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Emiliano Battazzi
Guida alla Roma 2017/18
05 set 2017
05 set 2017
I giallorossi alla prova dell'ennesima rivoluzione.
(di)
Emiliano Battazzi
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Patrik Schick, Hector Moreno, Lorenzo Pellegrini, Rick Karsdorp, Maxime Gonalons, Cengiz Ünder, Grégoire Defrel, Aleksándar Kolarov, Łukasz Skorupski.

 

Francesco Totti, Wojciech Szczęsny, Antonio Rüdiger, Mohamed Salah, Leandro Paredes, Thomas Vermaelen, Mario Rui, Clément Grenier, Juan Manuel Iturbe.

 


La teoria politica della rivoluzione permanente ha una storia più lunga di quanto si pensi (già Marx ne faceva menzione nel 1844) e un’elaborazione definita ad opera di Lev Trockij: in estrema sintesi, in una prima accezione si voleva intendere che la rivoluzione non potesse compiersi in unico momento; successivamente, invece, che si dovessero saltare le fasi intermedie, e che la rivoluzione sarebbe stata davvero compiuta solo quando estesa al resto del mondo (contrariamente alla teoria del Socialismo in un solo paese).

 

La teoria (e con essa anche Trockij) ha avuto poca fortuna a livello storico ma è ancora usata, almeno a livello lessicale, per definire l’evoluzione in alcuni segmenti industriali e dei servizi. Anche nel calcio, per sua natura mutevole, questa espressione funziona bene: in particolare, si addice all’ultima decade della Roma. Dopo la stagione 2007-08, in cui la squadra del primo Spalletti vinse Supercoppa e Coppa Italia, i giallorossi non hanno raccolto più nulla. Nel frattempo, però, hanno cambiato tutto, continuamente: e per cambio non si intende un semplice alternarsi di nomi, ma una vera e propria rivoluzione, in cui si è passati dal calcio moderno di Spalletti al conservatorismo di Ranieri, dall’alieno gioco di posizione di Luis Enrique alla nostalgia 90s iperverticale di Zeman, dal piacionismo di Garcia alla ruvidità spallettiana. In numeri: 8 allenatori, 4 presidenti, 3 direttori sportivi, 1 cambio di proprietà, una montagna di calciatori, ma la rivoluzione permanente non ha portato i frutti sperati. Ogni stagione la Roma si è dovuta reinventare quasi da capo, come in un eterno presente. La squadra non è riuscita a trovare una dimensione europea, e gli ultimi trofei risalgono proprio a quella lontana stagione spallettiana: praticamente tutte le altre concorrenti italiane hanno vinto qualcosa nello stesso arco temporale. La rivoluzione permanente ha ovviamente impedito la costruzione di un’identità di gioco: anzi la Roma le ha provate tutte, è mancato solo un allenatore amante del gegenpressing per completare il ventaglio.

 

Dopo l’ennesimo ma preziosissimo secondo posto, e le solite delusioni europee della scorsa stagione (l’eliminazione ai preliminari ad opera di un modesto Porto, e poi l’eliminazione in Europa League agli ottavi contro il Lione), si è chiuso un ciclo tecnico, quello di Walter Sabatini, che era DS dal 2011. Con lui ha abbandonato anche Spalletti, ma soprattutto Totti: in un paradosso tutto romano, la battaglia mediatica della scorsa stagione si è conclusa con la sconfitta di entrambi. Con l’abbandono di Totti, e a scriverlo ancora si fa fatica, e la fine del ciclo di Sabatini, Pallotta ha rilanciato, sempre fedele al motto “you can’t start a fire without a spark”, con un’ultima grande mano di rivoluzione permanente.

