Ancora una volta, Pep ce l’ha fatta. Ancora una volta, in un match decisivo di Champions, il giardino esteso del suo gioco - con le sue inconfondibili simmetrie ed euritmie - si è intossicato via via dell’atmosfera presaga dei “misteri” di Compton House, e poi congelato in un unico labirinto di siepi senza uscita, simile a quello dell’Overlook Hotel in Shining. A meno di non ricorrere al “pensiero magico” (la macumba del procuratore di Yaya Touré), le cause dell’ennesima incompiuta europea sembrerebbero assodate: su tutte, la recidiva di un amletismo autodistruttivo (qui riassunto anche dal look “dark” di Pep) che lo porta a ridisegnare tracciati conosciuti nei momenti-chiave, seminando nella squadra incertezze e spaesamenti: l’Overlook Hotel come prodotto dell’ormai leggendario, inguaribile “overthinking big games”. I cui tratti specifici, nella notte di Porto, sembrerebbero a loro volta ovvii: la (re)immissione di una punta (Sterling) in un assetto ormai rodato su uno o più “falsi nove”; l’arretramento di uno dei polivalenti offensivi acquisiti (Gundogan, 17 gol stagionali) nella posizione che avrebbe dovuto essere di un “interditore” (Rodri o Fernandinho); e vari altri “tradimenti” e/o azzardi (le posizioni di Foden e De Bruyne, la rinuncia a Cancelo e il ricorso a Zinchenko, i cambi prevedibili). Un mix di distorsioni che avrebbe (pre)disposto la squadra come un agnello sacrificale nelle fauci spalancate del 3-5-2 (o meglio 5-3-2, pur sfrangiato) del Chelsea di Tuchel.
Molte di queste critiche (emesse inevitabilmente a posteriori e in totale assenza di prove controfattuali) contengono diversi elementi plausibili, specie se formulate non in modo impressionistico (vedi Capello, come altre volte sbrigativo e sprezzante), ma argomentato e analitico (vedi Fabio Barcellona). Si tratta però, in ogni caso - per usare un discrimine della biologia - di cause “prossime” o funzionali; quelle cause, cioè, che rendono conto soprattutto del “come” di un evento o di un processo. Mentre il “perché” può essere descritto/esplicato solo risalendo alle sue cause “remote” o evolutive: non contingenti, ma storiche, nel senso della storia evolutiva (per lo più genetica) di un individuo o di una specie. Un esempio classico è quello di una frattura, dove la causa prossima (funzionale) è data da un urto o una caduta, e quella remota (evolutiva) dalla predisposizione genetica a sviluppare osteoporosi e quindi fragilità articolare.
Foto di David Ramos / Getty Images.
Provare a indagare le cause remote della sconfitta di Pep (e della vittoria di Tuchel) può essere forse utile per la messa a fuoco di altri eventi o processi collegati: i tanti (troppi) collassi di Pep nelle Champions post-Barça; le vittorie di 3 tecnici tedeschi nelle ultime 3 edizioni (Klopp, Flick, Tuchel stesso, con Klopp e Tuchel in altre 3 finali perse se cominciamo a contare dal 2013); e - a somma di tutto - i confronti-conflitti sottostanti all’evoluzione calcistica dell’ultimo trentennio. Ed è un’indagine, va da sé, che deve partire da lontano.
1. Pep e la matrice Cruijff (o Cruijff-Van Gaal)
Il nucleo radiale della storia ci porta a un incrocio tra la fine degli anni ’80 e la prima metà degli anni ’90, quando tre break - tutte irradiazioni, in modo diverso, della rivoluzione orange di 20 anni prima - scuotono il paesaggio calcistico. Il primo, quello del Milan di Sacchi, sarà di tale impatto a livello di visione filosofico-culturale e di irradiazioni ulteriori da storicizzarsi a sua volta come rivoluzione a sé stante; gli altri due - il Dream Team blaugrana del Cruijff coach e l’Ajax di Van Gaal - saranno i genomi principali, anche se non esclusivi, del gioco che Pep elaborerà col suoDream Team, arrivando alla quarta tra le rivoluzioni “maggiori” del calcio postbellico (dopo quella ungherese e le citate olandese e sacchiana). E proprio lì sta l’equivoco, la divaricazione criptata, quasi rimossa, tanto che ancora il giorno prima della finale di sabato un articolo di Philipp Lahm sul Guardian, insieme intelligente e sfocato, riconduceva il gioco sia del City che del Chelsea all’eredità sacchiana. Un’ascendenza indubbia per Tuchel, come vedremo più avanti; molto meno per il City e per Pep in generale.
