THE FINALS 2014
“Rimani così come sei, guida i tuoi compagni e questa tra poco tempo sarà la tua Lega”
Era il 14 giugno del 2007 quando Tim Duncan, fresco vincitore del suo quarto titolo NBA, incrociò lo sconfitto 22enne LeBron James nella pancia della Quicken Loans Arena di Clevelend e gli disse le parole che vedete sopra, perfettamente immortalate dalle onnipresenti telecamere di NBA TV in uno dei passaggi di consegne più significativi della storia recente della NBA. Sono passati 7 anni, ma di cose ne sono successe parecchie: LeBron ha effettivamente vinto quattro titoli di MVP e due Finali NBA realizzando la profezia del numero 21 degli Spurs, che ha dovuto osservare il suo giovane ex avversario alzare il Larry O’Brien Trophy nello scorso giugno, dopo un’indimenticabile serie conclusasi solo alla settima partita.
Oggi il destino ci propone il terzo atto della loro sfida personale, in quella che può essere effettivamente considerata la “bella": se vincesse Tim Duncan, potrebbero essere le sue ultime partite su un parquet NBA, ritirandosi da campione in carica come fece il suo mentore David Robinson prima di lui; se vincesse LeBron, sarebbe il primo three-peat (tre titoli in fila, marchio registrato dal lungimirante Pat Riley) dai tempi di Shaq&Kobe, oltre dieci anni fa, e la prima seria ipoteca al titolo di migliore di sempre che risiede (ancora? per sempre? chissà) nelle mani di Michael Jordan.
Se la presenza di questi due enormi giocatori e altri sette futuri protagonisti della Hall of Fame di Springfield non vi bastano per sacrificare diverse ore di sonno (da un minimo di 12 ad un massimo di 21 nel corso delle prossime due settimane) per seguire in diretta le Finali NBA, in questo articolo cercherò di farvi venire ancora più voglia di stare in piedi per vedere Miami Heat contro San Antonio Spurs, straordinario atto conclusivo di una stagione 2013-2014 già di per sé memorabile.
Perché per i Mondiali di calcio c’è tempo, tutto sommato.
Parto dal presupposto che voi tutti sappiate come sono andate le Finals dello scorso anno, ma nel caso così non fosse vi invito a dare un’occhiata ai sei minuti qui sopra per un rapido riassunto.
UNA MACCHINA IMPRESSIONANTE
A seguito delle Finali dello scorso anno le squadre sono rimaste sostanzialmente invariate, anche se con percorsi in stagione regolare molto diversi. Gli Spurs, nonostante la tremenda batosta emotiva di perdere una Finale per un paio di tiri liberi sbagliati e un rimbalzo difensivo non preso, hanno continuato a macinare avversari per tutta la regular season (62 vittorie e 20 sconfitte alla fine) e, pur con qualche intoppo – come la serie iniziale con Dallas, chiusa solo alla settima partita, e due sconfitte consecutive con OKC in finale di conference – lo hanno fatto anche nei playoff, dove hanno il miglior rating netto (differenza tra attacco e difesa) dei playoff a +10,1, quasi 3 punti su 100 possessi meglio dei secondi, i Miami Heat. In generale la squadra di Popovich sembra nettamente più sana e completa dell’anno scorso: Duncan è sempre Duncan, Manu Ginobili è un altro giocatore rispetto al fantasma di 12 mesi fa, Boris Diaw gioca con una voglia e un coinvolgimento mai visti in 13 anni di carriera (e non si fanno neanche più battute sul suo peso... quasi), la coppia di poltergeist difensivi Danny Green- Kawhi Leonard e il centro Tiago Splitter hanno un anno in più di esperienza, e oltretutto dalla panchina si alzano anche Patty Mills e Marco Belinelli (ma ci credete che abbiamo un italiano in Finale NBA?), che un anno fa o non erano chiamati in causa o proprio non c’erano.
