causa di una specie di trauma infantile.

 

Nel 2003, quando avevo 13 anni, passai un'intera estate a leggere

. Tutti i giorni. Ad oggi, non riesco ancora a spiegarmene il motivo (sono milanista): forse ero stufo della

. Forse ero solo un po' matto. Boh. Continuai comunque a comprarlo, attratto credo da varie bizzarrie e sensazionalismi (poi, come se niente fosse, un giorno tornai semplicemente a comprare la Gazzetta). In particolare,

era diventato parte di una specie di routine quotidiana che prevedeva una passeggiata mattutina fino all'edicola vicino casa mia, in montagna, e la sua paziente lettura per la successiva ora e mezzo. Scartavo tutto eccitato la prima pagina, sul letto di casa mia, meravigliato dall'icastica semplificazione delle trattative più importanti nei "borsini" colorati di pagina 2. Poi, saltavo le millemila pagine dedicate alla Juventus per arrivare a quelle che parlavano di Milan, Inter e soprattutto Torino.

 

In pratica, parte della mia adolescenza calcistica è stata irrimediabilmente condizionata dalle ansie ed eccitazioni dei tifosi del Torino fra il 2002 e il 2003; ansie ed eccitazioni che si esplicitavano nelle enormi aspettative nutrite nei confronti di due giocatori: Fabio Quagliarella ed Emanuele Calaiò. Quagliarella e Calaiò sembravano due giocatori imbattibili, indistruttibili, fortissimi. Venivano entrambi da due prestiti deludenti, rispettivamente da Chieti e Pescara. Eppure, entrambi avevano fatto gran cose nella primavera del Torino, anni prima, e Tuttosport sospirava al pensiero di trovarli assieme, magari fra qualche anno, titolari nella squadra A (sarebbero esplosi l'anno successivo, nelle stesse squadre di cui facevano parte l'anno prima). Nei confronti di Quagliarella, di conseguenza, ho sempre avuto una certa costante diffidenza, figlia dell eeccessive aspettative inculcatami da Tuttosport. Da anni lo vedo alternare cose pazzesche e gran gol (per ultimo, ad esempio, quello contro il Napoli) a prestazioni scialbe.

 

https://www.youtube.com/watch?v=qIt9FhxYy9k



 

Lasciando perdere le mie seghe mentali, Quagliarella mi fa anche un po' tristezza: è arrivato a un'età nella quale essere una promessa mantenuta non è più una potenziale gran storia (di quelle che io adoro: se Stefano Okaka quest'anno avesse a un certo punto la possibilità di diventare capocannoniere, tipo, comincerei a guardarmi tutte le partite della Samp). Sinceramente, poi, non ho ancora capito in che modo possa incastrarsi nel 3-5-2 di Ventura: è meno prima punta di Immobile - che però l'anno scorso aveva compiti anche molto diversi - eppure ha giocato in quel ruolo supportato da due specie di trequartisti come Perez e Benassi contro la Fiorentina, segnando un gol da vera prima punta, e contro il Napoli, con Larrondo come seconda punta ed El Kaddouri sulla trequarti. A quanto ho capito, però, l'idea di Ventura sarebbe quella di farlo giocare assieme ad Amauri - uno dei pochi veri centravanti rimasti in Serie A, sebbene in palese disarmo - come seconda punta. In una delle recenti partite giocata assieme dai due, quella contro il Verona in casa, hanno giocato molto vicini - probabilmente troppo vicini: e infatti le occasioni migliori sono arrivate sui cross dalle fasce.

 

Credo anche io, come dici, che affidarsi alla voglia di rivalsa dei due mi sembra un'argomentazione pigra (e infatti penso che girerò al largo dalla gran parte dei pezzi sportivi prima di Juve-Toro); Quagliarella, forse, potrebbe avere qualche motivazione in più per via della mezza apertura che gli ha fatto Conte riguardo a un suo impiego in nazionale (forse dovuta più alla familiarità dello stesso Conte nei confronti di Quagliarella). Mi chiedo davvero però, arrivati a questo punto, quale possa davvero essere l'obiettivo di stagione della squadra: salvarsi con un certo anticipo? Attendere i nuovi acquisti e sperare di iniziare un ciclo alla Udinese, vendendo i giocatori appena esplosi?