Il mandala dinamico di Pep - in evoluzione permanente come un software sempre (auto)aggiornato - si nutre infatti, fin dall’inizio, del Verbo di Cruijff, da lui assimilato come giocatore: il modulo di base (un 4-3-3 o 3-4-3 molto plastico); l’abbozzo della costruzione bassa (i difensori “tecnici” - sia centrali che laterali - per impostazioni e uscite manovrate); il cardine del possesso-fraseggio (l’avanzare per triangoli dinamici); lo sbocco offensivo, in cui più che in ogni altro reparto (o fase temporale) i passaggi “diagonali” servono a disarticolare la difesa avversaria. Ma di poco meno importante è l’ascendenza-Van Gaal: non del coach che Pep ha avuto (col riluttante Mourinho come secondo) al Barça a cavallo del millennio; ma quello appunto, dell’Ajax dei ’90, magari del 23 ottobre ’95 (Real-Ajax 0-2), quando - secondo le parole di Valdano, allora coach Blanco - «un’aquila plana sul Bernabeu con le sue grandi ali». Oltre che a Overmars e Finidi, l’analogia allude con la sua eleganza al “respiro” del team ajacide: quella contrazione-distensione (espansione) che utilizza il portiere come scarico o sfiatamento di disimpegno-costruzione. Dettaglio, quest’ultimo, su cui non a caso si sofferma Marcelo Bielsa nel leggendario incontro col giovane Pep dell’ottobre 2006 (11 ore di conversazione ininterrotta, tra un asado e l’altro, nella magione del Loco a Maximo Paz, Santa Fe); tanto da leggere, in modo controintuitivo, ognuno dei tanti passaggi a Van Der Saar per partita (37 in media) come “l’inizio di un nuovo attacco”.
Quell’incontro - in cui allievo e Maestro sembrano un Adso da Melk e un Frate Guglielmo - è l’acme di un pellegrinaggio argentino in cui Pep incontra diversi Maestri (il Flaco Menotti, in un bar pervaso dall‘odore di whisky) e che concentra tutte le sue influenze meso e sudamericane: il gioco posizionale di Juan Lillo, suo coach al passo d’addio come calciatore al Dorados Sinaloa (e dall’anno scorso al City come vice); la “salida Lavolpiana” (il modo di far “avanzare contemporaneamente” giocatori e palla), brand del baffuto coach argentino del Messico Ricardo La Volpe, team preferito da Pep al Mondiale 2006 (infatti esaltato nella sua rubrica sul Pais); la pressione full court dei team del Loco. Com’è noto, quel mix di imprinting orange e venature “latine” può essere assemblato-armonizzato da Pep al Barça sia perché il totaalvoetbol olandese è ormai acquisito nella sua stratificazione generazionale (semina di Michels con Cruijff giocatore; Cruijff coach; passaggi di Van Gaal e Rijkaard), sia per l’incidenza della didattica della Masia, in cui Pep stesso si è formato. In un ambiente simile, il giovane tecnico può così costruire il suo Dream Team caratterizzandolo nel giro di 2-3 anni per un’inedita e inaudita prossimità tra possesso e pressing, al punto da rendere indistinguibili le due fasi, recto e verso di un flusso che sembra porsi alle altre squadre come una dimensione quantistica rispetto a quella della fisica classica. Il possesso diventerà (resta tuttora) inimitabile per qualità degli interpreti e leggerezza-foltezza delle trame-trine: il pressing porterà a una riconquista sempre più rapida, fino ai “5 secondi” come tempo massimo per performarla. E qui si c’è l’incidenza di Sacchi.
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Anche se, a ben guardare, il pressing del Barça è più una conseguenza implicita dell’attacco posizionale (un subitaneo riassetto con spostamenti minimi dei giocatori verso la palla) che un’acquisizione dei posizionamenti e delle marcature preventive previsti dalla disposizione sacchiana. Tanto che spesso le “scuciture” e gli “scompensi” blaugrana determinati da una riconquista mancata (e da una copertura relativa non adeguatamente predisposta) vengono suturate dalla qualità e dall’agonismo individuali (Puyol, Piqué, Mascherano, le uscite - non sempre sincroniche- di Valdés). E questo perché Pep ha costruito il suo gioco soprattutto sulla matrice-Cruijff, o Cruijff-Van Gaal. La matrice sacchiana nel suo insieme- il suo core concettuale - ha preso da tempo altre strade: in primis, quella della Germania.
