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NBA Dario Vismara 17 giugno 2015 7'

I guerrieri sono venuti a giocare

Storia di una vittoria costruita, cercata e voluta per nove lunghi mesi—o forse 40 anni, quelli che hanno riportato i Golden State Warriors sul trono della NBA.

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Poco più di tre anni fa, i tifosi dei Golden State Warriors si sentirono in dovere di subissare di fischi il proprietario della squadra, Joe Lacob, durante la cerimonia di ritiro della maglia di Chris Mullin. Il motivo di tanto odio? Aveva ceduto l’idolo delle folle, Monta Ellis, in cambio di Andrew Bogut. Per uno strano gioco del destino, potrebbe essere stata la mossa più importante della storia della franchigia, che per i 40 anni precedenti aveva avuto solo molte delusioni e molte stagioni perdenti.

 

Di momenti di svolta del genere ce ne sono stati molti in questi ultimi 3 anni: quello scambio ha liberato il genio di Steph Curry, che è riuscito a risolvere i problemi alle caviglie che lo avevano tormentato a inizio carriera; uno straordinario Draft nel 2012 ha permesso di pescare tre giocatori di rotazione come Harrison Barnes (arrivato peraltro grazie a un po’ di malcelato tanking), Draymond Green e Festus Ezeli; due viaggi consecutivi ai playoff hanno permesso di costruire fiducia ed esperienza con lo stesso nucleo di giocatori; Andre Iguodala è stato preso quando era a 60 minuti dal firmare per i Mavericks; Mark Jackson ha rovinato talmente tanto il suo rapporto con la franchigia da dover essere allontanato, nonostante gli ottimi risultati alla guida della squadra.

 

Si potrebbe andare avanti all’infinito, ma se c’è un momento che ha cambiato per sempre la storia dei Golden State Warriors campioni NBA 2014-15 è la scelta di prendere Steve Kerr per guidare questa squadra, affiancandolo con due guru come Ron Adams e Alvin Gentry. Senza Kerr non ci sarebbe stata la promozione fissa in quintetto di Draymond Green al posto di David Lee; senza Kerr probabilmente Klay Thompson sarebbe stato scambiato per arrivare a Kevin Love; senza Kerr l’attacco non sarebbe diventato lo strepitoso concerto di uomini e palla ad alto ritmo che ha dominato la NBA dal primo all’ultimo giorno di questa annata.

 

Sì, perché l’anello vinto ieri notte è solo il coronamento di un viaggio lungo nove mesi durante i quali gli Warriors hanno macinato gli avversari—non solo con le 67 vittorie in stagione regolare, ma con uno degli otto Net Rating più alti della storia della Lega e, sostanzialmente, innovando la NBA contemporanea.

 

 

Contro le convenzioni

Prima di questi playoff, era normale sentire dire frasi come «un jump-shooting team non può vincere il titolo». È un mantra che va avanti da parecchio tempo, secondo il quale le percentuali al tiro da fuori che ti hanno accompagnato in regular season prima o poi, magicamente, spariranno ai playoff. Eppure sono cinque anni che la squadra più brava ad aprire il campo nell’andare “piccola” vince il titolo: ci sono riusciti i Dallas Mavericks nel 2011, è stata la chiave che ha permesso agli Heat di vincere due titoli (basti pensare all’importanza di Shane Battier); ed è la chiave che ha permesso agli Spurs di stravincere l’anello dell’anno scorso.

 

Eppure la presenza di tre “giocatori di post” (se così si possono catalogare) come Dirk Nowitzki, LeBron James e Tim Duncan ha portato gli Alfieri della Vecchia Scuola a sottolineare come il vero segreto fosse la presenza di quei tre giocatori così interni, come se fosse solo quella la chiave per vincere. Per questo i Golden State Warriors sono così innovatori: loro si sono affidati anima e corpo alla creatività dal palleggio e ai movimenti senza palla di due tiratori irreali come Steph Curry e Klay Thompson, riservando i compiti di “playmaking occulto” a due ali come Draymond Green e Andre Iguodala ed eliminando del tutto le ricezioni in post. Non è che abbiano “inventato” qualcosa di nuovo: semplicemente lo hanno fatto meglio di chiunque altro. Hanno invertito la piramide e si sono presi gioco delle convenzioni comuni, regalandoci uno dei sistemi offensivi più divertenti da vedere degli ultimi anni—e per di più vincendo tutto.

