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(di)
Andrea Beltrama
Curry a casa Jordan
21 gen 2016
21 gen 2016
Siamo andati a seguire i Golden State Warriors sul campo dei Chicago Bulls.
(di)
Andrea Beltrama
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Potrebbe essere un titolo del

per commentare le prime 40 partite dei Chicago Bulls. E invece è il panorama che ci si trova davanti, letteralmente, in un angolo della Windy City che sembra una zona denuclearizzata. La faccia buona dello United Center, quella che guarda

Chicago, è coperta di buche e teloni. Stanno ampliando, costruendo nuovi uffici. Un tentativo di ravvivare una zona dove a farla da padrone sono edifici abbandonati e immensi spazi di asfalto. Per fare spazio al cantiere hanno pure spostato la statua di Michael Jordan, togliendo ai turisti l’unico motivo per avventurarsi da queste parti.

 

Mi presento di buon mattino, in tempo per lo

che precede la partita. In città ci sono i Golden State Warriors, la squadra in missione che sta terrorizzando l’NBA e minacciando record che si credevano imbattibili. Per i Bulls è un’occasione di riabilitazione spirituale. Oppure, inutile dirlo, il rischio di un ennesimo massacro.

 



C’è silenzio all’Advocate Center, il campo di allenamento dei Bulls. Anche per gli standard, tutt’altro che chiassosi, di un mercoledì mattina di gennaio. Lo staff tecnico dei Bulls è tutto nell’elegante Old St.Patrick Church, in piena

, per il funerale di Johnny Bach, ex allenatore e figura semi-mitologica del basket di Chicago. A dargli l’ultimo saluto sono arrivati da tutti gli States vari pezzi di storia dei Bulls, oltre a quelli che sono rimasti nella struttura societaria. Horace Grant, Craig Hodges, John Paxson. E ovviamente Steve Kerr, che nelle foto appese al muro abbraccia Jordan in mezzo ai coriandoli, e che vedere come un avversario risulta sempre difficile. Anche quando allena la macchina da guerra più potente della lega.

 


Memories


 

E così, nello scintillante centro tecnico appena costruito sulle ceneri del vecchio Chicago Stadium, l’attività è ridotta al minimo. Tra una serie di tiro e l’altra, Taj Gibson si ferma a parlare con i quattro presenti. «È stata una settimana difficile. L’infortunio di Noah. La morte di Johnny. Siamo scossi e non ci rendiamo nemmeno conto di chi stiamo per affrontare stasera». Pochi metri più in là, due fotografi di lungo corso provano a elaborare il lutto.

 

«



 

Tweet muto, verrebbe da commentare. Ma non senza una certa ammirazione.

 



Lo United Center è dalla parte opposta della strada. Ma c’è tempo sufficiente per spostare la macchina, farsi inseguire dall’addetto al parcheggio, finire invischiato in una conversazione a metà tra Fargo e Fantozzi. Lui, aggressivo: «What the f**k, ti avevo detto di metterla là!». Io, contrito: «Ok, la sposto, sorry». Lui, trionfante: «Ok, then. Don’t worry. A posto così». Poi, finalmente, il pomeriggio può cominciare. Anzi, no, c’è ancora la signora che gestisce il metal detector per un l’ingresso dei media. Una cura per l’anima, un po’ nonna e un po’ zia. Senza dubbio una delle facce più rassicuranti mai incontrate in sette anni a Chicago. «Dicono che oggi sia meno freddo. Ma non mi pare» esordisce, mentre riempio la vaschetta di oggetti metallici. Annuisco. Poi rispondo giocandomi la carta più vincente da quando è stata inventata la conversazione.

«Non è tanto il freddo. È l’umido, signora!».

Lei mi guarda per un secondo, folgorata. Poi esclama:

«Yes! Exactly!»



Manco avessi detto:

.

 

Passo sotto il metal detector. Ovviamente suona tutto. Ci sono altri oggetti metallici in qualche meandro della giacca. Lei mi strizza l’occhio. Dice che posso andare, non c’è problema. Scendo le scale. Il tempo di rischiare una collisione con Festus Ezeli e finalmente raggiungo la mia postazione.

 



Pur essendo una settimana difficile, il tema del pre-partita è chiarissimo. Ce la fanno questi Warriors a vincere 73 partite? Normale che la domanda sorga spontanea, visto che è proprio tra queste mura, esattamente vent’anni fa, che i Chicago Bulls di Jordan, Pippen e Rodman portarono a casa 72 vittorie in regular season. Ad ora, record imbattuto. E così, tra sillogismi da bar e argomentazioni inconfutabili, si torna a rivivere un’altra epoca. Che i più giovani non si ricordano nemmeno, e che per molti, compreso il sottoscritto, ha segnato il momento in cui la passione per il gioco è nata e si è fatta rapidamente malattia. Erano tempi in cui American Superbasket sparava in prima pagina “

” – quella era la quota che dovevano raggiungere i Bulls – e la leggenda di Michael Jordan entrava nel suo un ultimo, indimenticabile capitolo.  Al mattino, qualcuno aveva fatto notare a Draymond Green lo stendardo delle 72 vittorie. Un panno appena più lungo, nascosto in una collezione di vessilli impressionante. «Non l’avevo nemmeno vista» risponde lui. «L’unica cosa che noto è la maglia col numero 23. Mi basta e avanza».