2. La Germania e la matrice-Sacchi
La “Rinascenza” del calcio tedesco (Das Reboot, come titola un libro-chiave di Raphael Honigstein) è legata a diversi fattori, tra cui la Rivoluzione delle Academies” concepita dalla DFB- e affidata a all’ “uomo dell’Est” Dietrich Weise- nel’96, dopo un Europeo vinto ma con un gioco opaco (“feo y aburrido” avrebbe detto il sommo Di Stefano). Ma la genesi è a fine anni ’80, cioè proprio il momento delll’assimilazione-elaborazione del sacchismo, che avviene attraverso tre Padri Fondatori: Wolfgang Frank (il padre calcistico di Klopp); Helmut Groß (uno dei mentori-scopritori di Tuchel) e Ralf Rangnick, a sua volta tra i mentori di Tuchel ma soprattutto creatore dell’impero calcistico Red Bull e deus ex machina di tutta la Rinascenza (che si potrebbe tradurre anche come “riavvio” o, con metafora intracalcistica molto appropriata, “ripartenza”). Tre coach, va detto subito, nativi del Baden-Württemberg (la regione della Foresta Nera), tanto da far parlare di una specifica scuola legata al toponimo; assunto dimostrato e confermato in modo spettacolare - quasi inquietante - dal fatto che siano nati nel B.W. pressoché tutti i tecnici di riferimento delle generazioni successive: Klopp stesso; i “federali” Klinsmann, Löw e il suo secondo Hansi Flick; i meno conosciuti Alexander Zorninger e Markus Gisdol. Eccezioni parziali, Tuchel e Nagelsmann, della confinante Baviera. Unici veri alieni, Roger Schmidt (Renania-Vestfalia) e Marco Rose (di Lipsia, uomo-Red Bull appena passato dal Gladbach al BVB).
I tre Padri sono influenzati anche da altre avanguardie-sperimentazioni, come riassumono le accensioni di Rangnick, prima folgorato, come mediano del Viktoria Backnang (6a divisione), dalla cyber-Dinamo di Lobanovskij (“sembrava di giocare contro 13 o 14”); poi, come coach, da tutta la new wave italiana del tempo, fosse il 5-3-2 del Parma di Scala (i cui video vengono proiettati, proprio con quelli della Dinamo, ai giocatori dell’Ulm, tra questi un giovane Tuchel, che ne ha riferito di recente) o il Foggia di Zeman (trovandosi una volta in vacanza nei paraggi del ritiro sudtirolese del team, RR costringe ogni pomeriggio la moglie a seguire con lui il massacrante training del boemo). Ma l’attrazione per Sacchi diventa presto ossessione quasi esclusiva: Frank da solo (Klopp dixit), Groß e Rangnick insieme, disfano i videolettori nel mandare e rimandare le vhs del Milan, fino a metabolizzarne ogni singolo frame. La sintesi più efficace, ancora una volta, è di Rangnick: a Milano per i quarti di Champions 2011 (uno Schalke-Inter che finirà con un clamoroso 2-5), RR rilascia esternazioni definitive: «Che cos’ ha fatto per il calcio quell’uomo che sembrava Louis de Funès e che prima vendeva scarpe, è incredibile. Credo che ogni giocatore che sia stato alle sue dipendenze sia più istruito tatticamente di qualsiasi insegnante dei corsi per allenatore». Si tratta di tre figure a un tempo affini e opposte, che contribuiscono in modo diverso alla trasmissione (personalizzata) del sacchismo.
Di carattere prussiano-nietzschiano (disciplina e volontà di potenza) con venature misticheggianti, Frank è un’ottima punta (nickname di “pulce” molto prima di Messi), che lascia come coach ricordi leggendari nel minuscolo borgo di Glarus, Svizzera “romancia”, prima di fondare letteralmente il Mainz nei secondi anni ‘90. Quando vi irrompe - ricorda Klopp, in quel momento difensore-, il team è in un’umiliante arretratezza: il precetto-guida è di “inseguire l’avversario fin sotto la doccia” e in generale i giocatori si sentono “abbandonati nella giungla, con poche nozioni basiche”. Frank impianta dal sacchismo parecchi costituenti: il 4-4-2 con difesa senza libero (una bestemmia); l’assetto corto e compatto; i movimenti sincroni di aggregazione/distensione (la ricerca dell’“unisono”). La sua morte precoce (nell’autunno 2013, a soli 63 anni, per un tumore cerebrale) sarà per Klopp uno dei due lutti-spartiacque (l’altro è quello del padre biologico, morto sempre di tumore, al fegato, e a sua volta a soli 68 anni); ma l’eredità tecnica e umana sarà profonda e indelebile, per certi aspetti non diversa da quella lasciata da Cruijff a Pep.
Groß è invece un ingegnere civile prestato al calcio (almeno all’inizio) che a sua volta scolpisce un capolavoro di provincia nei primi anni ’80 (il club della nativa Geislingen, di nuovo 6a), squadra che nell’84 - col suo successore Baumann, ma con impianto e schemi del tutto suoi - riuscirà a eliminare dalla Coppa di Germania l’Amburgo di Happel e Magath (i carnefici della Juve di Atene), col giocatore impressionato dallo “sciame d’api” avversario. In quello stesso periodo, del resto, Groß si leva una soddisfazione simile in prima persona, bloccando sull’1-1 (col Kirchheim, stavolta solo 5a divisione) proprio la Dinamo di Lobanovskij, uno dei miti dei Fondatori. Allo Stoccarda - tra fine anni ’80 e inizio anni ’90 - introduce uno dei principi-cardine del sacchismo, la «copertura spaziale orientata sul pallone», che prevede l’integrazione tra il pressing in superiorità numerica (per la riconquista rapida) e l’accelerazione immediata. Decisive alcune sue innovazioni nel training, come gli esercizi estesi da 30 a 60 secondi a una velocità/densità situazionale superiori a quelle della partita, per aumentare le capacità percettivo-cognitive dei giocatori e attenuare l’unfamiliar della partita stessa. È uno dei cardini - per sua stessa ammissione - del training di Tuchel, che allo Stoccarda guida le giovanili tra 2000 e 2006: alzare l’asticella in settimana fino al parossismo per “volare in partita” nel weekend.
