“Sono più forti di noi, della nostra generazione, hanno più esperienza. Ti dico, arriveranno lontano, dove nessuno di noi è mai arrivato. Fidati, vedrai.” Eravamo ancora nel periodo delle qualificazioni a Brasile 2014, quando Iván Ramiro Córdoba mi sorprese con queste parole. Più forti? Della squadra del Pibe Valderrama, del Tino Asprilla? Ma dai. Si parlava del movimento colombiano, giù nella hall della Pinetina di Appiano Gentile, dove Córdoba è rimasto anche dopo aver appeso gli scarpini al chiodo, per fare il Team Manager dell'Inter. “Hanno più esperienza, tanti di loro sono andati via presto dal Paese, hanno fatto esperienze formative. Sono cresciuti, come uomini e come giocatori. Sono più professionisti.”
Il sito della Lega colombiana mi aveva chiesto un'intervista a Córdoba: Iván mi aveva raccontato dei suoi esordi al Rionegro (città che ha dato i natali anche a personaggi decisamente meno nobili di Iván), dell'infortunio che gli aveva tolto una semifinale di Libertadores, cosa che lo aveva riempito di delusione: non poter dare il proprio contributo all'Atlético Nacional e dare fiato a una piccola pattuglia di poveretti che sibilavano come il difensore si fosse risparmiato, in vista del prossimo passaggio al San Lorenzo, in Argentina. Poi, certo, abbiamo parlato della Nazionale colombiana, della possibilità di Bielsa, del mancato accordo con il Tata Martino e dell'avvento di Pekerman. Sull'A8 che mi riportava a Milano però continuavo a pensare a quel “sono più forti, arriveranno lontano”.
Come succede in tutte le terre latine, seppur con diverse gradazioni, anche in Colombia si vive questa dicotomia di forte patriottismo e scarsa fiducia nelle potenzialità del Paese, della gente che vive il Paese. Così, se si ha di fronte uno straniero, soprattutto se non conosciuto, si tende a evidenziare la carica di patriottismo. Specie in Colombia, che vive da anni il pregiudizio indegno, l'etichetta appiccicata di Paese di narcotrafficanti, anche dopo che la legge sull'estradizione ha chiuso quella brutta parentesi. Il grande Joaquín Sabina è amatissimo anche in Colombia, ma durante un suo concerto a Bogotá ha osato svillaneggiare Shakira. Arrivista, furba, quello che c'è da dire alla moglie di Piqué: ci pensiamo noi, caro andaluso. Sono piovuti fischi, e il genio di Ubeda ha immediatamente attaccato una sua hit per stemperare la situazione. Evitare, por favor. Poi però, davanti a una arepa, sono lì a lamentarsi: “Antanas Mockus è stato uno dei più grandi sindaci di una metropoli nell'ultimo quarto di secolo, è bravo ed onesto e noi non gli abbiamo mai fatto guidare il Paese. E ora ci tocca un ballottaggio tra Santos e Zulueta, la marionetta di Uribe... Noi abbiamo celebrato il Premio Nobel García Márquez adesso che se n'è andato, ma prima lo abbiamo fortemente criticato...” E via così...
Lo storico 0-5 della Colombia al Monumental di Buenos Aires.
Guardo sempre le partite della Nazionale “cafetera”, e mi è capitato di intervallarle con immagini della Nazionale storica, quella della Rosca Paisa (con l'aggiunta di un costeño doc come Valderrama) di Pacho Maturana, una della più moderne squadre di fùtbol della storia. Quelli dello 5-0 rifilato all'Argentina, al Monumental, prima del Mondiale del '94, mi sembrano irripetibili. “Cordoba è un caballero, e ha ragione: questi sono più forti perché sono veri calciatori professionisti, hanno più struttura, più capacità di adattamento, hanno giocato più sistemi, in tanti Paese differenti. Sono più pronti”, mi racconta Diego, un amico colombiano. Me lo sento ripetere ovunque sulle Hyundai gialle, sede di interminabili dibattiti: se ne sono andati tanti pesos in più (malditos...), ma dai tassisti colombiani si impara sempre tanto. In Colombia sono fioriti tanti talenti negli ultimi anni: li riconosciamo anche perché sono un po' ovunque, molti in un campo vicino a casa nostra.
