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Guida al Mondiale: Uruguay
10 giu 2014
10 giu 2014
Schiacciata da un passato troppo grande, la Celeste dovrebbe cominciare a guardare avanti. Alla guida c'è Tabárez, l'uomo giusto, "el Maestro" che "allena le persone e non le stelle".
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LA STORIA CAMBIA O SI RIPETE?

Se fossimo a metà degli anni ’30, il Gruppo D, quello composto da Inghilterra, Italia e Uruguay (con contorno di Costa Rica) sarebbe il più tremendo dei gironi, ed il più atteso degli spettacoli. Gli inglesi allora erano ancora i maestri del gioco e si permettevano persino di non partecipare ai Mondiali; la Nazionale italiana aveva appena iniziato il miglior ciclo della sua storia (due titoli Mondiali e un'olimpiade), e l’Uruguay era la squadra sudamericana più forte: campione olimpico nel 1924 e nel 1928, campione del Mondo nel 1930, campione americano del 1935, e basta così solo perché aveva boicottato i Mondiali europei.

Nel 2014 la situazione è radicalmente diversa per tutti e tre: nessuno si aspetta spettacolo da queste sfide, anzi, e nessuno pensa che queste tre squadre potranno vincere il Mondiale.

Però l’Uruguay è al centro dei pensieri di molti, e il suo nome ricorre sempre di più all’avvicinarsi dell’evento. La Nazionale uruguaiana deve sentirsi come il pronipote di un grande eroe di guerra a un raduno di nostalgici: l’attendono tutti con ansia, ammirazione e anche un po’ di timore, ma il protagonista non sa neppure troppo bene perché, o ne ha un ricordo molto vago.

L’Uruguay è un Paese appena più grande del Suriname, e con una popolazione minore di quella della Costa Rica, eppure è una potenza Mondiale nel gioco del calcio, e nessuno si sognerebbe di vedere la Nazionale uruguaiana perdere contro quella costaricense.

Eppure, è proprio quello il rischio più grosso: la “Celeste” spesso sottovaluta le squadre minori, tanto da aver pareggiato con la Giordania nel ritorno dello spareggio per la qualificazione ai Mondiali (all’andata aveva vinto 5-0, per capire il livello della selezione giordana). Quattro anni fa, rischiò di non andare in Sudafrica proprio per colpa della Costa Rica (uno striminzito 2-1 tra andata e ritorno). Quest’attitudine si evidenzia spesso nelle qualificazioni per la Coppa del Mondo: anche quest’anno, come nel 2002 e nel 2010, c’è stato bisogno degli spareggi.

Con queste premesse, la Nazionale di Tabárez dovrebbe avere ben poche speranze di arrivare fino in fondo. Al massimo, potrebbe essere considerato un dark horse, o “tapado”, come dicono loro. Però questa è la stessa squadra che è arrivata quarta nel 2010 ed ha vinto la Coppa America nel 2011; e poi, il Mondiale si giocherà in Brasile, ed è già successo una volta, ed è andata come tutti ormai sapete. Quello del 1950 è un mondo che semplicemente non esiste più, è cambiato tutto, anche l’Uruguay, anche il Brasile, come Paesi e come culture calcistiche. Paradossalmente, il fantasma del 1950 rischia di danneggiare proprio l’Uruguay.

Un video sul fantasma del 1950 che spaventa la gente. I fantasmi non esistono, però questo in Brasile c’è andato sul serio. Beato lui.