Il vero problema, nel caso, sono le condizioni fisiche di Tony Parker, stella e chiave tattica della squadra: nel secondo tempo di gara-6 contro OKC è rimasto a guardare per un problema alla caviglia, ma dovrebbe essere pronto per la palla a due di stanotte. Il problema fisico che lo ha limitato nelle ultime partite delle Finali dell’anno scorso è stato importante almeno tanto quanto il tiro di Ray Allen, perché è vero che prima dei folli ultimi 30 secondi di gara-6 aveva segnato 5 punti in fila per mandare i suoi dal -3 al +2, ma è anche vero che in quelle partite non era mai sembrato il vero Tony Parker, quello per cui gli Heat hanno bisogno di scomodare LeBron James in marcatura (né Chalmers né Cole possono contenerlo dal palleggio).
Con un Parker sano, San Antonio ritrova la sua anima: la sua capacità di spaccare le difese a piacimento dal pick and roll, o andando in area per creare sia per sé che per gli altri o segnando dalla media distanza, è il motore di buona parte di quella fluidità offensiva degli Spurs che non ha eguali nella Lega da 15 anni a questa parte. Se Parker non ha più la forza nelle gambe per costringere gli Heat a fare delle scelte (lasciando liberi i tiratori dall’arco per negargli l'area o svuotando l’area per rimanere sui tiratori), gli Spurs hanno sì le armi per continuare a mettere in difficoltà Miami (una su tutte: Duncan in post), ma dovranno necessariamente fare molta più fatica. Anche perché quella che affronteranno non è la difesa superatletica-ma-indisciplinata dei Thunder (che pure li ha messi in seria difficoltà nelle partite a OKC), ma la difesa superatletica-e-ultrapreparata dei due volte campioni in carica, che – come fatto notare dal sempre eccezionale Zach Lowe di Grantland nella sua preview delle Finals – da quando può giocare “small ball” (ovverosia con James o Battier da “4” atipico) non ha mai perso una serie di playoff.
FORTI, MA NON COSÌ FORTI?
I Miami Heat, dal canto loro, in questa stagione sono sembrati un po’ più vulnerabili rispetto alle scorse annate: Wade ha cercato di preservare le sue ginocchia per il maggior tempo possibile, saltando più di un terzo delle partite di stagione regolare, e i vari veterani (Allen, Haslem, Lewis ma soprattutto Shane Battier) hanno accusato un po’ di passaggi a vuoto per motivi anagrafici. Questo li ha portati a chiudere la regular season al secondo posto a est, sostanzialmente facendo “perdere” il quinto titolo di MVP a LeBron James (“Io credo di aver giocato da MVP, ma la squadra non lo è stata” le parole con cui LBJ ha voluto mandare un messaggio ai suoi compagni, dicendo loro “ora però per i playoff giochiamo da Miami Heat”). Nonostante ciò hanno sostanzialmente dominato la Eastern Conference (12-3 il record finale nei playoff) giocando veramente “da titolo” solo in due partite contro Indiana, in gara-4 e 6, specialmente nella metà campo difensiva dove hanno riproposto una versione leggermente rivisitata – ma tremendamente efficace – della loro difesa ultra-aggressiva, che costringe gli attacchi a prendere brutti tiri con il cronometro che sta per scadere e perdere una miriade di palloni, facendo partire la 4x100 che di solito si conclude con James sopra il livello del ferro.
In realtà questi Heat già da qualche anno hanno un enorme “on/off switch”: giochicchiano per la maggior parte del tempo e inseriscono le marce alte solo in caso di estrema necessità, atteggiamento che ti puoi permettere contro squadre chiaramente inferiori, ma che può rivelarsi una pessima abitudine se giochi contro chi è forte tanto quanto (se non più) di te, come questi Spurs. In sostanza servirà la miglior versione possibile della squadra vista negli ultimi due anni, ma la domanda è: questi Heat hanno in canna quattro partite di altissimo livello contro gli Spurs, dopo che già l’anno scorso avevano tatticamente e tecnicamente perso la serie finale (al netto di miracolosi tiri a 5 secondi dalla fine)?