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Quanto a Rangnick - carattere ciclotimico, tra pathos estremo e down depressivi - è soggetto degno di un libro. I suoi molti capolavori “sul campo” (Ulmn - con Tuchel come giocatore -, Hoffenheim, Schalke, Lipsia e tutti i team RedBull come coach e/o dt) rischiano di essere velati dal suo enorme talento nello scouting e nel paternage, che gli ha fatto scoprire decine di calciatori di ogni nazione e tenere a battesimo molti coach next-gen, Nagelsmann in primis; e dal suo ruolo di coscienza teorica della “Rinascenza”, di “intellettuale” sempre avanti a tutti nell’aggiornare il training: vedi la necessità di adeguare il quadro neuropsicologico (allenamento della soglia d’attenzione e della velocità decisionale-esecutiva individuale e di gruppo) a un calcio fondato su un‘intensità estrema (maggior corsa sia sul fondo che sulla resistenza alla velocità) e sulla contrazione spazio-temporale delle dinamiche di gioco. C’è un recente dato crono-statistico, su cui RR insiste, che sembra riassumere tutto e che potrebbe essere una didascalia del calcio di Tuchel: «La più alta probabilità di segnare è entro 10 secondi dalla riconquista della palla; la più alta probabilità di riconquista della palla è entro 8 secondi dall’averla persa». Siamo in pieno sacchismo 4, forse già 5.0.
3. Il conflitto sottostante: matrice Cruijff (o Cruijff-Van Gaal) vs. matrice-Sacchi, ovvero Pep contro tutti (o quasi)
A questo punto, dovrebbe intravedersi, se non la mucca nel corridoio, almeno la sagoma nella nebbia: il confronto per l’egemonia - filosofica e di risultati - tra il calcio di Cruijff e Van Gaal e quello di derivazione sacchiana. Ovviamente - è quasi retorico ricordarlo - nell’attuale calcio mixed (ma il calcio è sempre stato così, fin dai tempi di Chapman e Meisl, solo che ora il processo di métissage è più rapido e complesso) ogni matrice o “forma” o “architettura” di squadra è spuria, ibridata, composita: il calcio di Pep è molto più stratificato-sofisticato di quello di Cruijff, in fase di possesso e non-possesso, e ha dovuto integrare nel sistema una maggiore attenzione difensiva. Così come, a rovescio, il neosacchismo tedesco ha a sua volta mutuato da Pep (quindi da Cruijff e da Van Gaal) una maggiore propensione al possesso: sia Klopp che Tuchel indicano in Guardiola stesso un “modello”, e in effetti il Liverpool degli ultimi tre anni e lo stesso Chelsea contemplano un possesso-fraseggio più pronunciato rispetto al sacchismo (non al Milan di Sacchi, cosa a sé stante) di penultima generazione.
Ma al di sotto, come una brace ostinatamente accesa, il confronto-conflitto persiste. Si tratta, va da sé, di un confronto interno al calcio totale, o almeno a un calcio dinamico e altamente proattivo. Solo che le rispettive gerarchie, nonostante le ibridazioni e i feedback reciproci, restano diverse; da una parte abbiamo un gioco proattivo fondato prevalentemente sul possesso-fraseggio, inteso come mezzo di disarticolazione dell’assetto dell’avversario e come protezione-prevenzione intrinseca dalle sue ripartenze; dall’altra un gioco proattivo fondato prevalentemente sull’aggressione alla palla (il pressing) negli spazi e nei tempi funzionali alla ripartenza e al contrattacco. È un discrimine filosofico-cognitivo che si converte poi in discrimine strutturale-tattico: quando Pep riconosce a Tuchel e a Conte di svolgere un “gioco posizionale”, si affretta ad aggiungere una postilla orgogliosa (“ma diverso dal mio”), rivendicando, in quella diversità, soprattutto quel discrimine, quella differente priorità gerarchica tra possesso e pressing.
