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Valentina Buzzi
Botanica del golf
10 gen 2019
10 gen 2019
I fiori, le piante e gli alberi sono i più importanti testimoni della storia del golf.
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Valentina Buzzi
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Uno dei più conosciuti romanzi sul golf è stato scritto dallo scrittore statunitense Mark Frost e si chiama “Il più bel gioco della mia vita”. Forse chi pratica questo sport sviluppa una naturale tendenza all’esagerazione per affermare la propria uguaglianza rispetto alle altre discipline. I golfisti sono continuamente chiamati ad abbattere decine di pregiudizi sul loro sport – che viene spesso definito da chi lo guarda da fuori come un hobby per vecchi, per ricchi, per chi ha la pancetta - a scardinare un’immagine stereotipata che non sempre corrisponde alla realtà. E nell’affermare la dignità del proprio sport, ricorrono di solito a motivazioni che tirano in ballo la stessa essenza del golf: ad esempio, perché non esiste al mondo altro sport dove ci si arbitra (e ci si infligge penalità) da soli; o perché solo nel golf non esistono avversari - gli avversari, infatti, sono il campo e quel demone interiore che ti accompagna colpo dopo colpo; ma soprattutto perché pochi altri sport ti danno la possibilità di camminare in alcuni dei giardini più belli del mondo.

 

Percorrere un campo da golf può infatti rivelarsi un’esperienza rigenerante anche se non si pratica questo sport. Spesso bastano pochi minuti di auto dal centro per riscoprire quei colori che in città sono ormai inusuali: l’azzurro, il giallo e quel verde potente della vegetazione che inebria, più che rilassare. E nel giro di 6 chilometri (quanto in genere misura un campo) si possono trovare grandi varietà di piante, fiori e arbusti che non siamo più abituati a vedere nella nostra esperienza quotidiana.

 

Gli elementi della flora nel golf non hanno solo una funzione decorativa ma anche una missione strategica ben precisa: servono a delimitare il percorso, ostacolare un colpo, rendere difficile la visuale, proteggere il green. A delimitare i limiti della contesa, insomma. Sono pensati allo scopo di abbellire e allo stesso tempo complicare ogni buca. Sono parte integrante dell’estetica e dell’architettura del campo. Senza la flora, il golf non avrebbe senso di esistere.

 



Nel segno degli alberi, delle piante e dei fiori, si incrociano le storie personali dei golfisti e la storia stessa del golf. Quella di Robert Tyre Jones, detto Bobby, ad esempio, uno dei più grandi giocatori di tutti i tempi.

 

Talento straordinario, ma anche piuttosto fragile: si dice infatti che, in gara, non riuscisse nemmeno ad allacciarsi i bottoni della camicia per la tensione e che, durante i tornei più importanti, non toccasse cibo. Jones era talmente consumato dal golf che già a 28 anni (subito dopo aver vinto il Grande Slam), aveva un solo grande desiderio: lasciare l’attività agonistica e costruire un nuovo club dove poter giocare insieme agli amici, in un ambiente tranquillo, lontano dagli sguardi degli spettatori.

 

Clifford Roberts (responsabile finanziario del progetto) propose come sede Augusta, in Georgia. Una soluzione che a Jones non poteva che far piacere: infatti, nella città del cotone andava spesso d’inverno, per questioni climatiche, sobbarcandosi volentieri i circa trecento chilometri di strada che la separavano dalla natìa Atlanta, dove il freddo si faceva sentire.

 

Individuata la città, non restava che individuare la location. Proprio nei pressi di Augusta, sorgeva una vasta proprietà terriera, un vecchio vivaio abbandonato, che nell’Ottocento era appartenuto a un nobile belga, il Barone Bercksman, il cui hobby era l'orticoltura. Insieme al figlio, agronomo, aveva importato in America una grande quantità di piante sconosciute o poco diffuse, commercializzandole poi in tutto il sud del Paese. Oggi, quell’assortimento di piante e fiori costituisce l’invidiatissimo patrimonio arboreo dell’Augusta National, il campo dove ogni anno si svolge l’Augusta Masters, il Major più esclusivo dell’intero circuito, una sorta di Wimbledon del golf.

 


La tredicesima buca dell'Augusta Masters (foto di David Cannon / Getty Images)


 

Dal punto di vista naturalistico, lo splendore dell’Augusta National è ineguagliabile, contraddistinto da muri di azalee fucsia e rosa, filari di magnolie che conducono alla bianchissima villa in stile coloniale, sede della clubhouse, dove i giocatori mangiano, conversano, si rilassano. E poi pini secolari, ginepri e gelsomini che danno colore e profumano l’aria, impegnando ogni anno oltre 200 giardinieri in operazioni di potatura e fertilizzazione.

 

Ad Augusta, piante e fiori sono talmente importanti da prestare il nome a ogni singola buca. La 10 si chiama

, la 18 è

, cioè agrifoglio, alla 3 ci si imbatte in

, pesco in fiore. E poi c’è la mitica 13,

, dove lo spagnolo Sergio Garcia ha ipotecato il primo Major della sua carriera nel 2017. Azalea è anche il nome di sua figlia, nata qualche mese dopo il trionfo.