Inoltre mancherà Mike Miller (che nel corso dell’estate è stato lasciato andare per motivi di salary cap) il quale – pur non avendo quasi mai giocato nella scorsa stagione – era titolare in quintetto nelle Finali contro San Antonio e portava quel mix di tiro/esperienza/capacità di passaggio/presenza a rimbalzo che è stato utilissimo per allargare il campo senza concedere troppi centimetri in difesa. Quel “quinto uomo” deputato a chiudere il quintetto insieme agli insostituibili Allen-Wade-James-Bosh è di fondamentale importanza per i destini degli Heat: dato che non può più esserlo Battier (che ha già un contratto con ESPN per la prossima stagione e appare fisicamente alla frutta), dovrà essere uno a turno tra Chalmers, Cole, Lewis e "Birdman" Andersen a riempire quello spot, in base alla necessità e all’ispirazione di gara in gara. E la coperta, in ogni caso, appare sempre un po’ corta.
X-FACTORS
Come sempre accade quando si cerca di analizzare una serie di playoff, si va alla ricerca degli “X-factors” (no, Morgan e Elio non c’entrano), ovverosia i fattori tecnici e tattici che potrebbero far pendere la sfida da una parte o dall’altra. Rispetto all’anno scorso, ad esempio, Manu Ginobili e Dwyane Wade sono in condizioni fisiche nettamente migliori, e questo costringerà gli allenatori a cambiare le loro difese su di loro: l’anno scorso gli Heat hanno aggredito fisicamente Ginobili portandolo a perdere una quantità enorme di palloni (oltre 3 di media in 28 minuti di utilizzo, tra cui 8 sanguinosissimi in gara-6), mentre gli Spurs spudoratamente ignoravano Wade quando stazionava sul perimetro, mandando un uomo in più in area per sconsigliare le penetrazioni a James, ingolfando così tutto l’attacco degli Heat (il dato che ha visto gli Spurs a +54 nella serie con Wade in campo e -49 quando sedeva in panchina spiega abbastanza bene questo avvenimento). Quest’anno però Ginobili in proporzione perde molti meno palloni (-4% nei playoff rispetto agli ultimi due anni) ed è sembrato, su diversi possessi, quello dei bei tempi sia da un punto di vista fisico che mentale. Anche Wade è in condizioni nettamente migliori e sente maggiore fiducia nel suo tiro, tanto da aver tentato ben 18 triple in questi playoff (l’anno scorso chiuse a quattro) segnandone 7, per un buonissimo 38%. Vedere le scelte dei due allenatori in marcatura su di loro sarà uno dei trend della serie.
A proposito di triple: l’anno scorso gli Spurs decisero di lasciare completamente libero Chris Bosh da tre punti (tanto che Spoelstra dichiarò “se viene lasciato solo un motivo ci sarà”) e lui, dopo lo 0/4 di gara-1, ne tentò soltanto due in tutto il resto della serie. Quest’anno però Bosh ha decisamente aggiunto in faretra il tiro da tre (ne ha tentate 218 in stagione, non aveva mai superato quota 74 nei 10 anni precedenti) e in questi playoff – nonostante un calo nelle percentuali con Indiana – sta tirando con il 41% (25/61) dalla lunga distanza, un numero che esige il rispetto delle difese avversarie. Portare “fuori” uno tra Duncan e Splitter potrebbe essere la chiave tattica che apre la difesa degli Spurs, che contro LeBron (e ancor di più Wade) da sempre decide di riempire l’area di corpi e di farsi battere dal tiro dalla media distanza pur di levare a quei due i punti al ferro e ai tiri liberi: con Bosh pericoloso da fuori e la presenza degli altri tiratori, quel piano potrebbe non funzionare bene come l’anno scorso.