 

Pensare però che questi Warriors siano una squadra prettamente offensiva è fuorviante. Il loro vero segreto è sempre stato nella loro metà campo: sin dai tempi di Mark Jackson, Golden State ha avuto una delle migliori difese della Lega, arrivando quest’anno a fare un ulteriore passo in avanti e ad affermarsi come la migliore in assoluto. Anche qui, il loro merito è stato quello di portare un concetto noto da anni—quello di cambiare su tutti i blocchi e i pick and roll—a un altro livello: la presenza contemporanea di giocatori della stessa altezza come Thompson, Iguodala, Livingston, Barnes e Green (capaci di difendere sia in scivolamento laterale quanto di non subire in post basso) ha impedito agli avversari di creare quel vantaggio che è così fondamentale nel basket contemporaneo. In più, le mani veloci, l’attività frenetica sulle linee di passaggio e la protezione del ferro fornita da due lunghi “veri” come Bogut e Ezeli, usati nei giusti momenti, ha fatto il resto, rendendo questi Warriors una delle migliori difese viste negli ultimi anni.

 

Il loro successo è un messaggio a tutta la Lega: nella NBA contemporanea, si vince se si hanno (almeno) cinque giocatori capaci di giocare entrambe le metà campo allo stesso livello e di marcare più di una posizione, e non con gli “specialisti” o i “gregari” che devono circondare le “stelle”. In questo senso, la scelta di Andre Iguodala come MVP della serie è emblematica di questa “nouvelle vague” del basket NBA—anche se, personalmente, non mi trovo per nulla d’accordo con i 7 giornalisti (alcuni peraltro di altissimo livello come Ken Berger, Hubie Brown e Marc Stein) che lo hanno votato come MVP.

 

 

Di cosa parliamo quando parliamo di “valuable”

Mi spiego: non c’è alcun dubbio che Iguodala abbia giocato una serie grandiosa e che il suo ingresso in quintetto al posto di Bogut abbia cambiato il polso di queste Finali—su questo penso che siamo tutti d’accordo. Ma se la parola “valuable” ha ancora un senso tra “most” e “player”, allora non esiste che il premio non sia andato a Steph Curry, che è e rimane di gran lunga il giocatore più importante per gli Warriors. Il motivo è semplice: l’intero piano difensivo dei Cavs per tutta la serie è stato quello di togliergli la palla dalle mani a qualsiasi costo, raddoppiandolo su qualsiasi pick and roll, anche a centrocampo, e cercando di farsi battere dagli altri—anche concedendo metri e metri di spazio, come poi è stato il caso di Iguodala, battezzato il più possibile e marcato addirittura da Mozgov. Poi Iggy è stato strepitoso nel farsi trovare pronto e a mettere canestri importanti, su questo non si può discutere, ma si può considerare “most valuable” uno che viene invitato dalla difesa avversaria a prendersi tutti i tiri che vuole piuttosto che vederli dati a un altro?

 

(Che poi, piccola parentesi: Steph Curry ha messo tutti i canestri più importanti dei quarti decisivi—culminati nei 37 punti di gara-5—e si è rivelato comunque un enigma irrisolvibile per i Cavs nei finali di partita. Il fatto che siano addirittura riusciti a non fargli vincere il premio di MVP è un ulteriore merito al piano difensivo di Cleveland per larghi tratti di questa serie, ma non toglie che Curry sia il vero motore dell’attacco di Golden State. Come è possibile che non abbia preso neanche un voto su undici per l’MVP?).

 

Se poi trasferiamo il discorso alla metà campo difensiva, non c’è dubbio che Iguodala sia stato il miglior difensore di questa serie, costretto a un lavoro enorme su LeBron James ogni volta che è stato mandato in campo. Ma il fatto che abbia avuto tantissimo lavoro da fare e lo abbia svolto nei limiti delle possibilità umane non deve far perdere di vista che LeBron ha comunque viaggiato a 36 punti di media in sei partite: non è che sia stato propriamente “dominato” da Iguodala in difesa, il quale ha ricevuto anche molto aiuto dai suoi compagni (e ci mancherebbe!) ogni volta che LeBron è arrivato in area, dove ha trovato costantemente uno o due corpi contro cui tirare.