 

Nell’Augusta Masters anche gli alberi hanno una storia speciale. In particolare, tra le centinaia di esemplari disseminati lungo tutto il percorso, è sempre esistito un pino dall’aspetto assolutamente comune capace però di entrare nella leggenda, e cioè il cosiddetto l’albero di Eisenhower.

 

Il 34° presidente americano odiava con tutte le sue forze quel pino secolare, piantato a sinistra del fairway della 17,

(panta chiamata a volte anche Bambù sacro), perché spesso e volentieri se lo trovava sulla traiettoria di palla. E più di una volta aveva tentato di convincere i membri di Augusta a tagliarlo. In una riunione dei soci del 1956, lo aveva persino messo all’ordine del giorno, ma alla fine la proposta era stata bocciata.

 


Tiger Woods sotto un ramo dell'albero di Eisenhower, nel 2011 (foto di Ross Kinnaird / Getty Images)


 

Quello di Eisenhower è solo uno dei tanti esempi che dimostrano quanto il rapporto tra golf e politica sia consolidato. Soprattutto negli Stati Uniti, presidenti, come Barack Obama, e segretari di Stato, come Condoleezza Rice, sono spesso frequentatori abituali dei green. E non sono affatto immuni a quello che potremmo definire “il morbo del carrellante”, una sorta di follia che colpisce i giocatori amatoriali e li trasforma in veri e propri fanatici del golf. I carrellanti (cioè i golfisti amatoriali) sono come gli innamorati: improvvisamente conoscono ogni singolo particolare del campo dove giocano la domenica: pendenza del terreno, numero dei bunker, posizione delle piante.

 

Donald Trump, in questo senso, è forse il più grande appassionato di golf nella storia dei presidenti degli Stati Uniti e allo stesso tempo uno dei principali imprenditori del settore. Trump, infatti, non solo passa un’importante fetta del suo tempo nel suo campo a Palm Beach, nel resort di Mar-a-Lago, in Florida, che sembra preferire alla Casa Bianca per gli incontri con gli altri capi di stato e i suoi collaboratori, ma fin dal 2008

campi da golf, modificandoli e a volte ricostruendoli da capo. Oggi ne possiede addirittura 17, tra Stati Uniti, Gran Bretagna e Dubai, alcuni dei quali ospitano alcuni dei tornei più importanti al mondo.

 

Trump, insomma, è arrivato con i soldi lì dove non è riuscito ad arrivare Eisenhower con la tenacia. Nonostante ciò, l’albero di Eisenhower alla fine è stato comunque sradicato dal maltempo. La tempesta di neve che ha coinvolto la Georgia nel 2014, infatti, ha danneggiato il mitico pino che, alla fine, è stato abbattuto.

 

La rimozione dell’albero di Eisenhower non ha creato solo un vuoto fisico, spalancando una prateria verso il green della buca (e rendendo quindi la nuova versione della 17 molto più semplice per i giocatori), ma anche uno metaforico nell’enciclopedia del golf. Tutti e due, in ogni caso, dovevano essere riempiti. E così, l’albero di Eisenhower è stato sottoposto a un immediato processo di rimpiazzo.

 

Tra i candidati è stato subito inserito l’albero della 15 di Chambers Bay, un campo in stile britannico nello stato di Washington, nord-ovest degli Stati Uniti. Un albero che alle spalle non ha lunga tradizione (il club è stato aperto solo nel 2007) ma che sembra possedere una personalità unica.

 





 

Conosciuto come

, cioè l’abete solitario, è infatti l’unico albero che è riuscito ad attecchire sul percorso, che sorge su un sito di sabbia e ghiaia che teoricamente non sarebbe adatto alla crescita degli alberi, e si staglia come un faro dietro al green della buca. Inoltre, nel 2008, è sopravvissuto all’attacco quasi fatale di un pazzo che ha cercato di abbatterlo, colpendolo con un’accetta e lasciando uno squarcio sul suo fusto profondo 15 centimetri. Alcuni esperti avevano suggerito di abbatterlo ma

è stato salvato attraverso uno speciale trattamento con resina epossidica e barre di ferro poste verticalmente lungo la ferita.

 

Seguendo, invece, un criterio puramente scenografico magari avrebbe vinto il

di Pebble Beach, campo da golf affacciato sull’oceano in California. Qui, alla 17, ci si trova davanti a un piccolo gruppo di cipressi nodosi che costringe i giocatori ad allargare pericolosamente il colpo a destra, finendo per flirtare con le acque del Pacifico. Ne sa qualcosa Byron Nelson che, nel 1951, riuscì con una magia a sorvolare l’ostacolo assicurandosi l’ultima delle sue 52 vittorie in carriera.

