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Guardare oggi Pep Guardiola
23 apr 2020
23 apr 2020
Come giocava l'attuale allenatore del Manchester City.
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Foto di Craig Prentis / Allsport
(foto) Foto di Craig Prentis / Allsport
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Quando a 30 anni ha lasciato il Barcellona, Pep Guardiola era il simbolo di un ruolo che sembrava destinato a scomparire con l'affermazione di mediani dominanti a livello fisico, bravi nei contrasti e capaci di coprire grandi porzioni di campo: il regista lento e cerebrale che dirige la manovra davanti alla difesa. Questo almeno era il suo pensiero nel 2004, a tre anni dalla separazione col Barcellona, quando aveva ormai rinunciato alle ambizioni sportive e giocava in Qatar nell’Al-Ahli: «Non sono cambiato. Le mie abilità non sono in declino. È solo che oggi il calcio è diverso, è giocato a ritmi più alti ed è molto più fisico. Anche la tattica è diversa. Per giocare davanti alla difesa oggi devi essere un recuperatore di palloni, uno abile nei contrasti come Vieira o Davids. Se poi sai passare la palla, be’, è una cosa in più. Ma per i centrocampisti centrali l’enfasi è tutta sul lavoro difensivo».

Prima di trasferirsi in Qatar, comunque, Guardiola aveva giocato per un paio di stagioni in Serie A. Lasciato il Barcellona nel 2001, era stato vicino a diverse grandi squadre, tra cui la Juventus del suo idolo d’infanzia, Michel Platini. Alla fine, però, aveva scelto il Brescia, che aveva appena perso un regista piuttosto promettente, Andrea Pirlo. Non era però riuscito a imporsi come Pirlo e aveva giocato in tutto appena undici partite, anche a causa di una squalifica di quattro mesi per doping.

La stagione successiva era passato per qualche mese alla Roma, ma aveva giocato ancora meno, un epilogo che sembrava scritto fin dalle prime dichiarazioni al suo arrivo nella capitale. Guardiola era già una figura abbastanza importante e carismatica da ricevere il benvenuto del sindaco di allora, Walter Veltroni, ma sapeva di non essere il centrocampista ideale per Capello: «Anche se non sono poi così veloce nel correre, non come Lima, Tommasi o Emerson, è la mia natura e non la posso cambiare, se sono lento sono lento. Poi la Roma cerca Davids, un altro veloce… credo però che la tecnica sia la cosa più importante, la chiave di tutto, quello che fa divertire i tifosi allo stadio». Chiusa la parentesi giallorossa dopo cinque presenze, per la seconda parte della stagione 2002/03 Guardiola era tornato a Brescia, per giocare finalmente con continuità.

Notevole soprattutto il lancio al minuto 6:35.

A quel punto, comunque, era già chiaro che si stava preparando a diventare un allenatore. E quindi che tra i motivi che lo avevano portato in Serie A c’era anche il desiderio di aggiornarsi da un punto di vista tattico, di studiare da vicino una delle scuole calcistiche più importanti d’Europa. La mentalità con cui si era presentato a Brescia la racconta bene Juanma Lillo, suo amico già allora, nella biografia scritta da Guillem Balague: «Un mese e mezzo dopo il suo arrivo il Brescia giocava nel modo in cui voleva lui, più che in quello voluto da Mazzone, che però era scaltro abbastanza da non opporsi alle idee introdotte da Pep. Un giorno aveva chiesto dei video sui prossimi avversari da analizzare con i giocatori e lo staff, una cosa mai fatta prima al Brescia». Proprio da Lillo in Messico, con l’idea di studiare i suoi metodi, Guardiola andrà a chiudere la carriera, giocando per qualche mese nel 2006 con il Dorados de Sinaloa.