 

Proprio su James bisognerebbe fare un discorso più approfondito, specialmente alla luce del premio dato a Iguodala: se c’è anche solo una persona che non lo ritiene il miglior giocatore a essere sceso in campo nel corso delle Finali, forse conviene riconsiderare le proprie conoscenze di pallacanestro. Le sue cifre finali—36 punti, 13 rimbalzi e 8 assist di media con due triple doppie—non raccontano nemmeno della quantità di lavoro, di attenzioni e di pressione che si è dovuto caricare sulle spalle per dare una minima chance di competere alla sua squadra. Ha giocato 1 contro 5 per quasi 46 minuti a partita ed è riuscito anche a portare a casa due gare, oltre ad avere il tiro per vincerne un’altra (gara-1) ed essere arrivato a contatto nell’ultimo quarto sia in gara-4 che 5. Il tutto senza potersi veramente fidare di nessun altro nella metà campo offensiva (al terzo palleggio consecutivo qualsiasi altro giocatore dei Cavs veniva mangiato dalla difesa degli Warriors), e ciononostante non ha mai smesso di regalare opportunità su opportunità ai suoi compagni pur di cavare qualcosa, qualsiasi cosa, per rimanere a contatto e darsi una possibilità.

 

Non credo che si sia mai vista una prestazione del genere per così lungo tempo, specialmente in una sconfitta. In definitiva: se il premio di MVP deve andare al giocatore più “valuable”, doveva andare a Steph Curry. Se il premio di MVP deve andare al “miglior” giocatore, doveva andare a LeBron James. La scelta di Andre Iguodala—che, sia chiaro, è stato veramente straordinario, ha avuto un impatto tattico importantissimo e ha emotivamente rimesso in piedi gli Warriors più e più volte—per me rimane a ogni modo incomprensibile.

 

 

Cosa rimane di queste Finals

Ci sarebbero tanti altri personaggi e tante altre storie di cui dover parlare—la mia preferita è quella di Shaun Livingston, che vince il titolo laddove aveva rimesso in piedi la sua carriera, dopo il tragico infortunio che doveva impedirgli di tornare a camminare—ma sono quasi le 9 di mattina e dopo due mesi di cicli di sonno sballati la lucidità inizia a calare. Di queste Finali rimane sicuramente il ricordo di partite combattute nonostante una delle due squadre abbia dovuto fare a meno di tre giocatori che a inizio anno erano nel quintetto titolare—Irving, Love e Varejao—e che ha gettato il cuore oltre l’ostacolo in maniera commovente, andando ben oltre i propri limiti e le aspettative di tutti contro una squadra più lunga, più talentuosa e, senza alcun dubbio, più forte.

 

Rimane anche però un certo senso di giustizia, perché i Golden State Warriors si sono guadagnati questo titolo dal primissimo giorno di regular season e hanno mantenuto la testa della corsa senza mai voltarsi indietro, guidando la NBA wire-to-wire, dall’inizio alla fine, per nove lunghissimi mesi. In più lo hanno fatto con uno stile unico e perfettamente riconoscibile, dal quale non si sono allontanati nemmeno quando sembrava non funzionare—anzi, puntando ancora di più sull’anima “piccola” della squadra quando si sono trovati in svantaggio nella serie finale.

 

Ci vuole coraggio a essere sempre sé stessi, in ogni occasione, anche quando le cose vanno male. E questo coraggio, ai Golden State Warriors, non è mai mancato. Per questo oggi sono campioni NBA.

 
 

Tags : cleveland cavaliersgolden state warriorslebron jamesstephen currysteve kerr

Dario Vismara è caporedattore della sezione basket de l'Ultimo Uomo. Laureato in linguaggi dei media con una tesi sulla costruzione mediatica della carriera di LeBron James, ha lavorato come redattore a Rivista Ufficiale NBA e nel 2016 è passato a Sky Sport curando la sezione NBA del sito. Ha tradotto "Eleven Rings. L'anima del successo" (Libreria dello Sport) ed è il curatore della "Guida NBA 2017-18" (Baldini & Castoldi).

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