 

O forse si sarebbe addirittura potuto pensare alle inimitabili palme di Waialae, nelle Hawaii. Posizionate in fondo al green della 16, in realtà non rientrano mai in gioco ma, grazie alla loro forma a W, sono ormai diventate un classico del golf. La loro forma, d’altra parte, non è casuale: chi le ha posizionate così, infatti, voleva rendere omaggio all’epica commedia di Stanley Kramer

, basata su una folle caccia ad un tesoro sepolto proprio sotto una grande W.

 





 

La ricerca ha riguardato più di 100 campi e un numero inestimabile di piante e arbusti. Ma alla fine l’albero non si è spostato dai cancelli di Augusta: a vincere il sondaggio come “albero più importante del golf” è stata infatti un’enorme quercia di 160 anni che continua a crescere e a irrobustirsi vicino alla clubhouse.

 

Ma gli alberi non costituiscono solo l’anima dei campi da golf, ma anche, in un certo senso, la storia dei suoi campioni. Uno degli ultimi esempi arriva il 18 settembre 2016. Al Golf Club Milano, nel Parco di Monza, Francesco Molinari è in lotta per la vittoria del suo secondo Open d’Italia, a 10 anni esatti di distanza dalla sua prima affermazione. In una giornata contraddistinta da un'alternarsi continuo di pioggia e sole, nel testa a testa finale con Danny Willett, Molinari sbaglia il tee-shot della 18 e manda la palla nel bosco. La sua ascesa sembra concludersi lì, ma il campione italiano subito dopo si risolleva con un colpo straordinario, un ferro 4 per tornare sul green che gli permetterà di vincere il torneo.

 

Il colpo di recupero dalle piante è uno di quelli che più entusiasma il pubblico, e sembra un passaggio ineludibile della storia dei grandi campioni. Al Masters, Phil Mickelson (nel 2010) e Bubba Watson (nel 2013) ci hanno addirittura costruito un pezzo della loro leggenda. Ma l’exploit di Molinari all’Open non è da meno: per capacità tecnica, condizioni meteo e grado di pressione agonistica, l’uscita dal bosco di Monza è immediatamente diventato un classico del golf. E per questo motivo il club ha deciso di celebrarlo con una targa posta sul ceppo di un albero della 18, che da quel momento in poi è diventato l’albero di Molinari.

 



La leggenda di Francesco Molinari inizia proprio con quell’albero, per arrivare poi a compiersi definitivamente nel 2018: prima con la vittoria al Quicken Loans, negli Stati Uniti, poi con il primo trionfo di un italiano in un Major (all’Open Championship di Carnoustie, in Scozia) e infine con un ruolo da protagonista assoluto in Ryder Cup, il torneo di golf più conosciuto al mondo.

 

Oggi, il giro di affari che ruota attorno alla Ryder Cup è imponente, con una media aggiornata all’ultima edizione di 300mila spettatori in campo e oltre 500 milioni davanti alle TV di 183 paesi diversi. A più di 90 anni dalla sua creazione, la Ryder Cup è diventata il terzo evento sportivo più seguito in assoluto (dopo i Mondiali e le Olimpiadi), ma non avrebbe mai raggiunto queste dimensioni senza l’impatto decisivo dell’azienda di piante e sementi della famiglia Ryder. E, in primo luogo, senza la geniale intuizione del primogenito Samuel.

 


Phil Mickelson durante la Ryder Cup del 2016 alla buca 11 dell'Hazeltine National Golf Club, negli Stati Uniti, Minnesota (foto di Andrew Redington/Getty Images)


 

Negli anni ’20 del Novecento, infatti, solo i benestanti potevano permettersi di avere un giardino perché i costi di spedizione delle sementi erano insostenibili per i più poveri. Samuel aveva deciso così di trasferire l’attività a St. Albans, 35 chilometri a nord di Londra, sede di ben tre stazioni ferroviarie, per ridurre i costi e ampliare la platea dei possibili acquirenti. Un’intuizione logistica che di lì a poco gli sarebbe fruttata un piccolo impero.

 

Il golf compare nella sua vita casualmente, quando un giorno il medico del paese glielo consiglia come eccellente rimedio ai continui problemi di salute. Ma scoprirsi un vero e proprio talento dello swing alla soglia dei 50 anni non gli basta e Samuel Ryder cerca anche un modo per unire la sua nuova passione sportiva e il business. Inizia così a vendere sementi anche ai campi da golf americani e britannici, incrementando gli introiti. Ed è a quel punto che decide di sponsorizzare di tasca propria diversi tornei sparsi per l’Inghilterra fino a crearne uno proprio: l’antenato della famosa sfida biennale tra Europa e Stati Uniti.

 

Se Samuel Ryder potesse vedere cosa è diventata oggi la Ryder Cup forse nemmeno la riconoscerebbe. Quello che oggi è un mastodontico appuntamento mediatico che coinvolge milioni di persone tra spettatori e sportivi ha in realtà radici lontane e insospettabili. Proprio come quelle delle piante che lo hanno generato.

 

 

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