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Dario Costa
I Guardiani del Processo
02 nov 2017
02 nov 2017
J.J. Redick, Amir Johnson e la scelta dei due veterani chiamati a vegliare sui giovani Philadelphia 76ers.
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Dario Costa
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L’esperimento è il seguente: radunate in una stanza tutti i general manager delle trenta franchigie NBA. Nella stanza accanto fate la stessa cosa con i gestori di hedge fund più scaltri che furoreggiano a Wall Street. Ai primi ponete la domanda: “utilizzereste quasi la metà del monte stipendi a disposizione per due giocatori di 30 e 33 anni che nell’ultima stagione hanno registrato rispettivamente 6.5 e 15 punti di media?”. Ai secondi chiedete se riterrebbero producente investire oltre il 40% del portafoglio di un singolo cliente in titoli a brevissima scadenza. Il risultato probabile è che da entrambe le stanze si levi una risata beffarda, con i convenuti che sciamano verso l’uscita scuotendo la testa e dandosi pacche sulle spalle a vicenda.


 

Come spesso succede, una questione in teoria del tutto improponibile prende senso se calata nella realtà dei fatti. Sono le circostanze, quel complesso allinearsi di pianeti e congiunture astrali, a orientare scelte che altrimenti sarebbe impossibile anche solo prendere in considerazione. Lo sanno bene i Philadelphia 76ers e, soprattutto, J.J. Redick e Amir Johnson.


 

Il tesoretto di Sam Hinkie


Oltre alla quantità di talento acerbo ereditata dalla gestione di Sam Hinkie — lascito comunemente rubricato sotto la voce “The Process” — l’inventario che Jerry Colangelo si è trovato sulla scrivania al suo sbarco in Pennsylvania comprendeva un notevole spazio salariale. Nonostante i 34 milioni di dollari investiti in estate su Amir Johnson e J.J. Redick, infatti, il libro paga di Philly per la stagione 2017-18 rimane il terzultimo dell’intera lega. La decisione di non puntare su free agent di grido, un po’ per scelta e un po’ perché il quadriennio di tanking ha lasciato in dote una capacità attrattiva alquanto ridotta, ha consentito di impiegare quel tesoretto in modo poco convenzionale. I due veterani atterrati al Wells Fargo Center hanno accettato una scommessa dall’orizzonte temporale a dir poco limitata: la durata piuttosto inusuale di un solo anno dei loro accordi è stata comunque controbilanciata dalla cifra concessa, oggettivamente fuori mercato con rispettivamente 11 e 23 milioni di dollari.


 

Quando hanno suonato il campanello del nuovissimo Training Complex che si affaccia sul fiume Delaware, Johnson e Redick sapevano quindi benissimo quali sarebbero state le richieste a loro carico. I profili dei due, scelti senza farsi prendere dal panico del turbolento mercato estivo, rispondevano ad aspettative ben precise. Quello che i Sixers andavano cercando era un dottorato in gestione emotiva e motivazionale, caratteristica che al contempo non doveva accoppiarsi a pretese in termini di minuti e palloni giocabili, oltre che di visibilità mediatica. La luce dei riflettori, sul parquet e tra i media, doveva restare fissa e puntata su Joel Embiid, Ben Simmons e Markelle Fultz. Nuovi protagonisti con ego e peso tattico troppo accentuati sarebbero stati d’ingombro per le giovani stelle deputate a riportare la franchigia all’antico splendore. Pur senza aver mai raggiunto successi clamorosi, Johnson e Redick sono stati individuati come interpreti ideali e, pur di portarli in Pennsylvania, Colangelo ha aperto i cordoni della borsa.


 

Veterano, tiratore, specialista


Mentre il gioco prendeva una direzione ben precisa, i Sixers arrancavano ai margini della lega. La scelta di un disegno tattico — e del materiale umano adatto a realizzarlo — non rientrava tra le priorità della prima fase della rivoluzione avviata da Hinkie. Detto questo, se è possibile individuare un tratto comune nel magma del tanking è probabilmente la limitata efficacia nel gioco perimetrale: nell’arco delle ultime quattro stagioni Philadelphia non è mai andata oltre un misero 34% di squadra dalla lunga distanza. Durante la scorsa regular season, poi, nessuno, tra i vari giocatori succedutisi nel roster ha superato la soglia del 37%. Per contro, nelle medesime quattro stagioni, tutte vissute con la maglia dei Clippers, J.J. Redick ha registrato il 44% da dietro la linea dei tre punti (41.5% in carriera, 42.9% durante l’ultima annata a L.A.). Considerata la cruciale rilevanza che le percentuali dalla lunga distanza hanno assunto nella costruzione di un attacco efficiente, è facile dedurre come nell’agenda per il 2017-18 il recupero del gap accumulato rappresentasse un’urgenza.