IL MAESTRO E (LA) CELESTE

Nel marzo del 2006, quando molte Nazionali cominciavano a prepararsi per i Mondiali tedeschi, l’Uruguay e Óscar Washington Tabárez condividevano la stessa sorte: quella di due ex grandi innamorati, tristi e un po’ amareggiati, che dopo una serie di esperienze diverse non hanno trovato il coraggio di dirsi che erano e sono fatti l’uno per l’altra, e non c’è altro modo per essere felici. L’Uruguay giocava un Mondiale sì e l’altro no, senza particolare successo: non si era qualificato per quello del 2006 ed era una squadra sostanzialmente anonima. Tabárez, dopo esperienze nel Cagliari e nel Milan (dove venne esonerato e rimpiazzato dal suo mito Arrigo Sacchi) e un infruttuoso ritorno al Boca Juniors, era ormai da anni senza panchina, e svolgeva il fantomatico ruolo di osservatore FIFA: era fuori dal giro in un modo che sembrava definitivo. Fu così che la Federazione, per ricostruire una Nazionale che non si era neppure qualificata per il Mondiale tedesco, decise di richiamare proprio lui, Óscar. Si innamorarono di nuovo: dal 1988 al 1990, infatti, erano stati insieme con buoni risultati, un secondo posto nella Coppa America (persa contro il Brasile padrone di casa…) e l’eliminazione agli ottavi di finale a Italia ’90, proprio contro di noi. La scintilla è scoccata subito, di nuovo: semifinale nella Coppa America 2007 (persa ai rigori contro il Brasile), e semifinale al Mondiale del 2010 (sconfitta per 3-2 dall’Olanda). Gli uruguaiani hanno dovuto aspettare vent’anni per rivedere la Celeste a buoni livelli; quasi quanto Tabárez per raggiungere di nuovo la grande ribalta internazionale (dopo la vittoria nel Torneo Apertura del 1992 con il Boca, una lunga serie di insuccessi, ad eccezione del nono posto con il Cagliari del 1995). L’amore come incontro tra due infelicità.

Tabárez è il classico allenatore triturato dal sistema calcistico italiano: troppo riflessivo, odia le frasi fatte, non aggredisce l’interlocutore, pensa che il risultato sia meno importante del cammino percorso per ottenerlo.

Lo chiamano “El Maestro”, ma non è il solito soprannome: Tabárez era davvero un insegnante, anche quando giocava a pallone. Era un modesto difensore del campionato uruguaiano, e per guadagnare qualche soldo in più andò a giocare anche un anno in Messico. A 32 anni si ritirò, e si accorse che quel mestiere non gli aveva garantito niente: la carriera da maestro non era redditizia, e si ritrovava senza un soldo nelle tasche: a malapena era riuscito a comprarsi una casa, dove viveva con la moglie e tre figlie. Non aveva neppure i soldi per andare allo stadio, e ascoltava le partite da una radiolina. I ragazzi del quartiere lo cercavano per parlare di calcio e chiedergli consigli. Fu allora che decise di iscriversi al corso per diventare allenatore, su suggerimento degli amici: in fondo era un maestro e conosceva il gioco del calcio, sembrava una combinazione perfetta. Tabárez lo fece perché aveva bisogno di una nuova fonte di reddito, e mai avrebbe pensato di arrivare fino a questi livelli. Gli serviva un lavoro, e amava il calcio.

La Coppa America vinta con l’Uruguay in Argentina, nel 2011, è il coronamento di una carriera basata sempre sugli stessi principi: “Juego, resultado y comportamiento”. Tabárez, il secondo allenatore più anziano del Mondiale dopo Fabio Capello, è riuscito a disciplinare anche un po' la squadra, che rimane molto grintosa ma è almeno uscita dallo stereotipo della garra charrúa che aveva impantanato l'immagine e la maniera di giocare della Celeste. Siamo arrivati all'assurdo di un premio fair play a Lugano nella Coppa America del 2011, che come disse "El Loco" Abreu era come dare il premio Nobel per la pace a Bin Laden. Ma insomma, qualcosa è cambiato, anche nella mentalità. La loro grinta è adesso un modo di giocare, quando serve, non un modo di essere.

Tutti i giocatori sono uguali, come si deduce da una delle frasi più citate del Maestro: “Io alleno le persone: le uniche stelle che conosco si trovano nel firmamento”. Con quella vittoria, l’Uruguay è diventata la Nazionale che più volte ha vinto la Coppa America, ben 15: un Paese con 3,5 milioni di abitanti che comanda su un continente di 360 milioni di persone.

Il ruolo di fortuna, ambizione, capacità, opportunità nella vita di un uomo che non si vergogna affatto di ricordare quando era povero. L’idea che il destino già scritto non esista, e che “Se hace camino al andar”, per citare il poeta Machado. Tutto questo in meno di 5 minuti. Riportatelo in Italia, vi prego.