 


Il compito di cambiare tutto è stato affidato

: un dirigente abituato con il Siviglia ai rischi della compravendita per generare plusvalenze, ma sempre in un’ottica di raggiungimento di risultati sportivi. Appena arrivato a Roma, a fine aprile, aveva espresso il suo desiderio di proseguire con la conduzione tecnica di Luciano Spalletti, con ragioni fondate. I gravi problemi comunicativi e di gestione ambientale dell’allenatore toscano avevano ormai reso quasi impossibile il rinnovo del contratto, ma sul campo Spalletti è riuscito ad ottenere il meglio dalla rosa a disposizione. La Roma della passata stagione si basava fondamentalmente sulla ricerca della verticalità, che poteva essere immediata, sin dalla linea difensiva, che più ragionata, dopo una circolazione perimetrale. Nel primo caso, si provava a saltare le linee per raggiungere Dzeko con per un duello aereo, o lanciare Salah in profondità con palla a terra; nel secondo, si puntava a creare densità in una zona del campo (la sinistra) per poi lanciare Salah isolato in 1 vs 1 sull’altra fascia, oppure a invitare l’avversario a pressare nella propria trequarti per creare spazi da attaccare.

 



 

Verticalizzazione per Salah che attacca la profondità: leitmotiv della passata stagione.


 

Un’altra caratteristica della Roma di Spalletti era la

: dopo aver iniziato con il classico 4-2-3-1, il tecnico toscano è passato a una linea difensiva a tre, che aiutava nell’inizio azione con un rombo di costruzione (De Rossi vertice alto), e soprattutto consentiva alla squadra di non concedere profondità dietro la propria difesa. La ricerca della verticalità continua rendeva la Roma spesso allungata, e quasi sempre

: in questo modo, si poteva facilmente transitare a una difesa a 4 (con Rudiger che scivolava in posizione di terzino destro), o in fase di difesa posizionale anche a 5.
In fase offensiva, l’intuizione di Spalletti di sistemare Nainggolan in posizione di trequartista, con compiti molto particolari (attaccare la profondità, le spizzate di Dzeko e disturbare il primo possesso avversario), ha pagato ottimi dividendi: aumentando da una parte l’intensità della Roma, e dall’altra però alimentando la tensione verticale e le difficoltà nel gioco posizionale.

 



 

La posizione di Nainggolan e la capacità di Salah di attaccare il lato cieco.


 

Uno dei problemi irrisolti della passata stagione è stata l’organizzazione del pressing sulla trequarti avversaria: troppo spesso la Roma si è disunita, oppure ha portato delle singole pressioni con un giocatore, determinando a cascata una serie di problemi di copertura tra le linee. Alla fine, per assecondare questa debolezza, Spalletti ha finito per utilizzare un blocco centrale molto fitto, per invitare l’avversario a salire e crearsi così spazi dove lanciare Salah. Chi non è caduto nel trappolone, annullando completamente la profondità, è riuscito spesso ad incartare la partita dei giallorossi.

 


 

 

Troppo facile trovare la linea di passaggio dietro le linee della Roma di Spalletti: la Samp ci è riuscita tre volte di fila.


 

 


A seguito dell’addio di Spalletti, la dirigenza della Roma si è trovata a dover scegliere un nuovo allenatore: alla fine l’ha spuntata Eusebio Di Francesco (che era stato suggerito proprio da Spalletti), ex giocatore giallorosso, che nel Sassuolo è riuscito a raggiungere ottimi risultati con uno stile di gioco offensivo.
Fedele alla sua linea dirigenziale di condividere del tutto gli acquisti con il suo allenatore, Monchi ha impostato la campagna trasferimenti su alcuni capisaldi: modulo di riferimento 4-3-3, disponibilità di due giocatori di livello per ruolo, preferenza agli specialisti e non ai jolly.

 

Prima di comprare, però, Monchi ha dovuto far fronte alle inderogabili esigenze del fair play finanziario. Oltre a Szczesny (che era in prestito dall’Arsenal) - ritenuto da Buffon il miglior portiere della passata stagione - in un colpo solo se ne sono andati Salah, il giocatore chiave del sistema di attacco alla profondità (19 gol e 12 assist in tutte le competizioni) e Rudiger, il difensore che garantiva flessibilità al sistema, potendo giocare anche terzino destro (come nell’ultima parte del campionato). Tre titolari fondamentali, per cui l’unico rimpiazzo pronto era Alisson, il portiere della Nazionale brasiliana costretto in panchina (ma titolare nelle coppe) nella passata stagione.