 

La buona notizia, scorrendo tra le statistiche avanzate relative alla scorsa stagione, è che i Sixers hanno raccolto una più che discreta percentuale di canestri assistiti (63.1% complessivo, dietro solo a Warriors e Celtics), conferma che l’inseguimento di una fluidità offensiva ottimale non è chimerico. In questo senso, l’inserimento di Redick (81.5% di canestri assistiti la scorsa stagione, 95.5% da dietro l’arco) si prospetta come un incastro pressoché perfetto. Giocatore di sistema se ne esiste uno, l’ex-Duke porta con sé l’esperienza accumulata in dodici solide stagioni da professionista. Quest’anno, contro Philadelphia, arrivare tardi sulle uscite dai blocchi o non coprire gli angoli sui ribaltamenti di lato potrebbe risultare letale.


 




Restare un secondo di troppo intrappolati nel corpo del bloccante: altamente sconsigliato.


 


 

 

Con eccellenti passatori abili a ribaltare il lato come Simmons e Saric, occupare gli angoli è fondamentale.


 

La costante pericolosità al tiro di Redick allargherà il campo, oltre a fornire a Brett Brown la possibilità di ampliare la gamma di opzioni tattiche prima non percorribili. Formatosi alla cattedra di Gregg Popovich, per lui sarà un sollievo poter infine rimpolpare il playbook dopo anni di magra dovuta alla mediocrità del materiale tecnico a disposizione. Redick, inoltre, rimane un difensore migliore di quanto riscontrabile dalla mera impressione visiva: il defensive rating registrato la scorsa stagione (105.9) lo piazza davanti a pari-ruolo considerati veri e propri mastini come Patrick Beverly e Avery Bradley. Certo, l’aver giocato tra Chris Paul e DeAndre Jordan ha senza dubbio influito sul risultato finale, tuttavia Redick sembra in grado di non pesare troppo sul rendimento nella metà campo amica — a maggior ragione in un contesto dove il suo limitato atletismo sarà compensato dall’esuberanza fisica dei compagni.


 

Non è quindi difficile intuire come mai il front office di Philadelphia abbia deciso di puntare con forza su di lui. Per il giocatore — anzi, sarebbe meglio dire per l’uomo — la decisione di accettare l’offerta è stata viceversa meno immediata di quanto si potrebbe immaginare. I tormenti famigliari del (non più tanto) giovane JJ traspaiono nel breve documentario, guarda caso intitolato “The Process” e prodotto da UNINTERRUPTED  (piattaforma mediatica curata da Maverick Carter, quindi a un passo di distanza da LeBron James). E se è quasi inverosimile provare empatia per chi tentenna di fronte a un ingaggio di quella portata, dalle parole di Redick emerge chiara la perplessità inerente la durata dell’accordo proposto. Perplessità poi superata per accettare una sfida il cui risultato peserà sulle fortune a breve termine dei Sixers e sull’ultima parte di carriera del giocatore, che è diventato di fatto il giocatore di cui seguire l’esempio in allenamento per la meticolosa cura dei particolari e la professionalità nel gestire un fisico tutto sommato normale, ma che gli ha permesso di avere successo in NBA.


 

Mentore, difensore, esempio


Per quanto riguarda Amir Johnson, le statistiche si sono rivelate aspetto marginale nei ragionamenti che hanno portato Colangelo a mettere sul tavolo il sostanzioso contratto annuale da 11 milioni di dollari. All’ex-Celtics viene chiesto innanzitutto di dispiegare la sua saggezza cestistica a favore di un roster dall’età media assai contenuta. Seppur in circostanze leggermente diverse, a Boston Johnson si è fatto apprezzare proprio per l’apporto positivo al clima di squadra. La sua leadership silenziosa è stata elemento prezioso nel percorso d’uscita dall’epoca “Big Three”, aiutando non poco a modellare l’identità della compagine che ha chiuso la stagione regolare in testa alla conference, tanto che Brad Stevens non ha mai fatto mistero di aver trovato nel nativo di Los Angeles un puntello fondamentale anche come titolare “finto”, dato che non chiudeva quasi mai le partite in campo. La mancata conferma in bianco-verde, dovuta a mere necessità di struttura salariale, è stata vissuta con sincero dispiacere da tutto l’ambiente; Johnson, d’altronde, ai suoi esordi da professionista ha potuto usufruire di un mentore d’eccezione come Rasheed Wallace, privilegio capitato a pochi e imprimatur in grado di segnare l’esistenza di chiunque — oltre a contrassegnarne le abitudini alimentari.


 

Al di là del contributo psicologico, tuttavia, Johnson potrà comunque tornare utile anche in canotta e pantaloncini. Per diversi aspetti il suo profilo tattico è conforme alle esigenze di coach Brown: durante l’ultima stagione, l’ex-Raptors ha giostrato nel camaleontico sistema di Stevens, giocando preferibilmente da ala forte in coppia con Al Horford. I due, nei minuti passati insieme a presidiare il pitturato, hanno fatto registrare un rating difensivo (100.3) migliore di qualsiasi altra coppia in maglia Celtics. La mobilità di Horford, abile nell’inseguire gli avversari più eclettici sul perimetro, ha consentito a Johnson di restare a proteggere l’area, specialità in cui eccelle (51.6 la percentuale concessa agli avversari nei pressi del ferro, quasi 11 punti più bassa della media della lega). Non c’è dubbio che Colangelo e Brown, nel valutarne l’ingaggio, abbiano dato un’occhiata al repertorio sciorinato lungo la dozzina di stagioni in NBA dell’ultimo giocatore liceale a essere scelto al Draft prima della riforma.