Dal lato Spurs, uno che decisamente non era questo l’anno scorso è Boris Diaw: il francese è l’uomo buono per tutte le occasioni, capace di giocare da lungo “classico” in post basso quando viene marcato da un giocatore più piccolo di lui, di tirare da fuori quando viene lasciato libero dalle difese preoccupate di Parker e Ginobili, e di far girare l’attacco con le sue capacità di passatore, trovando i vari Green e Leonard sul lato debole per punire le rotazioni. Gli Oklahoma City Thunder non hanno trovato un singolo modo per fermarlo, venendo sviscerati da 26 silenziosissimi punti del francese nella decisiva gara-6. Avere a che fare anche con uno come Diaw, che può facilitare l’attacco punendo i raddoppi aggressivi che sono alla base della filosofia difensiva di Miami e può marcare anche LeBron James negandogli l’area con il suo corpaccione, potrebbe rivelarsi un dilemma irrisolvibile anche per gli Heat.
STORIE DA FINALS
Al di là dell’aspetto tattico, le Finali NBA sono il momento più bello dell’anno per le storie che si sommano in ogni angolo del campo. Come già detto, è dal 2002 che una squadra non vince tre titoli in fila ed è dai Celtics di metà anni ’80 che una squadra non raggiunge quattro Finali consecutive. Già questo dovrebbe darci un’idea dell’enormità di quello che stanno cercando di fare gli Heat quest’anno: nell’NBA contemporanea a 30 squadre, con una mezza dozzina di squadre ogni singolo anno in grado di competere per il titolo e un livello di pressione mediatica che non ha precedenti, è assurdo che una squadra riesca ad avere così tanto successo per un periodo così lungo di tempo –specialmente giocando quel tipo di difesa ultra-aggressiva che richiede uno sforzo fisico e mentale enorme per funzionare a dovere. Con la vittoria del suo terzo titolo NBA, LeBron James metterebbe il primo e pesantissimo mattone alla sua candidatura a “Greatest Of All Time” (poi ci sarebbe ancora strada da fare, ma intanto mettilo lì) e sostanzialmente cementificherebbe già oggi il suo posto nella top-10 di ogni epoca (o possiamo già parlare di top-5?). Dwyane Wade, allo stesso tempo, arriverebbe al suo quarto titolo in nove anni, sedendosi probabilmente dietro solo a Jordan e Kobe come miglior SG della storia (chiedo scusa, Mr. Logo). Chris Bosh, invece, è il giocatore più overrated e underrated che io ricordi: overrated perché “fa poco” in base a quello che guadagna (il suo contratto è identico a quello di LeBron), e underrated perché le cose che fa lui, le stelle con quel contratto non si sporcano a farle – e in questo considero anche farsi un bagno di umiltà, accettare i propri limiti e giocare per e con la squadra piuttosto che cercare di pettinare il proprio ego. Poi ci sarebbe anche da considerare Ray Allen, che arriverebbe a tre titoli NBA e potrebbe anche decidere di smettere, così come Shane Battier. E poi il tanto vituperato Mario Chalmers, atteso a un riscatto dopo una serie contro Indiana opaca, e Norris Cole, che da quando è entrato nella NBA non ha mai chiuso una stagione senza alzare il Larry O’Brien. O Chris Andersen, che era fuori dalla Lega un anno e mezzo fa e ora rischia di vincere un altro titolo. Oppure Greg Oden, in assoluto la mia storia preferita di tutte, perché ha avuto la forza di rimettersi a lottare quando chiunque altro avrebbe potuto darla su (e con più che validi motivi). Il tutto concludendosi con Erik Spoelstra, che inserirebbe il suo nome in un circolo ristrettissimo: solo Red Auerbach e Phil Jackson hanno vinto tre titoli in fila nella loro carriera in panchina. Per uno di origini filippine che secondo alcuni sarebbe solo un “prestanome” di Pat Riley, direi che non c’è male.