L'ex tassista argentino José Pekerman, che oltre a vincere titoli in serie con le selezioni giovanili argentine, ha giocato alcune stagioni a Medellin, al DIM, negli Anni Settanta, e ha plasmato a meraviglia la Nazionale cafetera, in questi anni. Perché i talenti bisogna assemblarli. Dopo il fallimento della trattativa con il Tata Martino, Pekerman appariva a tutti come una scelta dettata dallo scarso budget. E invece è perfetto per costruire, un tecnico del genere. Sordo a pregiudizi e critiche iniziali, ha camminato a testa alta solo col conforto dei risultati. C'ero anch'io nella sala stampa del Campín di Bogotá il giorno in cui Mariana Pajón vinse la medaglia d'oro alle Olimpiadi di Londra. Tutti i giornalisti erano concentrati su computer e tablet. “Vai Mariana!, Viva Colombia”, e poi baci abbracci, alla manche decisiva di Mariana, che con la sua BMX ha staccato tutti, come gli capita sempre. Pekerman mi guardava: era entrato in sala da cinque minuti e io ero l'unico a contraccambiare lo sguardo (poi Mariana l'ho vista anch'io: grandissima!). C'era, ma non esisteva per nessuno. L'addetta stampa della Federazione colombiana, dopo le urla di giubilo, ha dato la parola al Profe José, che si è subito complimentato con la Colombia per l'ennesima medaglia. “Ha sbagliato il numero di medaglie!” mi ha detto sottovoce un collega colombiano, qualche nanosecondo prima che un paio di urli esprimessero ad alta voce lo stesso disappunto. Il tema dell'incontro era la situazione della Selección Colombia, prima di alcune difficili trasferte. Non ricordo nemmeno una domanda accondiscendente, ma benissimo ho in mente l'accento portegno che fieramente replicava, senza però quell'eccessiva spavalderia dei suoi concittadini. “Non ha rispetto, crede che qui non si capisca nulla di fútbol”, mi aveva poi confidato un giornalista che va per la maggiore nelle tv colombiane. Ambientino, eh. Ma i risultati erano lì, incontestabili: la Colombia tornava al Mondiale, senza mai rischiare veramente di rimanere fuori. C'è stata una gara che ha fatto tremare un po' tutti, il giorno della festa per la qualificazione. Il Cile di Sampaoli, la squadra più interessante del prossimo Mondiale, era andata avanti 3-0 a Barranquilla.
La partita che ha fatto tremare i colombiani.
Riporto la cronaca che scrissi poco dopo il match:
Il 4-4-2 di Pekerman non aveva il dinamismo necessario, trovava coi tempi sbagliati gli esterni, James Rodríguez e Cuadrado, che dovevano innescare l’azione offensiva. Dietro soffriva tremendamente, anche per errati movimenti nelle uscite per il pressing (che viene pure cercato in zona medio-alta), e per i disastri nelle spaziature sulle transizioni difensive. Sotto di tre reti Pekerman, rimane lucido: modifica la struttura in un 4-3-1-2 con James alle spalle di Falcao e Teó Gutiérrez e inserisce Guarín e Macnelly per giocare da mezzeali al fianco di Carlos Sánchez, fisso davanti alla difesa. Cuadrado retrocede a terzino (dove è pesata molto l’assenza di Zuniga), e la partita cambia, anche per l’intensità e la voglia ritrovata dei cafeteros, che vanno più volte vicino alla rete. La gara è già mutata d’inerzia quando, al 66′, Carmona colpisce la palla con la mano e si prende il secondo giallo. Lì Pekerman è svelto nel cambio: fuori Saánchez, dentro un altro attaccante, Carlos Bacca, per un rischiosissimo 4-2-3-1, con Guarín e Macnelly in mediana. Coraggio premiato, merito pure della tenacia di Armero, che mantiene viva una palla quasi persa (errore dell’appena entrato cileno Rojas) e trova al centro Gutiérrez, che segna il gol di inizio rimonta al 69′. Il Metropolitano è una bolgia, e il Cile difende male il vantaggio, con l’uomo in meno. Due rigori (il primo, al 75′, dubbio, il secondo, all’84′, netto) entrambi per falli subiti da James Rodríguez, entrambi realizzati da Falcao, mandano in Paradiso la Colombia.