Lillo ha contribuito in modo decisivo alla formazione da allenatore di Guardiola ma, com’è noto, la persona più importante di tutte è stata Johan Cruijff. Senza di lui Guardiola non sarebbe un allenatore così vincente, originale, rivoluzionario, e forse non sarebbe nemmeno diventato un calciatore di alto livello. Nella sua autobiografia Cruijff lo indica come l’unica persona a cui ha cambiato la carriera: «L’unico per cui sono stato determinante è stato Pep Guardiola. Al Barcellona volevano farlo fuori, lo consideravano uno spilungone incapace di difendere, privo di forza e scarso nel gioco aereo. Gli piovevano addosso un sacco di critiche per le sue mancanze, mentre a mio parere erano tutti elementi cui era possibile porre rimedio con l’allenamento. Quello che la gente non vedeva erano i fondamentali di altissimo livello: rapidità di esecuzione, tecnica, visione di gioco. Sono aspetti che davvero poche persone notano, ma che in lui erano già molto sviluppati».

Secondo Phil Ball, autore del libro Morbo: The Story of Spanish Football, Cruijff si accorse di Guardiola nella prima settimana al suo ritorno a Barcellona come allenatore nel 1988. Durante una partita del Barcellona B si era avvicinato a Charly Rexach, che allora allenava la squadra riserve, poco prima dell’intervallo e gli aveva chiesto chi fosse il centrocampista destro, suggerendogli di spostarlo a giocare come regista nel secondo tempo. Ovviamente si trattava di Guardiola. L’esordio in prima squadra era arrivato due anni più tardi, in una vittoria per 2-0 contro il Cadice poco prima di compiere vent’anni.

Nella visione di Cruijff tutti i difetti di Guardiola, la lentezza, la mancanza di forza fisica, l’inadeguatezza nei duelli, con o senza palla, sparivano di fronte all’unica cosa in cui eccelleva: passare la palla. In campo Guardiola non faceva molto altro: non sapeva dribblare, raramente tirava in porta, ma faceva circolare la palla con rapidità ed era preciso anche su lunghe distanze. Quanto bastava a Cruijff per metterlo al centro del suo sistema, costruito appunto su due fondamentali: il controllo e il passaggio. Per dirlo con le sue parole: «Il calcio consiste fondamentalmente di due cose. La prima: quando hai la palla, devi essere capace di passarla correttamente. La seconda: quando te la passano, devi saperla controllare». Avere un passatore preciso a inizio azione, la fase di gioco più importante secondo Cruijff, era fondamentale per preparare la manovra nella metà campo avversaria, in una sorta di effetto farfalla applicato al calcio. «Un buon passaggio all’inizio può definire il resto della giocata. Cruijff aveva capito che un giocatore era capace di far giocare meglio il resto della squadra», ha detto una volta Guardiola parlando di se stesso.

Da allenatore, a vent’anni dall’incontro con Cruijff, Guardiola cambierà la carriera di Sergio Busquets, forse ispirato da quanto aveva fatto Cruijff con lui. In effetti le due storie hanno diversi punti di contatto. Come Guardiola, anche Busquets stava per essere escluso dal Barcellona per i suoi limiti tecnici e atletici, e come il suo vecchio allenatore si è affermato grazie all’abilità nel leggere il gioco e passare la palla. Tra i loro stili ci sono comunque delle differenze. Busquets è tra i migliori centrocampisti al mondo nel manipolare la pressione e restituire pulita la palla, Guardiola non era altrettanto abile a liberarsi dell’avversario in pressione ma aveva una distribuzione dei passaggi più varia. Sapeva far scorrere la manovra con passaggi corti a uno o due tocchi ma anche lanciare con precisione per un compagno a 50 metri.

Da vertice alto del quadrilatero di impostazione, nel celebre 3-4-3 col centrocampo a rombo costruito da Cruijff, aveva a disposizione numerose linee di passaggio. Quelle corte in orizzontale ai terzi di difesa, in verticale tra le linee per le mezzali e il trequartista, i cambi di gioco per le punte esterne aperte in ampiezza, il filtrante per il centravanti.