Ora, mentre il (neo) sacchismo nelle sue variazioni e gradazioni - orto ed eterodosso, hard e soft, offensivo e difensivo - trova decine di applicazioni differenziali (al punto da aver di fatto pervaso, come in un mutamento di paradigma assimilato, quasi tutti i team di un certo livello), da chi è praticato (oltre che da Pep) il calcio della matrice-Cruijff, in cui il possesso-fraseggio venga prima dell’aggressione allo spazio e della ripartenza? Dal Barça, ovviamente, che però dopo la sua partenza ha offerto, di quel calcio, versioni, sbiadite (Tata Martino), troppo discontinue e “mediate” (Valverde) o arcaico-scolastiche (Setién)), trovando una vaga continuità solo con Luis Enrique, insieme esaltato e vincolato dal tridente-monstre (Messi-Neymar-Suarez). Per il resto, l’elenco è ristretto: il Bayern (anche per lo stesso passaggio di Pep), il suo “allievo” Arteta all’Arsenal, il Sassuolo di De Zerbi; poco altro. Paradossalmente - seguendo le influenze che Pep esercita di volta in volta nei “movimenti” calcistici dei Paesi in cui allena, e non solo - una mutuazione più sistemica è avvenuta e avviene in certe Nazionali: la Germania di Löw, l’Inghilterra di Southgate, il Belgio di un altro catalano come Roberto Martinez. Anche se, alla fine - Germania a parte, che dopo il folgorante Mondiale 2014 perde Euro 2016 per estremismo filosofico, giocando de facto senza punte come il City di quest’anno - sono tutti casi in cui il gioco posizionale di possesso-fraseggio si ibrida poi, specie davanti ad avversari di prima fascia, con un calcio più tradizionale, anche attendistico-reattivo: Belgio e Inghilterra (team a tratti magnifici) somigliano a volte a certi cani eleganti che alle prime gocce di pioggia rientrano prontamente nella cuccia.
Il fatto è dunque che Pep - nella sua incessante elaborazione evolutiva del calcio di Cruijff e Van Gaal; o meglio, ormai, del proprio inconfondibile calcio - paga l’unicità del brand (del touch) con una specie di solitudine irrimediabile. Abbiamo più volte paragonato il suo calcio al pianismo di un Benedetti Michelangeli o - specie per il City degli ultimi anni - ai legati dei Berliner sotto la direzione di Karajan. Ed è noto, al riguardo, il videomonologo - quasi poetico, nel suo dolce mix di rassegnazione e ammirazione - in cui il Loco Bielsa getta la spugna, definendo il calcio di Pep - le sue “magie” - “difficilissimo da copiare”: «anzi, ormai mi sono abituato al fatto che non ci riuscirò». Ma tutto questo ha un prezzo, quasi faustiano: la Quest di Guardiola verso una perfezione sempre differita (come la famosa “utopia regolativa” di Kant) non può trovare le fonti che in sé stessa, nel proprio percorso, o nei dialoghi interiori col suo padre filosofico Cruijff; di cui Pep non cessa - in ogni momento-, di lamentare la mancanza.
4. Le metamorfosi di Pep e il redde rationem nella Premier-NBA
Nel football dell’ultimo decennio, o meglio degli ultimi 13 anni - cioè da quando Pep ha cominciato ad allenare - la lotta per l’egemonia a livello di risultati e gioco (l’egemonia è sempre una mediazione tra risultati e gioco) ha visto la sua figura come termine permanente opposto al variare dei competitor (Ferguson, Mourinho, Klopp, ora Tuchel, a tacere di Ancelotti e Zidane). Ma col tempo - almeno a livello di Champions, la dimensione che qui soprattutto ci interessa - la leadership di Pep sembra seguire, per certi versi, la parabola di Federer: solo una minoranza contesta il suo primato “estetico”, ma i competitor diretti (e non solo) cominciano a batterlo con frequenza, sovvertendo la leadership.
Dal 2008 al 2012, Pep vince al Barça due intensi “braccio di ferro”: il primo, quello con lo United di Ferguson, no contest, con le due finali Champions (2009 e 2011) vinte non solo con un aggregate spietato (5-1), ma con un gap di gioco molto marcato; il secondo, quello con l’Inter e il Real di Mourinho, più contrastato - almeno all’inizio - ma ratificato (anche a livello di immaginario) dalla Manita del novembre 2010 e dalla semifinale Champions 2011 (quella dei “Por qué?). Ma sia Sir Alex che Mourinho erano lontani dal neosacchismo tedesco: anche se - per osservatori non prevenuti -il calcio del portoghese è stato a lungo innervato di sacchismo personalizzato, specie nel pressing alto/altissimo: vedi, in Champions, la finale 2004 contro il Monaco di Deschamps o, l’anno dopo, il formidabile 4-2 negli ottavi, col Chelsea contro il Barça di Rijkaard e Dinho.
I problemi cominciano nel post-Barça, con l’accavallarsi tra l’adeguamento-adattamento di Pep all’antropologia e alla tattica dei Paesi ospitanti (che si tradurrà, come detto, in un reciproco feed-back di influenze) e il crescendo del neosacchismo, che arriverà a piena maturazione coi tecnici tedeschi nella Premier, intesa come un comparto di NBA per livello di team e di coach. Ma non bruciamo i passaggi.