 


Per metter su dei cicli come quelli dell’Udinese non ci vorrà la luna, è vero, però ci vuole il Pozzo, quello sì. E Cairo, mi pare pacifico, è sempre stato tutt’un altro tipo di presidente (di quelli che non perdono occasione per versare sul piatto del colpo preso al risparmio il melenso condimento allo sciroppo d’acero dell’esperienza, ché c’è l’Europa League; anche se ultimamente l’ho sentito aprire anche ai giovani, parlare di progetto). Non che voglia fargliene una colpa, però, intendiamoci: lo capisce pure Jacques de la Palice che il Torino Calcio, i suoi tifosi, la storia di questa società, le esigenze della piazza (tutto comprensibile, al lordo peraltro di una rivalità cittadina che incute ansia da prestazione immediata) non sono quelli dell’Unione Sportiva Udinese: a Torino non hanno i tempi comodi dei bianconeri friulani. Con il massimo rispetto, chiaro.

 

Ora fammi dire una cosa sulle familiarità tra giocatori e allenatori, che hai sollevato parlando del rapporto tra Quagliarella e Conte e che potrebbe essere il presupposto su cui fondare un’apertura del CT della Nazionale nei confronti del neogranata, e quindi - in linea teorica - una particolare fame, in questa stagione, da parte dell’attaccante napoletano. Perché poi nel nostro calcio sembra sia una pecca, e invece non lo è: sono molti gli allenatori che quando trovano un calciatore funzionale alle proprie teorie calcistiche, che riesce a incarnare lo spirito tattico del Mister e traslarlo in campo, cominciano a esigerlo a tutti i costi, ad affezionarvicisi. Lo stesso Ventura, per dire, nell’ultimo scorcio del millennio passato s’era invaghito calcisticamente di Francesco Palmieri, che aveva allenato alla Centese (fine anni ’80) e che aveva richiesto a Semeraro per il Lecce della doppia promozione, tra il 95 e il 97, prima di trovarselo anche a Genova nell’anno della scalata verso una promozione in Serie A sfumata all’ultima giornata (ho tirato fuori Palmieri perché per certi

mi ricorda molto proprio Quagliarella).

 

L’assortimento degli attaccanti, sulla carta, e anche sul campo se vengono schierati nei ruoli in cui sanno offrire il meglio, non è poi così male: però Amauri e Quagliarella dovrebbero dimenticare come hanno giocato (e Ventura come li ha fatti giocare) contro il Verona, perché così rischiano di sembrare l’uno il perfetto clone (tatticamente parlando) dell’altro, e di pestarsi i piedi.

 

Più in generale credo poi che nel gioco delle somiglianze, o dovrei forse dire suggestioni, Quagliarella abbia comunque una predisposizione naturale più a fare il Cerci, che non l’Immobile

 

Fare discorsi sulla salvezza-prima-possibile-poi-si-vedrà aveva senso l’anno passato (tipo a Marzo ricordo che Ventura disse qualcosa come «dimentichiamocela l’Europa, siamo troppo molli, pensiamo ai 40 punti che servono per salvarsi», cito a memoria), non dopo una stagione in cui hai conquistato una qualificazione in Europa: sarebbe sminuire le proprie ambizioni, e neppure qua Cairo mi sembra troppo il presidente giusto. È altrettanto vero che bissare l’exploit del 2014 mi pare molto difficile. Ad oggi la mia unica e sola speranza è che il Torino, che è nella parte sinistra del tabellone, non arrivi così in fondo da doversi giocare la finale della Coppa Italia contro la Roma, perché ho appena somatizzato, vecchio fardello di terrore teenageriale, il ricordo di Andrea Silenzi che ne fa tre. Piuttosto gli auguro di farsi guidare dal loro capitano per le strade di una Varsavia tutta ammantata di granata dopo aver sollevato il trofeo dell’Europa League. Anche se poi i tempi non sono più quelli di Martin Vázquez, Scifo, Lentini e Casagrande, no? Oppure c’è da credere che il Toro possa tornare a

toreri come fece (nell’ultima apparizione europea prima di quest’anno) in quella

chiamata Delle Alpi? Me lo chiedo seriamente, perché ho diversi amici del Toro che basta una vittoria per rinfocolare il loro entusiasmo (in questo somigliano molto ai romanisti); e presi in quell’istante, a sentir loro, si potrebbe vincere ovunque, anche su Marte, figuariamoci a Varsavaia.