In questo caso Guardiola riceve spalle alla porta ma trova il passaggio più vantaggioso, in verticale per Nadal girandosi alla sua destra e utilizzando il piede debole, il sinistro.

La quantità di linee di passaggio disponibili, oltre ad ampliare le sue possibilità di scelta, lo aiutava a giocare il pallone velocemente. Guardiola toccava molte volte la palla durante le partite, ma la teneva per pochi secondi, perché aveva almeno un compagno libero a cui passarla, che spesso individuava ancora prima di ricevere. La rapidità era un aspetto fondamentale per il suo gioco. Se pressato Guardiola non sapeva disorientare l’avversario e liberarsi con un dribbling, quindi poteva resistere alla pressione solo limitando al minimo i tocchi prima della giocata. I suoi difetti li aggirava pensando velocemente e mantenendo una precisione estrema anche nei passaggi complicati.

Non era infatti un centrocampista a cui bastava far continuare l’azione trovando il compagno libero più vicino. Aveva una tecnica di calcio notevole e con il destro poteva raggiungere ogni zona del campo. Nel Barcellona era insomma il giocatore che decideva ritmo e direzione della manovra, alternando passaggi corti e lanci, filtranti e cambi di gioco. Ovviamente molto dipendeva dai compagni che aveva davanti. Quando nella stagione 1993/94 gli equilibri in attacco sono cambiati con l’inserimento di Romário (prima Cruijff aveva spesso impiegato Michael Laudrup come finto centravanti), Guardiola poteva trovare con più continuità i tagli dietro la difesa del centravanti o di una punta esterna. In una famosa vittoria per 5-0 nel Clásico, ad esempio, aveva contribuito a due gol segnati da Romário con un assist e un lancio per Nadal dietro la difesa del Real Madrid.

Guardiola calciava la palla così bene da segnare su punizione dalla trequarti laterale.

Il posizionamento collettivo, il rispetto delle distanze reciproche erano ancora più importanti in fase difensiva. Cruijff di fatto non utilizzava difensori puri. I centrali esterni della difesa erano terzini che avanzavano o centrocampisti offensivi abbassati per rendere ancora più sicura la prima costruzione. I due vertici centrali del rombo di costruzione, cioè il difensore e il regista, erano rispettivamente Koeman e Guardiola, scelti entrambi per le loro qualità in impostazione. «Nessuno dei due era un vero difensore, eppure insieme funzionavano, perché la difesa è questione di posizionamento, velocità di esecuzione e abilità di attaccare. Se la squadra possiede questi tre elementi, non c’è nemmeno bisogno di difendere», scrive Cruijff nella sua autobiografia.

Riferendosi a Guardiola, e spiegando più in generale le sue idee difensive, Cruijff faceva un esempio: «Se io devo difendere questa stanza da solo, sono un disastro, tutti entrano da tutte le parti; se invece io devo difendere solo questa sedia, allora sono il migliore». In realtà non erano rari i momenti in cui Guardiola si trovava a difendere una stanza. I momenti cioè in cui il sistema si sbilanciava, soprattutto dopo la perdita della palla, e Guardiola rimaneva solo a difendere nella terra di mezzo tra i difensori e le linee avanzate. In spazi ampi venivano estremizzati non solo i suoi limiti atletici ma anche la tendenza a commettere falli. Per certi versi è sorprendente che un giocatore così tecnico e cerebrale sia tra quelli che ha ricevuto più cartellini nella storia del Barcellona: 77 gialli e ben 8 espulsioni.

A volte erano le scelte di Cruijff a metterlo in difficoltà. Nel suo primo Clásico, ad esempio, gli era stata affidata la marcatura di Butragueño, un attaccante veloce, svelto di gambe e abile nel dribbling, con le caratteristiche ideali insomma per farlo impazzire. E in effetti, portato a spasso per il campo da Butragueño, non era quasi mai riuscito a contenerlo.