In Baviera (2013-16), Pep comincia a sintetizzare il retablo barocco blaugrana, contaminandolo col Bauhaus locale: al mutare dell’hardware (giocatori più atletici e “un po’ meno” tecnici) deve mutare il software, il disegno del mandala, che si arricchirà di innovazioni, come l’accentrarsi degli esterni, Lahm in testa. Vincerà quasi tutto il “dovuto” in Germania; e in Champions (nonostante tre uscite semifinale) produrrà diverse partite memorabili, a cominciare da quella con cui si presenta al club futuro, City-Bayern 1-3 (2 ottobre 2013), riassunta nei 3 minuti e 27 secondi (tra ‘64’ e ‘69’) che vede i biancorossi eseguire un rondo impressionante per “precisione, velocità, durata”, acme di 80 minuti che ipnotizzano l’Etihad. Ma il neosacchismo tedesco in quella fase è in sonno, o meglio asincrono rispetto alla forza del Bayern: il BVB di Klopp è nell’implosione successiva alla finale persa col Bayern di Heynckes, mentre i team di Tuchel (quelli in cui subentra a Klopp come doppelgänger, Mainz e BVB stesso) in modo diverso acerbi. Anche se un paio di situazioni in Coppa di Germania coi gialloneri (l’uscita per mano di Kloppo nella semifinale 2015, oltre a un feroce 0-3 in Bundesliga; la vittoria del torneo l’anno dopo ai rigori dopo uno 0-0 in cui Tuchel lo addomestica), suonano, a posteriori, come rintocchi allarmanti.
Anche nell’approdo al City (2016-), l’impatto con clima (i lunghi inverni alla GoT) e fisiologia-antropologia (il calcio-rugby “kick and rush”) imporranno un aggiornamento di software: a un certo punto, Pep si sfoga in un ‘intervista con Henry lamentando l’impossibilità di “pressare le palle aeree” e di giocare in possesso se tutti attaccano “persino la terza palla”. Comincia così un paziente lavoro di riassetto-rimodulazione sui numeri del mandala: i citati 5 secondi della riconquista a palla persa; i 15 passaggi come minimum di fraseggio per disarticolare l’avversario: i 20 riquadri di partizione del campo, i 4 orizzontali e soprattutto i 5 verticali, in ognuno dei quali non devono mai stare più di due giocatori a diversa profondità.
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La costruzione - e poi la variazione - dei diversi City passa per varie sequenze, tre delle quali decisive (di diversa lunghezza e intensità); sequenze in cui Pep tocca con mano l’emergere dei “mostri” neosacchiani, realizzando quello che già sapeva da tempo: che la matrice-Cruijff (o Cruijff -Van Gaal) patisce con quella sacchiana un gap strutturale, di sistema, quanto a controllo generale e a prevenzione/azione difensiva. E che quindi, almeno per sostenere - se non piegare - l’evoluzione della matrice-Sacchi deve spingere il proprio gioco - in quanto evoluzione della matrice Cruijff - agli estremi. Tutto questo dando per implicita una sostanziale equivalenza tecnica dei team in lotta: o meglio, che tutti i team in lotta dispongano dei giocatori i più funzionali possibili al proprio calcio: dato non scontato, perché - come ha notato Paolo Condò - il City in questi anni ha speso molto ma non (sempre) bene, assemblando organici con tanti giocatori di valore medio-alto ma con pochi veri campioni/fuoriclasse.
Digressione/flashback
Qui si impone una digressione necessaria. Nel senso che Pep tocca con mano da coach (nel redde rationem col neosacchismo tedesco) quello che aveva toccato con mano da giocatore. Da diciottenne, nell’ultimo anno alle giovanili (1989), aveva assistito all’unico “frontale” Cruijff-Sacchi della storia: la doppia finale di Supercoppa europea, Barça-Milan. Un confronto imbarazzante, col Milan (senza la dorsale Baresi-Ancelotti-Gullit) dominante sia al Camp Nou (1-1) che a San Siro (1-0) e score molto indulgente per i blaugrana. Mentre da play di quel Dream Team, Pep - dopo aver vinto la finale Champions ’92 a Wembley contro la Samp di Boskov - perdeva quella del ’94 nella débâcle di Atene: uno 0-4 contro un Milan che Capello (senza Baresi e Costacurta) conduceva con un implacabile sacchismo difensivistico, a evidenziare brutalmente i limiti (struttural-posizionali, dinamici, temperamentali) di quei blaugrana, peraltro ancora sotto sbornia per la vittoria in Liga. E’ molto probabile, per inciso, che lo-0-4 interno del Bayern contro il Real di Ancelotti (aprile 2014) sia risuonato come un’eco (un “richiamo”) di quella débâcle.
