Guida alle Finals NBA 2017
I temi tattici, i personaggi e le trame più interessanti del terzo episodio della trilogia tra Golden State e Cleveland.
La rivincita di Steph Curry
di Daniele V Morrone
«La nostra identità si basa sul collettivo: il movimento della palla, dei giocatori, usare il talento di tutti per creare ottimi tiri. Ma quando hai situazioni dove non c’è ritmo e devi fare la giocata… è per questo che ci siamo noi». Questa frase di Steph Curry al termine di gara-1 di finali di conference contro i San Antonio Spurs, dove si è acceso con 19 punti nel terzo quarto per annullare il vantaggio avversario dopo l’infortunio di Leonard, ma può valere come monito per le Finali contro i Cavs.
Questi playoff per Curry sono stati un lungo avvicinamento verso la finale, un affilare le armi se vogliamo. Curry ha comprensibilmente sviluppato una vera ossessione per gara-7 delle scorse finali, visto com’è finita e il fatto che lui non accetti che non fosse al 100% al momento di giocarla, stanco dopo una stagione infinita e ancora in ripresa dall’infortunio subito nei playoff. I Cavs hanno giocato su questo, coinvolgendolo sempre in difesa e attaccandolo forte quando con palla: una strategia vincente che ha lasciato degli strascichi ben oltre gli sfottò per il 3-1 sprecato. Curry ha giocato una pessima gara-7 che ancora adesso lo tormenta, a partire dalla brutta palla persa con il tentativo di passaggio dietro la schiena per Klay Thompson e la tripla contestata da Kevin Love che avrebbe potuto rispondere a quella iconica di Irving.
Inutile negare quanto quella gara-7 abbia influito sulla narrativa di questa stagione di Curry. Ora non è più in lizza per essere il miglior giocatore della serie ed è in discussione quello anche di miglior giocatore della sua squadra. Ma se c’è una cosa che ha sempre fatto in questi anni è stato quello di sapere quando sacrificare il proprio status per il bene del gruppo. L’ha fatto nelle prime finali vinte, in cui ha accettato il ruolo di vittima sacrificale e di scaricare i palloni quando raddoppiato, e in questa stagione in cui ha iniziato da subito a far integrare Durant, modificando la sua routine di gioco accettando che fosse un altro a prendersi il tiro caldo quando il ritmo delle giocate non decollava (anzi, il più delle volte è stato proprio Durant a prendersi tre/quattro conclusioni consecutive).
Non è un caso però che abbia alzato il livello di gioco proprio sul finale della regular season in concomitanza con l’assenza di KD, per arrivare a giocare dei playoff in crescendo e tenendo un’efficienza irreale: sta tirando col 62% di percentuale effettiva, ben oltre il suo massimo del 57%, e solo in una partita ha tirato sotto il 40% (gara-3 contro Utah) – il tutto pur rimanendo sempre sopra il 20% di Usage. Curry è ben consapevole che si riproporrà la stessa situazione tattica dello scorso anno nei suoi confronti, e ha utilizzato questi playoff per testare la sua capacità di rimanere efficiente nonostante i nuovi spazi. Ora però dovrà nuovamente reggere un tipo di difesa molto più aggressiva, che testi in modo ancora più deciso la sua capacità di prendersi tiri a seguito di un aiuto forte, lontano quindi dal ritmo di questi playoff. Sentirlo parlare in modo così chiaro dell’importanza del saper mettere anche questi tipi di conclusioni pur volendo rimanere nello spartito del basket in movimento è un chiaro monito alla strategia dei Cavs. Vedere come risponderà alla strategia degli avversari sarà una delle cose più interessanti di queste finali e potrebbe verosimilmente decidere la narrativa del resto della sua carriera. Altre finali in linea con le precedenti potrebbero minarne la legacy: Steph Curry ha tutto da perdere in caso di sconfitta.
