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Gianni Montieri
La grammatica di Luciano Spalletti
30 mag 2023
30 mag 2023
Un estratto da "Il Napoli e la terza stagione" di Gianni Montieri.
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Gianni Montieri
(foto)
IMAGO / HochZwei/Syndication
(foto) IMAGO / HochZwei/Syndication
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Pubblichiamo un estratto da “Il Napoli e la terza stagione” di Gianni Montieri, edito da 66thand2nd per la collana Vite inattese. Quando il Napoli ha ingaggiato Luciano Spalletti come allenatore – alla fine del dimenticabile periodo Gattuso, all’indomani della mancata qualificazione in Champions League, pareggiando in casa con l’Hellas Verona – sono stato attraversato da diverse e contrastanti sensazioni, e credo di non essere stato l’unico. Spalletti porta con sé una serie di etichette – approssimative come tutte le etichette, quando non sbagliate, ma certo pesanti –, la prima è quella, terribile, di non essere un vincente. I campionati che ha vinto in Russia non contano secondo questa valutazione, naturalmente. Questo assunto viene quasi sempre bilanciato dai commenti su quanto però sia bravo, quanto lo sia stato, quanto sia stato capace di innovare, quanto abbia divertito con la Roma (specialmente) e con l’Inter (in gran parte). E poi un’altra etichetta, tutt’altro che positiva nel calcio di oggi: Spalletti non è capace di gestire i suoi campioni, vedi la questione Totti, vedi la faccenda Icardi. Col senno di poi, forse va detto che dalla parte dell’allenatore stavano più le ragioni che i torti. Icardi, lo abbiamo visto dopo l’Inter: una carriera in declino, non perché sia diventato scarso, ma perché al servizio della sua forza di attaccante andava messa anche la testa, almeno un po’ di più. Il caso di Totti è più complesso, perché Totti non solo è la Roma, è anche Roma, non ne parliamo qua, non ne sappiamo abbastanza, ci sono fili e nervi scoperti, ma di sicuro possiamo dire che non era una situazione facile da gestire, per nessuno. La terza etichetta, anche questa di segno negativo nell’ambiente sempre più mediatizzato, televisivo e social del calcio, riguarda la difficoltà dell’allenatore toscano di relazionarsi con gli altri, soprattutto con i giornalisti: negli anni ci sono stati molti scontri, fraintendimenti, battute cattive o non capite, come in alcune leggendarie conferenze stampa. E insomma, Spalletti è antipatico, così si dice, così si racconta anche chi non ha mai avuto niente a che fare con lui. Proprio pensando all’antipatia – lo confesso, Spalletti non aveva mai fatto simpatia nemmeno a me, non lo conoscevo, ora ho cambiato idea – qualche giorno prima che il tecnico firmasse per il Napoli ho telefonato a Massimiliano Gallo, direttore del «Napolista», ma soprattutto un mio caro amico, con il quale ci vantiamo di sbagliare sempre qualsiasi previsione. Durante quella telefonata abbiamo convenuto che fosse simpatico o meno Luciano Spalletti non era rilevante, l’unica cosa rilevante era la sua bravura, speravamo fosse rimasta intatta e poi, dopo il deludente periodo Gattuso, l’eventuale «brutto carattere» del tecnico rappresentava l’ultimo dei nostri problemi, non ci riguardava né come addetti ai lavori, né come tifosi azzurri. E poi, in fondo i tecnici a un certo punto sono tutti antipatici, se non vincono, se dicono una cosa che non corrisponde al nostro pensiero, se tengono in panchina il calciatore che adoriamo e così via. Per esempio, io amavo Sarri e Massimiliano no, ma nessuno dei due ne ha mai discusso le capacità. Entrambi abbiamo amato Benítez e Ancelotti, in città (specie il secondo) molto meno. Perciò ci siamo augurati buona estate e buon campionato con Spalletti alla guida, sperando soprattutto che qui diventasse vincente, che si sentisse