 


A imperitura memoria


 



Prepartita. Lo schema narrativo della sfida prende corpo. Alle 17.15 tocca a Fred Hoiberg. Si presenta con il classico sguardo innocuo, il volto sbarbato. Sembra un inserviente dello spogliatoio vestito per la domenica, più che un ragazzo prodigio che ha bruciato le tappe.  «Giochiamo contro una squadra che vive di

(di fiammate). Il problema è che spesso queste fiammate durano 48 minuti» spiega. «Tagliano, passano, tirano. Quando vanno in post ti rilassi, perché sai che difficilmente concludono. Ma è con quelle ricezioni che ti ammazzano». Dall’altra parte, Luke Walton risponde con la voce da ventriloquo, mischiando monosillabi a sguardi interrogativi. Se non lo avessimo visto dirigere l’allenamento al mattino, lo penseremmo reduce da un hangover di proporzioni epiche.  Anche se poi, per la verità, proprio al mattino aveva lasciato il campo con cappellino di traverso e canotta, inseguito da un reporter cinese in affannosa ricerca di notizie. «La cosa che mi fa più piacere? Vedere che siamo diventati un fenomeno globale. Che quando andiamo in trasferta la gente viene apposta per noi. Come fanno con i Lakers».

 



Esco sul campo. Le parole di Walton in un’immagine. Steph Curry mitraglia dal perimetro. Sui due lati del campo la folla è in visibilio. Video, foto, improbabili richieste di autografi. Una hostess perde le staffe. «Liberate le scale. Non voglio buttare fuori nessuno stasera». Dalla platea rispondono a tono. «Curry tira troppo veloce, devo potermi muovere per poterlo seguire». Risate di tutti, ma lei rimane imperturbabile. Il fenomeno Warriors è lì da guardare. Si sviluppa in tempo reale. Steph si dirige verso lo spogliatoio. La situazione degenera. Piovono magliette e scarpe. Ragazzine aggrappate alla ringhiera urlano il suo nome. Un bambino con la canotta di Davidson si gioca la carta della cortesia. «Mr. Curry!» urla ossessivamente. «Mr. Curry, please».  Vorrebbe un autografo sulla divisa della sua alma mater, ma deve lottare con un’orda invincibile. Curry firma, si ferma, torna indietro, firma ancora. Poi cambia lato e ripete l’operazione. Attorno a lui, due guardie della security tengono a bada la folla. Per una richiesta evasa ce ne sono dieci stroncate. Si congeda lanciando un’ultima canotta tra la folla. Pochi metri più in là, i Bulls tornano in spogliatoio. Nell’indifferenza generale.

 


Repeat per 82 partite o più


 



Lo chiamano

. Potremmo tradurlo come “impressione a prima vista”. Il giudizio che ci facciamo basato solo sulle sensazione visive. Che nei primi due minuti di partita ci propongono mattoni in serie di Golden State, due accelerazioni di “vintage” Rose-dove solo il fatto che ora si aggiunga “vintage” fa capire che i bei tempi sono andati, e chissà se ritorneranno-un pubblico moderatamente coinvolto. Bene per i Bulls, verrebbe da dire. Poi guardi il tabellone, al primo time-out. Golden State 18, Chicago 14. Alla faccia dell’

. Da lì in poi, però, anche le impressioni visive tornano a posto, mentre la macchina da guerra degli Warriors inizia a girare a pieno regime. La palla si muove a una velocità irreale. Letteralmente irreale, al punto che l’attacco di Golden State sembra un arguto fotomontaggio di un esercizio 5 contro 0 sullo sfondo di cinque maglie rosse che provano a difendere.  Li avevo visti giocare per la prima volta nello scorso autunno. Un’inutile

contro i Nuggets di Brian Shaw e di un rientrante Gallinari, nel cui primo tempo si era fatta strada, imprevista e sconcertante, la sensazione di essere di fronte a una versione di

in tre dimensioni. 18 mesi e un titolo NBA dopo, siamo sempre lì.

 



E allora viene da chiedersi da dove viene quella sensazione. Perché di squadre che giocano ad alto ritmo ne abbiamo viste tante. Così come abbiamo visto squadre che tirano molto da fuori, squadre che eseguono benissimo, squadre che si passano volentieri la palla. E squadre con fenomeni paragonabili a Curry. Ma cos’è che rende questi Warriors così smaccatamente

? L’analisi statistica la lasciamo per un altro giorno. Oggi, se non si fosse capito, è il giorno dell’

. E così, tra un canestro e un assist, un’osservazione si impone, riportandoci alle dichiarazioni bellicose che faceva Steve Kerr nell’estate del 2014. Questi Warriors

. O meglio,

, sbriciolando miseramente la distinzione tra difesa schierata e contropiede che con tanto ardore viene inculcata in qualsiasi corso allenatori.