Kevin Durant e lo switch-anatema
di Nicolò Ciuppani
C’è un concetto, oltre a quello dello spacing, che è predominante nella filosofia di gioco dei Golden State Warriors: quello di mismatch. In parole più povere possibili: su entrambi i lati del campo cambiare le marcature individuali durante l’azione tende a favorire Golden State, e in particolar modo questa cosa è vera grazie all’arrivo di Kevin Durant. Ovviamente Steph Curry è in grado di mandare al bar un lungo che lo marca, Klay Thompson può andare in post contro avversari più piccoli, Draymond Green può spiazzare gli avversari con la sua combinazione di atletismo, letture e trattamento palla, ma nessuno riesce ad essere una spina nel fianco costante contro qualsiasi cambio come KD.
Difensivamente non esiste un cambio difensivo che KD trovi sconveniente: ovviamente marcare alla lunga un giocatore più forte fisicamente o uno più piccolo può portare dividendi agli avversari, ma per la rapidità e facilità con cui gli Warriors effettuano i cambi difensivi, questa è una strategia praticamente inutilizzabile.
Nell’azione Durant non si fa problemi a marcare 4 giocatori differenti, da Patty Mills a LaMarcus Aldridge. In nessun momento un cambio su Durant sembra un’opzione particolarmente convincente per provare ad attaccare.
Se i problemi fisici di Andre Iguodala tolgono il miglior marcatore possibile su LeBron, la combo formata da Durant e Green dovrebbe quantomeno garantire una comprovata solidità difensiva.
In attacco l’anatema di KD allo switch difensivo si fa ancora più sentire. In generale nessuno vuol portare un raddoppio su un giocatore di Golden State, perché nella migliore delle ipotesi si finisce a giocare un 3 vs 4 contro passatori e tiratori in grado di allargare la risicata trama difensiva; in soldoni quindi portare un raddoppio contro gli Warriors porta più svantaggi che benefici. La soluzione preferita dalla difesa di Cleveland quindi sarà quella di cambiare sui blocchi e accettare le conseguenze (ricordate per caso com’è finita gara-7 delle scorse Finals?): il problema però è che con Durant la tattica di cambiare difensivamente trova un ostacolo enorme che l’anno scorso non c’era.
Se KD trova un cambio lontano dalla palla contro un lungo, è troppo rapido per qualunque giocatore dei Cavs per provare a contenere un suo eventuale taglio (kudos a Green per un passaggio irreale)
Se invece il cambio sul lungo avviene nel pick and roll con Durant da portatore, il problema è ancora più accentuato data la capacità di KD di tirare in sospensione, arrivare al ferro a piacere o comunque creare separazione dal palleggio. Kevin Love, Tristan Thompson e Channing Frye non sembrano avversari difensivi più temibili di quanto potesse essere Gobert
La situazione che più di tutte può intimorire i Cavs è quella di uno switch di un piccolo su Durant, e poiché gli Warriors sono cinici e ci tengono tantissimo a far soffrire il mondo, quando avviene una situazione del genere riescono ad amplificarla nel peggiore dei modi.
Appena i Dubs si accorgono che c’è Ginobili su KD, fanno di tutto per segnalarlo (Livingston e Pachulia lo indicano con la mano) e lasciano tutto lo spazio possibile a KD e Curry. Durant riceve in posizione sfavorevole grazie ad un lavoro encomiabile di Ginobili in difesa, ma Curry ha ormai letteralmente mezzo campo libero e nessuno a proteggere il canestro.
Le uniche soluzioni percorribili per affrontare Durant sembrano quelle che nessun tifoso dei Cavaliers vorrebbe vedere: dedicare l’intera partita difensiva di LeBron su di lui, ad un costo energetico che rischia di essere sanguinoso, e costringerlo a più isolamenti offensivi possibili. Durant ha un rendimento comunque elevato quando gioca per sé e spesso Golden State si è affidata al suo sterminato arsenale offensivo per uscire dalle secche in questi playoff; tuttavia queste soluzioni sono meno efficienti dell’attacco medio di Golden State. Concludendo: non si può limitare l’innesto di Durant come un semplice upgrade rispetto ad Harrison Barnes, ma è un significativo cambiamento del polo gravitativo della serie.