Negazione del pick and roll in transizione e controllo del pitturato.



 


Costringere l’avversario diretto alla seconda o terza opzione, per poi aggredire la palla.


 

Considerate le caratteristiche del reparto lunghi dei Sixers, l’esperimento appare ripetibile se non addirittura migliorabile. Embiid, Saric e Holmes, così come lo stesso Simmons in quintetti da corsa, sembrano in grado di seguire fuori dall’area gli avversari più dinamici, consentendo a Johnson di fungere da àncora nei pressi del proprio canestro. Per una squadra che ha chiuso la scorsa stagione concedendo 45.1 punti nel pitturato a partita (21° posto su 30) e il 24.7% dei rimbalzi nella propria area agli avversari, l’aggiunta di Johnson rappresenterà un plus anche in termini di approccio e cultura difensiva. Inoltre, a fronte della presumibile necessità di centellinare le presenze di Embiid e delle ormai acclarate falle di Jahlil Okafor, la posizione di Johnson potrebbe essere molto meno defilata di quanto ipotizzato.


 

Nell’altra metà campo, poi, i limiti che spesso hanno imposto a Stevens di preferirgli Olynyk nei momenti decisivi della stagione saranno mitigati dal talento offensivo a disposizione di coach Brown. Definito con sarcasmo “un mentore da 11 milioni di dollari”, l’ex-Celtics potrebbe invece portare con sé la capacità di applicarsi in quegli aspetti del gioco che non finiscono tra gli highlights di giornata ma che spesso contribuiscono a vincere le partite. Forse non registrerà un minutaggio in linea con l’oneroso stipendio, ma il solo fatto di poter essere d’esempio per la batteria di giovani lunghi potrebbe valere il prezzo pagato. Anche perché Philadelphia, forte delle scelte compiute negli ultimi anni, può senza dubbio permettersi di investire più su quanto viene prodotto in spogliatoio e in allenamento in termini di cultura, professionalità ed esempio piuttosto che per quanto prodotto in campo, almeno per avviare il progetto-rinascita.


 

Guardiani del Processo


Il gap generazionale con il resto del roster è stato un tema sin dai primi giorni del training camp dei Sixers — in particolare per Redick, abituato a frequentazioni molto più adulte durante la sua avventura ai Clippers. Per rendere l’idea, la differenza d’età che lo separa dalla prima scelta assoluta Fultz (14 anni) è maggiore rispetto a quella tra lo stesso Fultz e Chris Paul Jr. (11 anni), primogenito di CP3 visto scorrazzare spesso tra i corridoi dello Staples Center. Entrambi i veterani hanno confessato candidamente di aver faticato parecchio a sintonizzarsi sulle frequenze dei millennials che affollano lo spogliatoio, tanto da dover ricorrere all’ausilio di Google per stare al passo su terminologia e argomenti.


 

Visti da fuori, insomma, Amir Johnosn e J.J. Redick possono sembrare fuori luogo al fianco di Embiid e Simmons, per certi versi interpreti di un basket avveniristico. Eppure il loro contributo sarà fondamentale per accompagnare la squadra in quei progressi di cui i tifosi, dopo aver tollerato un quinquennio di umiliazioni, si aspettano di vedere almeno le prime avvisaglie. Se il destino sarà affidato in gran parte ai F.E.D.S., i due nuovi arrivi saranno per contro chiamati a rivestire la carica di Guardiani del Processo.


 

Già, The Process, definizione il cui significato ormai trascende il senso originario. Perché l’intricato piano di rilancio, ora giunto all’auspicata svolta, ha nel frattempo assunto un’importanza cruciale per gli appassionati di Philadelphia — quasi come la sopravvivenza della galassia per Gamora e soci. E se è complicato abbinare Johnson e Redick a due personaggi del celebre fumetto divenuto poi blockbuster hollywoodiano, i due potrebbero ricoprire il ruolo che ne ‘I guardiani della galassia’ assume il mitico Awesome Mix-Tape. Anche loro non sono proprio un compendio di modernità e, inutile negarlo, confrontati con il resto della compagnia appaiono davvero attempati. Ma se Peter Quill è disposto a rischiare la vita pur di tenere con sé il prezioso nastro, Jerry Colangelo ha dimostrato coi fatti — e con i dollari — il valore attribuito ai due recenti innesti.


 

D’altronde, senza l’ausilio dei Guardiani del Processo è improbabile che l’astronave Sixers riesca a prendere il volo.


 

 

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