 

Nulla lo fa capire meglio dei primi cinque secondi dell’azione. Che subiscano canestro o prendano il rimbalzo difensivo, l’apertura-il passaggio del lungo al playmaker che inaugura la fase in cui si porta la palla nell’altra metà campo-è già, a tutti gli effetti, una fase attiva dell’attacco. Dopo due secondi di azione-quando il playmaker di una squadra normale sta ancora pensando a che schema chiamare-c’è già qualcuno in grado di prendere un tiro. Dopo tre secondi, qualcuno è saltato su una finta. Dopo quattro, c’è una conclusione con metri di spazio. Dopo cinque, la difesa è già così ubriaca che, se il tiro non entra, ci sono ottime possibilità di rimbalzo in attacco e di una marcatura squilibrata. In altre parole: il loro attacco è un monumento alla velocità cestistica. Entra nel vivo con una rapidità a cui la difesa non riesce a tenere testa,  bruciata nella testa prima ancora che nelle gambe. Poi, certo, ci vuole tutto il resto. Letture, spirito di collaborazione, abilità nel gioco senza palla, tiro. E un giocatore come Curry, per cui trovare aggettivi è ormai una perdita di tempo. Ma a lasciare a bocca aperta è proprio il fatto che,

a Curry, ci sono mille altre diapositive che rimangono impresse. Le aperture di Bogut, le letture a tutto campo di Iguodala e Green, la capacità di Shaun Livingston di tirare sulla testa di chiunque. È armonia. Che, abituati all’imperfezione, fatichiamo ad accettare come reale.

 



Il primo quarto finisce 34-18. A metà del secondo, Golden State ha 20 assist su 25 canestri. Più che chiusa, la partita non è mai iniziata. E così, arsi sullo spiedo, ai Bulls rimane solo una sfuriata di Derrick Rose. Tanto inutile quanto romantica. Capito che la marea non si può arrestare, l’ex MVP ci si butta dentro,  provando a scaldare almeno qualche cuore. La folla capisce, ringrazia, anche se la sconfitta è ormai accettata. Ci sono due canestri appoggiati alla tabella, un paio di accelerazioni folgoranti, cambi di velocità. Provato dallo sforzo, chiede addirittura a Hoiberg di uscire a rifiatare, ben due volte. «Sto ritrovando la condizione, e giocare contro una squadra del genere mi mette a dura prova». I suoi canestri a raffica, se non altro, regalano l’illusione che ci sia ancora qualcosa per cui valga la pena stare lì ad applaudire. Quando un paio di scivolamenti riescono a contenere Curry, parte il boato più fragoroso della serata. Eppure, le prodezze trasudano amarezza. Quella era routine, prima di diventare un occasionale picco. Chiuderà con 21 alla fine del primo tempo, 29 totali. Solo contro tutti, sconfitto come tutti.

 



La ripresa è come il primo tempo. Golden State si allena, Chicago annaspa. Dopo Rose, c’è l’esplosione individuale di Butler. Ma contro un attacco che continua a tagliare, spaziare, passare e produrre, gli sforzi sembrano una perdita di tempo. Più ci provi, più affondi. Una schiacciata al volo di Iguodala segna il +23 a fine terzo quarto, prima che nell’ultimo il divario si allarghi ancora  «I Warriors sono così: ti diverti tantissimo a guardarli. Ma solo se non ci giochi contro» dice Hoiberg nella conferenza stampa più veloce al mondo. Lo United Center viene smontato. Ieri sera c’era Bruce Springsteen, questa sera basket. Alla prossima sarà hockey. Siamo abituati, ma il pensiero rimane comunque affascinante.

 


Accampati sulle tribune, gli spasimanti di Curry sperano in un’improbabile sortita a firmare gli autografi prima dimenticati.


 

Prima di buttarmi nella notte di Chicago, accolto da un mite -11 (dopo tre giorni di fila a -20) e batteria della macchina in sciopero, incrocio Bill Wennington. Ex Virtus Bologna, quarto lungo dei Bulls dei record. Ora fa il commentatore radio, avvolto da due baffoni terrificanti. È di gran lunga una delle persone più simpatiche incontrate nell’ambiente. Parliamo di 72 partite, storia, pronostici. «Noi eravamo più fisici. Loro sono più bilanciati in attacco. Ma abbiamo una cosa in comune: il piacere di fidarci l’uno dell’altro». Si congeda, non prima di aggiungere una cosa. «Ah, secondo me ce la possono fare»

 

 

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