napoletano ma non troppo. Quanto ci abbiamo preso, oh. E poi, lo riconosco, mi ha ma sempre affascinato il modo di comunicare di Spalletti, la sua lingua, la sua grammatica. Una sintassi, una carrellata di immagini, una serie di metafore spesso ai margini della comprensibilità, ma piene di fascino. Frasi che non capiamo, che non capiremo mai, ma che i calciatori in qualche modo capiscono. Ecco, io vorrei che Spalletti restasse a Napoli tutto il tempo che sarà necessario per decifrarlo e – naturalmente – per continuare a vincere il più possibile. Nella conferenza stampa di presentazione, al suo arrivo a Napoli, Luciano Spalletti sembra molto tranquillo e controllato, dice d’aver fatto scrivere un po’ ovunque e sulle magliette d’allenamento la scritta io sarò con te che viene dai tifosi, seguita da ma tu non devi mollare riferita ai calciatori. In quel momento mi è sembrata una cosa abbastanza ridicola, una trovata come tante altre, ma col senno di poi, il tecnico aveva ragione, in fondo un’accoppiata di frasi abbastanza banali ha fatto da preludio al riavvicinamento tra tifo e squadra. Quando l’appassionato capisce che stai dando tutto ti sostiene fino all’ultimo minuto e oltre, quando si accorge che non è così ti abbandona a te stesso, ai tuoi dribbling forzati, ai tuoi tiri che escono sempre di poco ma escono, che due volte su tre si inchiodano sul palo. Spalletti a poco a poco si è fatto capire dai giornalisti, dai tifosi e dai calciatori; infatti, la sua prima stagione si è conclusa – al netto della delusione per le ultime partite – bene, con la squadra che ritorna finalmente in Champions League. Spalletti ha avuto molti meriti e poche colpe, mi sono augurato rimanesse, per fortuna è andata così, e la sua seconda stagione a Napoli è coincisa con quella che chiameremo da qui a sempre: La terza stagione. Eppure, anche se naturalmente oggi, saliti sul carro del vincitore Spalletti, negherebbero, in diversi volevano che andasse via. C’era chi lo chiedeva semplicemente perché non aveva apprezzato il lavoro del tecnico, e chi proprio lo detestava dicendo cose tipo: ti ridiamo la Panda se te ne vai. Frase che rimanda al furto della Panda dell’allenatore avvenuto in città, furto sul quale – come sempre avviene a Napoli – si è detto tutto e il contrario di tutto, e come se nelle altre città non avvenissero i furti d’auto. Io ho sperato rimanesse perché non ero riuscito a tradurlo, a infilarmi in quel suo particolare schema di parole con il quale spiega cosa dovrebbe accadere in campo prima e cosa è accaduto dopo. Spalletti, tra le altre cose, il suo primo giorno da allenatore del Napoli ha detto: a me basta una bistecca al giorno. Ma nemmeno un contorno, Mister, due patate, che so? Voleva dire che è una persona a cui non occorrono molte cose per stare bene. Come parla Spalletti, per metafore certo, anche se sempre meno, non è più il tempo delle bistecche. E neppure delle famose galline del Cioni (vicino di casa del Mister a Certaldo) che hanno bisogno sempre dello stesso quantitativo di mangime al giorno: risposta data a un giornalista ai tempi della Roma, per una domanda su Emerson ritenuta troppo banale. Poi c’è lo Spalletti ossessionato dalle strette di mano, e qui leggiamo anche la sua ansia di vittoria o meglio il suo desiderio di farsi riconoscere come un vincente dall’avversario. Come il linguaggio immaginifico è un modo potente di comunicare ma silenzioso. L’inseguimento tenace ad Allegri, o l’accettazione della sobria stretta di mano di Klopp, dopo i quattro gol rifilati al Liverpool. Spalletti che batte i grandi allenatori, con la bacheca piena di trofei, e lo vuole certificare con il gesto. Ma ciò che più ci interessa ora è Spalletti che spiega la tattica. Frasi che suonano più o meno così: Noi dobbiamo attenderli e poi metterci dietro lo