Quella gara, segnala il passo avanti mentale della squadra. Non più assieme di talento, ma monolite dotato di certezze. Merito soprattutto di Pekerman, che ha cesellato fino a farne una struttura perfetta. Un portiere affidabile come Ospina (l'immenso Mondragon gli farà da chioccia e suggeritore), due esterni di spinta da scegliere tra Santiago Arias, Juan Camilo Zúñiga (uomo in più, capacità di offrire qualità su entrambe le fasce) e Pablo Armero e la coppia di centrali dove l'unico certo è il capitano Mario Yepes (in vantaggio Valdés anche perché Amaranto Perea non è al meglio, e il giovane Balanta è da poco entrato nel giro). In mezzo, due “volantes de marca” (dai quali è escluso per infortunio Edwin Valencia), il cui ruolo di riequilibrio tattico è fondamentale, in una squadra che ha molta qualità offensiva e può giocare bene sia la fase di prima transizione, sia l'attacco a difesa schierata.
Fondamentale era il ruolo di Radamel Falcao Garcia, un giocatore che ha avuto una evoluzione formidabile, in termini di letture di gioco, e in area è unico, in quanto a pericolosità. Pekerman nella struttura ha implementato in maniera ormai fissa Juan Cuadrado, inizialmente utilizzato come giocatore di rottura, da inserire a partita in corso (oggi è invece il ruolo di Fredy Guarín oppure di Victor Ibarbo, meriterebbe una chance Juanfer Quintero): l'attuale viola, con l'assenza di Radamel diventa ancora più importante per “aprire” la partita in due, con una iniziativa individuale, permessa all'interno di un generale equilibrio di squadra. Con James Rodríguez ovviamente schierato tra gli undici, nonostante una stagione al di sotto delle sue possibilità e non solo per sua responsabilità, altro giocatore chiave è Teófilo Gutiérrez, bravo a giocare negli spazi creati da Radamel, di cui è certamente il partner ideale. Senza il centravanti del Monaco, Teo (un genio del fútbol finito nel corpo di un bandito) rimane sempre importante, anche perché ha caratteristiche di gioco uniche e potrebbe comodamente rimanere negli undici.
Sostituire Falcao rimane un problema, anche se la batteria di centravanti colombiana è di buonissimo livello. Se Jackson Martínez rimane il naturale favorito, negli ultimi tempi sono salite vertiginosamente le quotazioni di Carlos Bacca, reduce da una stagione strepitosa a Siviglia, dove è sembrato far risorgere Luís Fabiano (non ha la tecnica del ragazzo di Campinas, ma lo ricorda in movenze e tipologia di gioco). Più distanziato Adrián Ramos, che Klopp ha scelto dopo la dipartita di Lewandowski, per il suo Borussia.
CONCLUSIONE
Perdere Radamel è un problema, il problema. Non si tratta solo di rivedere una serie di situazioni di gioco; questo aspetto è decisamente sovrastrutturale. Manca qualcosa ad una macchina perfetta che Pekerman aveva assemblato, manca quella certezza di aver lui davanti. Una mancanza che pesa. E che fa ripensare a quella mancanza di fiducia, a un destino minore già assegnato. Nairo Quíntana ha mostrato, sulle strade d'Italia, che quel complesso può sparire e Falcao, pochi secondi dopo ogni tappa decisiva, era lì a ricordarlo a tutti i suoi connazionali, con dei tweet celebrativi. “Sono più pronti, più professionali, sono la Colombia più forte di sempre, arriveranno lontano.” Penso ancora a quella frase di Cordoba. Non arrivo a convincermi, ma sono curioso: dai grandi come Iván Ramiro c'è sempre da imparare.