CUCINARE BENE GLI INGREDIENTI A DISPOSIZIONE

Tabárez è un grande cultore dell’iniziativa di gioco: le squadre dovrebbero sempre preoccuparsi di avere una proposta in campo, cioè di provare a imporre il proprio gioco, pur adattandosi alle situazioni richieste in ogni partita. Secondo questa logica, dunque, si dovrebbero studiare gli avversari per capire e prevenire i loro maggiori pregi, ma non per adattare il proprio atteggiamento. Il suo cruccio è che questa filosofia di intendere il gioco del calcio non combacia con le risorse calcistiche dell’Uruguay. Quando hai una squadra con grandi attaccanti contropiedisti; non hai un regista ma sei pieno di rubapalloni; hai una difesa molto solida in zona centrale, allora a doversi adattare sei tu. Lo ha ammesso senza vergogna: bisogna giocare così, anche se sarebbe bello dominare come il Barcellona, perché l’Uruguay è un piccolo Paese ed i calciatori a cui può attingere sono effettivamente pochi.

Alla fine, infatti, è lui che si è adattato, perché chi ama il calcio capisce anche l’importanza della flessibilità. Questo non significa che la Celeste giochi un calcio fatto di arroccamenti, difesa chiusa, e lancio in avanti per il contropiede. I campioni del Sud America sanno stare in campo, sanno fare tutto (qualcosa meno bene), e conoscono molti moduli. Prima del Mondiale sudafricano, infatti, Tabárez usava costantemente il 3-5-2, con Forlán e Suárez in attacco, e tre centrocampisti ad aggredire il portatore avversario. Come il pallone potesse così arrivare alle punte sembra un mistero, e infatti quasi da subito l’Uruguay cominciò a giocare con il 4-3-1-2: i tre interditori a centrocampo vanno bene, ma serviva un collegamento con l’attacco. Forlán fu abbassato di posizione, diventando trequartista, con Suárez prima punta mobile e Cavani quasi da punta esterna sulla destra.

Il 4-3-3 dell’Uruguay, se Suárez riesce a tornare in tempo: Cavani sulla fascia destra è un po’ sprecato, ma d’altronde serviva un modo per far convivere i tre giocatori più forti della squadra senza sbilanciare la squadra. Forlan spesso gioca da trequartista, ma svaria su tutto il fronte.

Questo è l’assetto standard di gioco dell’Uruguay da quattro anni: a volte i ruoli si possono invertire, come accadde in Confederations Cup contro la Nigeria, quando sorprendentemente Cavani giocò da prima punta e Suárez da esterno destro, con Forlán punta esterna a sinistra (un tridente vero e proprio, insomma). Tabárez cambia spesso posizioni ai giocatori durante le partite, e spesso anche l’intera disposizione (passando da difesa a 3 a 4 con grande rapidità).

Nonostante l’impiego del tridente, questa squadra non è nata per controllare il gioco: l’Uruguay si trova molto a suo agio quando gli altri sono in possesso palla, sia per la capacità della difesa di coprire gli spazi centrali, sia per l’abilità del centrocampo di distribuire la corsa su tutta la zona centrale. I tre attaccanti tendono a disinteressarsi completamente della fase difensiva, senza determinare uno squilibrio nella squadra: i due terzini sono molto difensivi ed hanno sempre l’aiuto degli interni di centrocampo. Arévalo Ríos, un anonimo passato al Palermo, sembra non stancarsi mai e copre tutti gli spazi. I tre davanti non rientrano perché si punta molto su transizioni offensive velocissime, con Suárez e Cavani che si posizionano sugli esterni in attesa del passaggio (spesso direttamente dai difensori), e Forlán riferimento centrale.

Nei primi due gol, l’Uruguay pressa altissimo e manda in tilt il Paraguay. Il terzo gol è una lezione di contropiede. Scacco matto.