spazio, tra le due linee. Loro sono molto bravi a fare frizione in quella zona del campo, ma se noi andiamo incontro, dobbiamo essere lucidi a far muovere la palla velocemente. Hanno cercato di bloccarci al centro ma noi siamo riusciti a uscire, muovendo sull’esterno e poi tornando indietro e poi ritornando in avanti. Le misure vengono sempre prese in base a chi è l’avversario. Fondamentale è dare seguito per novantacinque minuti. Dentro l’espressione individuale abbinata al collettivo c’è sempre la possibilità. Spalletti parla a modo suo, ma si fa capire, pure con le espressioni del viso, sorride di più di un tempo, e non sono sorrisi mefistofelici, è più tranquillo, pare non avere nulla da dimostrare (anche se probabilmente questo accade perché sta dimostrando quello che vale). Insomma, sta meno sulle spine di un tempo, certo se deve mandare a quel paese un giornalista lo fa, ma Spalletti è sereno, e riesce a trasmettere questa serenità alla squadra. Lo ha fatto dal primo giorno e in questo campionato lo ha fatto sempre. La grammatica di Spalletti unita a quella di Giuntoli e di De Laurentiis ha costruito una squadra che è stata quasi perfetta. E una squadra che gioca benissimo e vince, cosa è se non un linguaggio che funziona? E diciamolo, il presidente del Napoli non sarà mai simpatico, nemmeno a sé stesso, ma l’imprenditore lo sa fare e grazie a Giuntoli ha costruito passo dopo passo una squadra che brilla di talento e che grazie al lavoro dell’allenatore è migliorata nel complesso e individualmente. Chi scrive non avrebbe – fino a metà di questo campionato – scommesso un euro su Matteo Politano, e invece è stato uno dei migliori. Perché? È diventato più bravo? Probabilmente i difetti che aveva li ha ancora, uno su tutti quello di non alzare quasi mai la testa quando avanza palla al piede, eppure, grazie a Spalletti ha saputo prendersi i suoi spazi e sfruttare al meglio le sue caratteristiche: la corsa, il dribbling, la facilità di calcio con entrambi i piedi. Spalletti ha migliorato Osimhen, ha capito l’importanza di Kvara e Kim, ha assorbito le partenze della scorsa estate senza dolore, ma come incentivo a fare meglio. Le ha viste come una possibilità. Ha dato un centro a Elmas, di colpo meno frenetico, più preciso, capace di assist, di corsa, di gol. Negli anni in cui non ha allenato non è rimasto fermo, e non si è chiuso in idee invecchiate, Spalletti ha continuato a studiare il calcio, si è evoluto, il Napoli non gioca come nessuna delle squadre che ha allenato in precedenza. Naturalmente si nota qualche affinità qua e là, ma poi è tutto nuovo, declinabile in molti modi, variabile di partita in partita. Spalletti dà l’impressione di essere severo, rigido, ha smesso però di stare sempre sulla difensiva, ha capito che non ne ha bisogno. La sua squadra sfrutta il rigore per essere duttile, usa lo schema per variarlo, per dare spettacolo, ma lo spettacolo sta in funzione della vittoria. Il Napoli non ha mai buttato via il pallone, non ha mai fatto un passaggio di troppo, nulla di superfluo. Insomma, Spalletti ha costruito una squadra bellissima, e la bellezza nel calcio serve a farci andare allo stadio, a farci vincere, e a vincere sorridendo. La grammatica perfetta di Spalletti non sta nelle frasi simili a stralunati haiku che a volte non comprendiamo, ma si traduce in Kim che anticipa l’ennesimo attaccante, esce palla al piede, appoggia a Lobotka, da questi ad Anguissa, da lui a Kvara, tocco indietro a Mário Rui, cross di prima intenzione, stacco di Osimhen, gol. Questa è l’analisi del periodo del Napoli, la lingua di Luciano Spalletti. Un uomo che – riconosciamogli qui un ultimo talento, e non certo il meno significativo – ha capito la città senza diventarne ostaggio, senza esserne preda.

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