 


Ci pensavo anche io, a una eventuale proseguimento del percorso in Europa League: il problema, però, mi sembra che non abbiano nessuna possibilità di arrivare - diciamo - più avanti dei quarti, ad essere larghi. Fa differenza essere eliminati al girone, ai sedicesimi, agli ottavi? Non so.

 

Fossi un tifoso - piuttosto realista, va detto - del Torino, riconoscerei la stagione perfetta al compimento di queste tre mosse:
- Eliminazione dignitosa dall'Europa League: agli ottavi, ai quarti, contro una semi-grande (una terza del girone di Champions, il Celtic, il PSV)
- Esplosione e conservazione in rosa di uno o più fra i nuovi acquisti (di quelli che ancora devono inserirsi)
- Piazzamento fra le prime dieci in Serie A, e parallele vittorie-ottenute-col-gioco contro una o più fra Milan, Inter, Lazio, Fiorentina.

 

Nel caso si realizzassero tutte e tre, credo che Cairo si vedrebbe quasi costretto a tentare di rinforzare ulteriormente la rosa, avviando una specie di circolo virtuoso per cui - la sparo - giocatori sempre migliori saranno tentati sia dalla piazza più attraente che in passato sia dalla nuova e maggiore disponibilità economica.

 


Ho provato a scaricare da uTorrent questo film che dici, “

”. Dev’essere una pellicola fantascientifica. C’è quella scena bellissima in cui al novantesimo di Torino-Cesena la Curva Maratona applaude. Il Toro sta chiudendo il campionato al decimo posto, dopo un pari scialbo contro i romagnoli; ci sono flashback di quando la squadra è uscita dall’Europa League, ai quarti, contro la Juventus retrocessa dalla Champions per essersi qualificata terza nel suo girone (la voce fuoricampo di un tifoso che si chiama Diego dice “Volevo vincerla, la coppa”; poi c’è l’inquadratura a campo stretto sugli occhi di Valentina, “sarebbe stato meglio uscire alla fase a gruppi, non si può sognare così alto”).
Non lo so, m’ha un po’ annoiato. Non era molto verosimile: per una squadra che s’è qualificata per le Coppe Europee nella stagione precedente (ok, non

sul campo; ok, con lo psicodramma; eppure tutto meraviglioso soprattutto per via dello psicodramma) l’asticella è irrimediabilmente già fissata. Stazionare nella colonna di sinistra della classifica ha senso se te ne lasci dietro almeno tre o quattro, altrimenti non ha senso per niente.

 

Credo che Cairo sarà costretto comunque a rafforzare la rosa. Se non a Gennaio, di certo a fine stagione. Il che non significa che debba spendere poi tutti questi soldi. Potrebbe esercitare l’opzione di riscatto di El Kaddouri (Ventura ne sarebbe contento, l’invettiva è solo

per testimoniare affetto). E poi alcuni talenti in casa ce li ha, dovrà solo provare a non farseli strappare dal canto delle sirene: a me, per esempio, Gastón Silva piace molto (qua segna un gol su punizione ai Mondiali U17 del 2011 che ricorda certe staffilate di Policano), sono sicuro che un po’ di cera nelle orecchie (imbevuta della Storia Gloriosa del club) e corde ben salde all’albero maestro (evergreen) renderanno l’incombenza sopportabile.
Non potrà essere altrimenti. Perché alla fine della fiera lo sa anche Cairo che “

” è e rimarrà uno di quei film da passare nelle notti d’estate tardissimo su La7, uno di quei film che nessuno guarda (e che oggettivamente, in effetti, non si capisce proprio perché l’abbiano girato).

 

 

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