Dall’altra parte della barricata, invece, in caso di vittoria potremmo assistere alle ultime partite in carriera di Tim Duncan, ma lo stesso potrebbe essere anche per Manu Ginobili, che pur avendo un altro anno di contratto garantito potrebbe decidere di chiudere da campione NBA la sua irripetibile carriera. E che dire di Tony Parker, che potrebbe diventare il primo giocatore europeo di sempre a vincere due titoli di MVP delle Finals (oltre che 4 anelli, superando Toni Kukoc)? O anche di Kawhi Leonard e Danny Green, che probabilmente si sarebbero contesi il premio di MVP se gli Spurs avessero vinto l’anno scorso? Bisognerebbe parlare però soprattutto di Gregg Popovich e della meravigliosa stagione che ha allenato, anche se il suo posto nel Mount Rushmore degli allenatori NBA tra Jackson, Riley e Auerbach lo ha già legittimato da parecchio, e potrebbe sfiorare l’idea del ritiro (ma dopo cinque minuti la scarterebbe: d’altronde, uno così, come fa a stare lontano dalla panchina?). E poi ancora Boris Diaw (mai un anello in carriera), Patty Mills (un aborigeno campione NBA?!), Tiago Splitter (in cerca di vendetta dopo essere stato cancellato dal campo nelle scorse Finals), ma soprattutto Marco Belinelli, per il quale vale la pena spendere qualche parola in più.
Degli italiani in NBA, Marco è stato certamente quello che ha dovuto “sudare” di più nella sua carriera NBA: non ha il talento puro di Danilo Gallinari o lo “skillset” di Andrea Bargnani, ma ha voglia, determinazione, fiducia incrollabile nei suoi mezzi e una voglia di lavorare pazzesca (il suo assistente di riferimento a Chicago, Ron Adams, mi ha detto che lo considera “in assoluto uno dei miei giocatori preferiti da quando alleno”, e Adams frequenta le panchine di NCAA e NBA da 45 anni). Il suo arrivo alle Finali NBA non nasce negli ultimi due anni, non nasce da Chris Paul che gli dà fiducia a New Orleans o dalla splendida annata a Chicago: nasce nei suoi primi tre anni di NBA, quelli più duri, quelli dei dubbi e delle interminabili partite passate in panchina, quando non giocava a Golden State da ostaggio di Don Nelson e quando è stato presto messo da parte a Toronto, dove pensava di poter ricominciare da capo. Nasce negli anni in cui nessuno credeva in lui, tranne lui stesso. Se Marco Belinelli vincerà il titolo NBA – da protagonista, da panchinaro, da fuori rosa: non importa, è un dettaglio secondario in questa storia – e gli chiederanno “a chi dedichi questo titolo?” io spero che lui risponda “A me stesso”. Perché se lo merita.
CONCLUSIONE
Le Finali dello scorso anno sono state un bellissimo film, pieno di avvenimenti, storie e momenti drammatici, ma dopo gara-7 avremmo voluto vederne ancora, assaporarne ancora, goderne ancora, un po’ come quando finisci Kill Bill volume 1 e vorresti passare subito al secondo. Per questo è ancora più bello che queste due squadre si siano incontrate di nuovo per una rivincita. Un po’ di cose sono cambiate rispetto a 12 mesi fa, tra cui la più importante di tutte a mio modo di vedere è il fattore campo e la strutturazione della serie: se l’anno scorso si giocava 2-3-2 con le tre partite centrali a San Antonio, quest’anno si gioca 2-2-1-1-1 con la settima in Texas. Questo vantaggio potrebbe rivelarsi determinante in una serie così equilibrata, perché l’anno scorso gli Spurs non avrebbero perso quella Finale se avessero giocato la partita decisiva in casa. Per questo motivo, chi vi scrive dice che vincerà San Antonio in sette partite. E questo nonostante la presenza di LeBron James in campo.
Voi comunque sacrificate un po' del vostro sonno: ne vale la pena.