 

I princìpi di gioco di Eusebio Di Francesco sono in realtà semplici: difendere in spazi piccoli per attaccare in spazi grandi, e cioè squadra sempre corta sul pallone (il riferimento difensivo è la palla) e ricerca ossessiva della verticalizzazione (“due passaggi orizzontali sono già troppi”); risalita del pallone dalle fasce, utilizzando triangoli di progressione: la palla va dal terzino alla mezzala (che si allarga), per poi passare al regista che deve immediatamente verticalizzare; occupazione degli spazi di mezzo delle ali (l’ampiezza è compito di terzini e mezzali), mentre la punta centrale attacca la profondità per allungare la difesa avversaria; pressione sul primo possesso avversario per indirizzarlo sulla fascia, dove aggredire in superiorità numerica.

 

Per seguire questo copione, c’è bisogno di interpreti particolari: come terzino destro è stato acquistato l’olandese Karsdorp dal Feyenoord, un giocatore dalla spiccata fisicità e ottima tecnica (devastanti le sue conduzioni palla al piede), sebbene infortunato; come difensore centrale è arrivato il messicano Moreno, mancino molto abile nella gestione del pallone e nella visione di gioco, ma meno preciso in marcatura, per assecondare la volontà di un inizio azione pulito già dalla difesa. A Bergamo si è visto però Juan Jesus nel ruolo di centrale sinistro, scelto per la sua fisicità (per contrastare Petagna) e la sua aggressività negli anticipi. Inoltre, per far fronte all’infortunio di Emerson Palmieri, Monchi ha scelto Kolarov, già decisivo nella prima giornata, dotando così la Roma della miglior coppia di terzini sinistri del campionato.

 

A centrocampo sono arrivati Gonalons e Pellegrini: il primo un regista di esperienza e qualità, come backup di De Rossi, a sottolineare l’importanza e l’usura di quel ruolo nel sistema di Di Francesco (nelle tre stagioni a Sassuolo, Magnanelli è risultato sempre tra i primi due giocatori per chilometri medi percorsi a partita); il secondo, una mezzala perfetta nell’interpretazione del 4-3-3 per capacità sia di muoversi continuamente in verticale che per assimilazione del gioco. Dal Sassuolo, insieme a lui, è arrivato anche Defrel: teoricamente come riserva di Dzeko, ma per ora da titolare nel ruolo di esterno destro, dove il ventenne turco Cengiz Ünder, prototipo dell’ala perfetta per Di Francesco, deve prima ambientarsi a un calcio molto diverso.

 



 

Azione classica difranceschiana: l’ala destra si fa trovare nel mezzo spazio, il centravanti si abbassa per tirare fuori l’avversario, ala opposta effettua il taglio in profondità.


 

E proprio per giocare su quella fascia la Roma ha acquistato Patrik Schick, dopo una estenuante trattativa fallita per Mahrez. I compiti delle ali nel sistema del nuovo allenatore giallorosso sono fondamentali: l’ala sul lato forte deve sempre farsi trovare tra le linee, spesso accentrandosi, per poi verticalizzare per il taglio della punta e dell’ala opposta sui due pali. Le ali hanno compiti sia creativi che realizzativi, oltre a una massiccia dose di lavoro difensivo, visto che è proprio sulle fasce che Di Francesco vuole spingere il possesso avversario: per questo, al Sassuolo le ali erano in continua rotazione. Defrel possiede alcune caratteristiche adatte (aggressività, corsa, attacco dello spazio, copertura), ma ha non possiede una grande visione di gioco. L’acquisto di Schick rende ancora più complicata la prospettiva su quel ruolo: il ceco non è un trequartista-ala stile Berardi, ma più una punta a cui piace molto svariare. Può partire dalla fascia, come spesso accaduto alla Samp, ma difficilmente può rappresentare il profilo di giocatore in grado di garantire tagli, assist in profondità, gol e uno sfiancante lavoro di ripiegamento: così si chiede a Schick un salto di qualità davvero molto grande. Non è da escludere che Defrel rimanga titolare, per dare possibilità ai due giovani di entrare nei meccanismi di gioco: in ogni caso, Schick potrà ovviamente ricoprire anche il ruolo di punta centrale, in caso di necessità. A Di Francesco spetterà il compito di valorizzare il talento cristallino del ceco all’interno del suo sistema di gioco.