A volte però capita anche all’Uruguay di dover affrontare squadre chiuse, e di solito va in difficoltà. In questi casi, Tabárez ha provato ad aggredire l’avversario, che viene infastidito dal pressing sulla propria trequarti, con Arévalo incollato al regista. È un sistema che ha funzionato nella finale di Coppa America contro il Paraguay, nel 2011. Nei primi 15 minuti alla squadra del Tata Martino non riusciva una combinazione di passaggi che fosse una, perché Arévalo, Pérez e González chiudevano tutte le linee, e il primo gol è frutto evidente di questa strategia, con il Paraguay che non riusciva neppure ad allontanare il pallone, che poi è arrivato a Suárez. Da quel momento, la Celeste ha potuto giocare come sempre, attendendo l’avversario ma mantenendo dei momenti di pressing offensivo. Sul secondo gol, infatti, Arévalo indemoniato ha letteralmente sradicato il pallone al regista avversario, davanti alla difesa, passandola immediatamente a Forlán solo dentro l’area. Questo approccio permette di ignorare completamente il problema dell’impostazione di gioco, perché i centrocampisti devono “solo” rubare il pallone in zona pericolosa, per poi consegnarlo a una delle tre punte. Il problema di questa strategia è che spesso la linea difensiva ha difficoltà nel salire e accorciare il campo, lasciando quindi grandi spazi tra le linee; e anche qualora dovesse salire bene, lo spazio dietro i due centrali sarebbe facilmente attaccabile da giocatori rapidi. Godín e Lugano, insomma, sono abili nella lettura difensiva, anche a palla scoperta, ma lenti nei movimenti, soprattutto se hanno 20 metri di campo alle spalle. Che la difesa sia troppo statica lo dimostra il gol fortuito incassato contro l’Austria nell’amichevole di marzo: la linea difensiva non sembra a proprio agio nell’affrontare una combinazione veloce ed anche il tentativo di mandare in fuorigioco l’attacco avversario è lento e scoordinato.

Contro Irlanda del Nord e Slovenia, le ultime due amichevoli, questa strategia è riuscita meno: l’Uruguay ha incontrato grandi problemi nell’impostare il gioco, e alla fine ha sbloccato il risultato grazie ad invenzioni individuali e calci piazzati. A proposito: con i due centrali specialisti sui colpi di testa, ma anche altri come Cáceres e Cavani, la squadra di Tabárez è una delle più pericolose su calci d’angolo e punizioni.

Il 4-4-2 dell’Uruguay, senza Suárez: Forlán non è mai troppo vicino a Cavani, è più utile come collegamento tra i due reparti. Rodríguez e Ramírez sono due esterni molto offensivi, e alla fine in campo è più verosimilmente un 4-2-3-1.

L’Uruguay ha giocato in questo modo per 4 anni, e proprio al Mondiale sarà forse costretto a giocare in tutt’altra maniera. Il giocatore più forte della squadra, e uno dei migliori al mondo dopo una stagione fantastica nel Liverpool, Luis Suárez, rischia di non esserci. A 23 giorni dall’inizio della competizione si è sottoposto ad un’operazione al menisco. Non importa, ha pensato Tabárez, e l’ha convocato lo stesso. Nessuno si sbilancia sui suoi tempi di recupero, e teoricamente può succedere di tutto: Franco Baresi, a USA ’94, tornò in campo da un’operazione al menisco dopo 24 giorni, per la finale contro il Brasile. Aveva 34 anni, Suárez ne ha 27. Insomma, non sono un medico, ma contro l’Italia, il 24 giugno, mi aspetto di vederlo in campo almeno per qualche minuto. Più difficile capire che giocatore rientrerà: sarà in grado di dare un grande apporto alla squadra, o sarà al 40%?

Mentre aspetta una risposta, Tabárez si sta preparando. L’Uruguay nelle ultime amichevoli ha giocato sempre con il 4-4-2: Forlán (alla fine, sempre un punto fermo della squadra, anche a 35 anni, anche se ormai gioca in Giappone nel Cerezo Osaka) e Cavani davanti, “Cebolla” Rodríguez sulla sinistra e Gastón Ramírez sulla destra. In questo modo, l’Uruguay cerca di dare più ampiezza al suo gioco, e di sfruttare di più le fasce, di solito usate solo per le transizioni veloci di Suárez e Cavani. In campo, questo modulo è parso però molto fluido, o forse ancora un po’ disorganizzato: Ramírez, mancino ex Bologna, tende ad accentrarsi troppo per andare al tiro; Forlán preferisce cercarsi lo spazio tra le linee, per creare gioco sulla trequarti. Alla fine, sembra più un 4-2-3-1, con i due centrocampisti centrali spesso troppo soli e presi in mezzo dagli avversari. Non so se Tabárez rischierà un’inferiorità numerica tanto evidente contro il centrocampo italiano: forse sulla fascia destra potrebbe giocare González, con Gargano centrale di centrocampo a dare almeno un minimo di impostazione di gioco. L’alternativa sulla fascia destra potrebbe essere anche Stuani, attaccante dell’Espanyol, che sembra in un periodo di grande forma e potrebbe essere la sorpresa dell’Uruguay: 4 gol in 10 partite con la Nazionale, è una seconda punta ma sull’esterno si danna l’anima; in area di rigore è molto pericoloso, nonostante la sua non sia una carriera da goleador (un anno anche nella Reggina, a 22 anni: anonimo è dir poco), e Tabárez dice che ha un fiuto del gol innato. Finora è stato provato sempre come esterno destro, quasi a ristabilire il 4-3-3, modulo che la squadra interpreta a perfezione.