La prima sequenza del confronto col neosacchismo in Inghilterra è col Chelsea post-Mourinho di Conte, ed è racchiusa tra due match esemplari: in City-Chelsea 1-3 (dicembre 2016) il team di Pep gioca un’ora astrale, poi, dopo una traversa di De Bruyne per il possibile 2-0, si scollega dal mondo reale, subendo ripartenze a raffica dal calcio-fionda di Conte e inabissandosi; mentre Chelsea-City 0-1 (settembre 2017), è l’elaborazione di quel micro-trauma, coi Citizens che vincono a Stamford Bridge (0-1) esemplari per pressing, anticipi, inibizione sistemica delle ripartenze Blues.
La seconda è la contesa col Liverpool maturo di Klopp: la più alta, per ora, nel calcio del Millennio. Una contesa che si traduce via via - per feedback reciproci, proposte e controproposte, sorpassi e controsorpassi - in un fugato infinito simile a una sorta di coevoluzione darwiniana, che produrrà due superorganismi o intelligenze collettive sempre più complesse e sofisticate. Per rispondere al neosacchismo heavy-metal di Klopp (la ricerca di una “ripartenza permanente” condotta ai limiti del parossismo, coi tempi di recupero-palla ridotti al minimo consentito dalla fisiologia umana e un’accelerazione-essenzialità algebrica nelle uscite-contrattacchi), Pep plasma un team al grafene, il materiale leggero e tenace scoperto proprio nell’ateneo di Manchester: un possesso-fraseggio che rende più essenziali e penetranti i movimenti sincronici del suo gioco posizionale, con e senza palla, affinandoli - come si diceva - in un legato da archi dei Berliner. Sintesi della nuova configurazione è Kevin De Bruyne, il “Ron” di Harry Potter che gioca sul binario 9 e ¾, incarnando la plasticità del mandala coi suoi tocchi brevi o medi o i suoi “rilasci” (assist) in profondità, secondo la configurazione del paesaggio tattico. Ma se il confronto con Conte è vinto sine dubio, quello coi Reds non è nemmeno impattato: perché il City delle due Premier titaniche (dei 198 punti) non è all’altezza dei Reds dell’anno e mezzo pre-COVID (quello della Champions vinta e della Premier acquisita a Natale 2019); la massima espressione della matrice Cruijff-Van Gaal non arriva alle altezze della massima espressione del neosacchismo offensivo. Come mostrano certi spietati confronti diretti: i due quarti Champions del 2018 (aggregate 5-1 per i Reds) e Liverpool-City 3-1 del novembre 2019.
Al punto che la terza sequenza (il City 2020-21) sviluppa il nuovo software con due imperativi principali: tentare di suturare il nuovo gap coi Reds e di rimediare a 7 anni di turni-out in Champions con cifre-horror (4 vittorie e 9 sconfitte, 17 gol fatti e 31 subiti). Un software - maturato anche dalle critiche di Van Gaal nel suo ultimo, urticante libro: LvG: de trainer en de totale mens - votato a mediare con certi estremismi: pressing dosato per timing e comparti; acuizione della polivalenza di tanti giocatori in fase offensiva; una “salida Lavolpiana” meno rischiosa e posizionamenti preventivi più rigorosi; pazienza nel cercare penetrazioni meno insistite ma più chirurgiche, con un minor numero di tiri complessivi effettuati ma un miglior rapporto tra tiri complessivi e tiri in porta. È una mutazione che paga, ma alimentando anche un’ingannevole prospettiva trompe-l’oeil. La Premier è presto (ri) vinta, ma il competitor principale (i Reds) non viene contro-sorpassato: implode (si spera in eclissi) all’esplodere del COVID, tra crolli strutturali (i 4 centrali di difesa tra infortuni e cessioni), l’amputazione sensoriale-affettiva di Anfield, e un progressivo décalage motivazionale. Mentre la finale di Champions viene raggiunta con autorità ma anche con fortuna (la defezione di Mbappè), facendo emergere alla lunga, come effetto collaterale del nuovo software, un “braccino corto” offensivo latente coi due Borussia (al gol di Bellingham il City è fuori) e manifesto nella finale di Porto, quando il neosacchismo tedesco in terra britannica, cacciato dalla porta (i Reds) rientra dalla finestra (i Blues).
La vittoria di Tuchel - alla luce della lunga parabola appena scorsa - è tutto fuorché casuale. Disegnando una simmetria trinitaria dantesca o bachiana, lo score tra i due coach - 3 vittorie iniziali di Pep; 3 pareggi al centro, 2 dei quali risolti per il catalano dai rigori; 3 vittorie dello svevo quest’anno - mostra la soggezione di un allievo virare in addomesticamento e poi in sovversione. A impressionare, a Porto, non è stato tanto lo “spreco” Blues (con punte più incisive il divario sarebbe stato più netto), quanto l’impasse Citizens, col presidio difensivo-dinamico di Tuchel (chiusura delle linee, controllo dei sostegni) a costringere i giocatori di Pep - spesso in colpevole ricezione da fermo - a tentare improbabili scarti individuali, regolarmente abortiti. Ancora una volta, la matrice-Sacchi ha battuto la matrice-Cruijff: anche perché la matrice-Cruijff, a Porto, era molto lontana dal suo zenit. Uno zenit - possiamo starne certi - cui Pep cercherà di risalire in fretta.