 


La Roma vista a Bergamo aveva ancora pochissimo della squadra ideale di Di Francesco: una squadra che dovrebbe essere rapida, quasi meccanica per la ripetitività di giocate memorizzate in allenamento, che utilizza le catene di fascia come strumento di attacco all’avversario. In realtà, i giallorossi hanno mostrato buoni progressi soprattutto senza palla, a differenza di quanto visto nelle amichevoli estive: la linea difensiva ha interpretato alla perfezione le situazioni di palla scoperta/coperta, mandando in fuorigioco ben 7 volte l’Atalanta. La pressione sull’inizio azione rimane invece scomposta, con movimenti dei singoli non sincronizzati, e quindi deleteria, confermando la difficoltà storica (da Garcia a Spalletti) nell’utilizzare questo strumento tattico.

 



 

 

Un’azione con dei buoni meccanismi: la punta centrale fa da muro per la rimessa laterale; la mezzala, Pellegrini, prima finge di allargarsi poi si butta dentro il campo a ricevere la sponda; cambia campo e va dall’ala destra, Cengiz, che si accentra leggermente e serve il movimento corretto in profondità dell’altra mezzala Strootman.


 

 

Contro l’Inter, invece, i giallorossi sono sembrati un bel passo in avanti nei movimenti collettivi e nell’elaborazione di tempi e spazi necessari per le varie giocate, anche se ovviamente servirà ancora tempo. In particolare, è sembrata migliorare la fase di riconquista del pallone sulle fasce, dove la Roma spinge l’avversario per poi aggredirlo.

 

Con il pallone, la Roma è sembrata in difficoltà a Bergamo, come se non avesse ben chiaro tempi e spazi per eseguire le giocate. In particolare, i tre di centrocampo sembrano ancora spaesati, soprattutto le mezzali: sia Strootman che Nainggolan hanno difficoltà nel seguire i movimenti mnemonici richiesti, sia in verticale (aiutare l’inizio azione, sostenere il triangolo con terzino e ala) ma soprattutto in orizzontale. Costretti a dare ampiezza, si arenavano sulle fasce, con i terzini assenti nella sovrapposizione: alla Roma sembravano mancare dei movimenti offensivi, come se non riuscisse ad elaborare in partita le giocate ripetitive degli allenamenti.

 

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Nainggolan e Strootman costretti a ricevere sulla linea laterale, con le spalle alla porta: come disperdere il talento di due dei migliori centrocampisti della Serie A (anche se Nainggolan giocherebbe bene anche da portiere).


 

Allo stesso modo, De Rossi a Bergamo non è riuscito a rappresentare il fulcro del gioco: poco aiutato dai compagni, e in parte isolato dal meccanismo di pressione degli avversari, ha effettuato 45 passaggi, ben 17 in meno del regista occulto Kolarov. La Roma tendeva alla verticalizzazione verso il nulla: spesso De Rossi ha forzato la giocata alla ricerca di Dzeko, ma senza troppi risultati: sia perché l’Atalanta normalmente non concede la profondità, sia perché la Roma non ha più Salah, maestro nell’attaccare dietro la linea difensiva avversaria. Anche contro l’Inter, De Rossi ha evidenziato delle difficoltà soprattutto nella mobilità: il regista di questo sistema deve in realtà essere sempre pronto ad anticipare gli avversari e a fiondarsi sulle seconde palle, oltre a fornire un appoggio costante. Non è affatto da escludere, quindi, che nel corso della stagione Gonalons possa guadagnare molto spazio.