In conclusione, l’Uruguay è una squadra molto solida, un gruppo molto unito guidato da un allenatore preparato: un calcio semplice ma efficace, una flessibilità tattica che impressiona per la capacità dei giocatori di giocare in più ruoli; tanti problemi con l’impostazione di gioco e nel difendere la porta da combinazioni veloci. L’assenza di Suárez potrebbe essere decisiva, ma l’Uruguay non è una squadra che dipende esclusivamente dai singoli come accade ad altre Nazionali. L’unico insostituibile è l’allenatore.

Obdulio Varela parla con la voce di Toni Servillo che recita Soriano.

CONCLUSIONI

Da quando c'è Tabárez, questa squadra ha giocato 4 tornei ufficiali (2 Coppa America, un Mondiale e una Confederations Cup), ed è arrivata sempre almeno in semifinale. Il gruppo è sempre lo stesso, e questo alla fine potrebbe contare, nel bene e nel male: l’Uruguay è una squadra vecchia, e forse un po’ logora (ci sono molti dubbi sulla tenuta atletica di Forlán e Lugano).

L’Uruguay, se davvero punta a vincere il Mondiale, dovrebbe riflettere sulle conseguenze del successo del 1950, che ha annientato il suo movimento calcistico per più di mezzo secolo, salvo sporadiche e geniali eccezioni (vedi l’era Francescoli). In generale, si è preferito rifugiarsi nella nostalgia di un’epoca d’oro, invece di lavorare per capire quale futuro potesse avere il calcio in Uruguay. Quel Mondiale ha fatto più male a chi l’ha vinto, e ormai è un dato di fatto. Le generazioni successive di calciatori, schiacciate da un passato tanto grande, non sono mai riuscite a raggiungere un livello calcistico d’élite.

Forse la vittoria non è davvero importante; come dice Tabárez, l’importante è il cammino e le difficoltà che si superano. Potrebbe essere un sentimento peculiarmente uruguaiano: anche il capitano di quella grande squadra campione del mondo, Obdulio Varela, rimuginò a lungo sul fardello morale della vittoria, e queste sono le parole che Osvaldo Soriano gli attribuisce in uno splendido racconto-intervista pubblicato il 16 luglio del 1972 nel supplemento culturale del giornale La Opinión:

“[…] Loro avevano preparato il carnevale più grosso del mondo per quella sera e se l’erano rovinato. A sentire quel tizio, gliel’avevo rovinato io. Mi sentivo male. Mi sono accorto che ero amareggiato quanto lui. Sarebbe stato bello vedere quel carnevale, vedere come la gente se la spassava con una cosa così semplice. Noi avevamo rovinato tutto e non avevamo ottenuto niente. Avevamo un titolo, ma cosa importava in confronto a tutta quella tristezza? Ho pensato all’Uruguay. Là la gente doveva essere felice. Ma io ero a Rio de Janeiro, in mezzo a tutte quelle persone sconsolate. Mi sono ricordato del mio odio quando ci avevano segnato il gol, della mia rabbia, che adesso non era più mia ma mi faceva male lo stesso.

[…]Se adesso dovessi giocare di nuovo quella finale, mi segnerei un gol contro, sissignore.”

(Osvaldo Soriano, Artisti, pazzi e criminali, Einaudi, 1996)

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