Per quanto potesse apparire assurdo e spericolato, comunque, nella maggior parte dei casi il sistema di Cruijff era efficace anche in fase difensiva. Posizionato fuori dall’area, Guardiola si occupava del recupero veloce della palla e permetteva di riprendere il possesso nella metà campo avversaria, senza forzare gli interventi ma solo scegliendo la posizione migliore per arrivare per primo sul pallone. Anche quando difendeva, insomma, superava i suoi limiti pensando più velocemente degli altri.

Pur essendosi affermato nel particolare sistema di Cruijff, anche negli anni successivi alla separazione col tecnico olandese la centralità di Guardiola nel Barcellona è stata messa in discussione solo dai problemi fisici. Gli infortuni lo hanno colpito soprattutto durante la gestione di van Gaal, che ne aveva riconosciuto l’importanza anche in modo simbolico nominandolo come nuovo capitano.

Nell’intervallo tra i cicli di Cruijff e van Gaal, per una sola stagione Guardiola era stato allenato da Bobby Robson e dal suo traduttore, José Mourinho. In quel Barcellona aveva toccato il record di presenze stagionali (53) ma la sua influenza sul gioco era diminuita. I riferimenti della manovra si erano spostati più avanti e andavano serviti presto, riducendo il suo intervento sull’azione. Era infatti un Barcellona che puntava di più sul talento individuale, soprattutto su quello di Figo e di Ronaldo, per avanzare e creare occasioni.

L’arrivo di van Gaal e il ritorno a un gioco che costruiva l’azione in modo ordinato gli aveva restituito riferimenti e linee di passaggio sicure, ma la zona d’influenza di Guardiola si era spostata diversi metri più avanti, pur rimanendo formalmente un regista. Della prima costruzione si occupavano principalmente i difensori e spesso la palla avanzava sulle fasce con i movimenti coordinati tra terzini, esterni e mezzali, cui si potevano aggiungersi i tagli verso l’esterno di una punta abile a contribuire alla manovra come Kluivert. Guardiola era da tempo riconosciuto come uno dei migliori registi del calcio europeo e veniva ovviamente controllato in modo particolare, per escluderlo dal gioco. Anche per questo interveniva sulla manovra in una fase più avanzata, gestendo la circolazione da una fascia all’altra e potendo cercare i movimenti dietro la difesa dei compagni.

Qui, ad esempio, vede Luis Enrique e gli mette la palla sulla testa.

L’inizio del ciclo di van Gaal, che forse avrebbe potuto allungargli la carriera ad alti livelli, è però coinciso con l’inizio dei problemi fisici che gli faranno perdere la prima stagione con il tecnico olandese e i Mondiali del 1998. Guardiola aveva da poco rinnovato il contratto, l’ultimo con il Barcellona, dopo essere stato vicino alla Roma e al Parma. Alla scadenza del contratto nel 2001 aveva lasciato i blaugrana, giocando l’ultima stagione con Lorenzo Serra Ferrer e Charly Rexach, il suo vecchio tecnico nella squadra riserve.

A quel punto aveva già vinto 16 titoli, era considerato una leggenda del Barcellona e ha quindi potuto gestire in modo più rilassato gli ultimi anni della carriera, preparandosi a diventare un allenatore. Anche se era chiaro quanto fosse predisposto per il ruolo, era difficile immaginare che da allenatore avrebbe avuto così tanto successo da oscurare in qualche modo l’incredibile carriera avuta da giocatore.

In un certo senso, è inevitabile collegare la sua genialità come tecnico al modo in cui stava in campo - razionale, pronto a leggere il gioco prima degli altri per aggirare i suoi limiti. E se uno dei tratti che definiscono i migliori allenatori è la capacità di trasmettere alle squadre parte della loro identità, quella di Guardiola aveva sicuramente a che fare con il controllo del gioco. Proprio quello che era il suo ruolo in mezzo al campo, da giocatore.

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