 



 

 

La mezzala Strootman è al centro, così come Perotti: a dare l’ampiezza ci pensa il terzino Kolarov, e la manovra è molto più fluida del solito.



 

Ciò nonostante, Di Francesco dopo la partita di Bergamo ha chiesto di forzare ancora di più le verticalizzazioni: in parte una piccola dimostrazione della sua rigidità concettuale, ribadita anche dal passaggio di Manolas a terzino destro dopo l’infortunio di Bruno Peres. In una situazione molto complessa ed emergenziale, Di Francesco ha provato a mantenere inalterato il sistema, ma dopo 4 disastrosi minuti da terzino del greco, ha proposto una soluzione particolare con Pellegrini quasi esterno di una difesa a 5.

 

Contro l’Inter, i 20 minuti iniziali del secondo tempo hanno fatto vedere quale dovrebbe essere il punto d’arrivo del lavoro del nuovo allenatore: catena di fascia sinistra sempre attiva, spaziature tra i giocatori perfette, così da dare sempre una linea di passaggio al portatore, squadra corta sul pallone. Manca ancora qualcosa a livello di movimenti offensivi, perché molti giocatori sembrano ancora attendere troppo il pallone tra i piedi.

 

La volontà di Di Francesco di imporre i propri ritmi alla partita, e la richiesta di giocate ripetitive, lo costringono a cambiare pochissimo a livello tattico: e d’altronde è stato proprio lui

, poco più di un anno fa alla

, «in allenamento non lavoro mai su un secondo sistema di gioco», che può essere sia una dimostrazione di carattere che un epitaffio per un allenatore che arriva in una grande squadra. La Roma vista contro l’Inter sembra migliorata molto rispetto a quella di Bergamo, ma è ancora in una fase intermedia di apprendimento: inevitabile, certo, ma nel calcio il tempo va maneggiato con molta cura. I giallorossi hanno il potenziale per una grande stagione, ma il rischio della rivoluzione permanente è che non ci sia mai tempo, appunto, per la stabilità: a Di Francesco spetta il compito di mettere a loro agio i grandi giocatori all’interno di un sistema tattico estremamente codificato.

 


Di Francesco adotta dei piccoli cambiamenti per far rendere al meglio il suo centrocampo, la squadra comincia a girare come un’orchestra e regala spettacolo: a fine maggio Monchi al Circo Massimo durante la festa scudetto si leva la camicia per mostrare il lupacchiotto gigante tatuato sul corpo, in stile Massimo Boldi.

 


Di Francesco si sente accerchiato dai media e comincia a irrigidirsi, facendo fuori alcuni senatori: dopo tre mesi di risultati deludenti, un ammutinamento della squadra spinge Monchi a esonerarlo e rimpiazzarlo con Walter Mazzarri (avendo a disposizione una rosa perfetta per il 3-5-2).

 


Rick Karsdorp ancora non ha esordito ma è probabilmente la pedina più importante di questo mercato giallorosso, al di là di Schick, ovviamente. Bruno Peres, infatti, continua a evidenziare (oltre a gravissime carenze difensive) difficoltà nelle scelte di gioco: al terzino olandese spetterà fornire sovrapposizioni continue e un contributo di qualità nello sviluppo del gioco.

 


Cengiz Ünder ha la caratteristiche dell’ala perfetta del sistema di Di Francesco. Dopo essersi ambientato (al momento in panchina c’è con lui un traduttore), l’allenatore potrebbe dargli molta più fiducia, anche perché è l’unico esterno di destra con le caratteristiche giuste (Defrel è una punta adattata, così come Schick): gli piace accentrarsi per tirare o servire il compagno, tagliare dentro l’area, puntare sempre l’uomo.

 

 

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