5. I mostri dell’Id e il vaso del Principe Myškin
Questa disamina della finale di Champions - ricollegata all’“albero filogenetico” da cui deriva - porta con sé ovvie e varie considerazioni, anche malinconiche, a partire da quella sul sacchismo attecchito in Germania ma declinato presto proprio da noi, col ritorno del nostro calcio - salvo eccezioni - a una compiaciuta arretratezza.
Resta, però, anche una connessione da completare: quella sull’amletismo - sull'“overthinking”- di Pep. Anche perché diversi collassi di Champions sono avvenuti “fuori” dal neosacchismo: se lo 0-4 con Carletto e l’eliminazione con Simeone sono riconducibili a una sorta di “sacchismo temperato” e a un ossimorico “calcio totale difensivo” venato di movimenti sacchiani, lo stesso non si può dire per le notti patafisiche con Monaco, Tottenham e Lione, eliminazioni che hanno rivelato in Pep una vena “zemaniana”. La domanda è basica: perché Pep si ostina a fare “cazzate” nei grandi match? (termine usato da lui stesso per descrivere il 4-2-4 azzardato per la prima volta in stagione” la sera di Bayern-Real 0-4, ma che potrebbe estendersi alla goffa difesa a 5 anti-Lione del Ferragosto scorso e ad altre scelte, comprese, almeno in parte, quelle di Porto). Con una chiosa importante: quelle “cazzate” sono tali perché riescono nell’impresa di distorcere un “sistema” (il mandala) “quasi” impossibile a distorcersi, data la sua altissima flessibilità intrinseca.
Tutto dipende - inutile girarci intorno - dal fantasma della “terza” (Champions) da vincere “senza Xavi-Iniesta-Messi”, fuori dalla placenta blaugrana: “senza Xavi-Iniesta-Messi”, quasi un sussurro che rimbomba negli incubi delle vittime di certi noir. Il brand estetico e l’impatto culturale di Pep sono infatti ormi acquisiti, storicizzati; e lui forse dovrebbe davvero entrare nell’ottica “zen” che dice di invidiare all’amico Carletto. Ma le ossessioni - come le passioni - non si scelgono, o non del tutto. Così, in tante di quelle nottate, Pep ha ricordato il professor Morbius del Pianeta proibito, insinuante e modernissimo film di SF anni’50: uno scienziato di intelligenza prodigiosa su un pianeta remoto e un tempo iperevoluto (Altair IV), che però non riesce a comprendere come i “mostri” notturni del luogo - responsabili dell’uccisione di diversi membri di una missione terrestre - siano prodotti della propria attività inconscia, tesa anche a “proteggere” la figlia dalle avance di alcuni degli ospiti. Fuor di metafora, "l’overthinking" sembra una secrezione di tortuosità (più inconsce che razionali) dovuta all’unicità-solitudine di cui si diceva: più che un segno di presunzione-arroganza o un “desiderio di stupire”, una manifestazione di incertezza da eccesso di complessità. Né sembra che il vasto staff da cui Pep è circondato serva a risolvere quegli amletismi, piuttosto ad alimentarli e moltiplicarli; e questo anche perché - dopo il Barça - la sua autorevolezza-autorità (diciamo pure sacralità) è diventata tale da inibire ogni vera collegialità decisionale; un’acquisizione di “grandezza” così anticipata si è trasformata in una forma di asservimento a se stesso.
A dirla tutta, quelle scelte (auto)distruttive ricordano l’episodio del vaso nell’Idiota di Dostoevskij. Episodio che vede il protagonista, il principe Myškin (un giovane la cui epilessia metaforizza la sua fragilità davanti alla “crudeltà e all’indifferenza degli uomini”) invitato a un sontuoso ricevimento della generalessa Lizaveta Prokofievna, che gli raccomanda - conoscendone l’inettitudine - di prestare particolare attenzione a un magnifico vaso cinese, appena acquisito a caro prezzo. Ogni esorcismo gestuale e mentale sarà inutile, e il vaso puntualmente urtato e distrutto.
Ma può darsi che tutto questo sia, a sua volta, un “overthinking” su Pep. In fondo, come hanno dimostrato le neuroscienze, quasi tutto il nostro pensiero è inconscio, e noi ne vediamo spesso gli esiti “in differita”. Non è improbabile, quindi, che presto l’inconscio suggerisca a Pep come uscire dagli amletismi e evitare l’Overlook Hotel. Che gli insegni come vincere la “terza” Champions; o come accettare di non vincerne più.