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Giuseppe Pastore
I migliori gol di tacco che abbiamo dimenticato
08 ott 2018
08 ott 2018
Non tutti i gol di tacco possono rimanere nella storia.
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Giuseppe Pastore
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Come in uno spot estremamente futuristico di una nuova marca di abbigliamento sportivo appena sbarcata sul pianeta Terra, da una settimana in Europa numerosi calciatori hanno tutti ballato la stessa danza infernale. Apriva le danze a Londra l'ex laziale Felipe Anderson, a Roma rispondeva Lorenzo Pellegrini proprio nel derby. Michael Rashford e più tardi anche André Silva nella piccola Eibar tenevano alta la quota degli under 23, come a indicare un sentiero luminoso: il tacco è il futuro, il no look timidamente abbozzato da Marco Asensio contro la Roma appena due settimane fa sembra già il passato. Ancora nella City, lo scorso weekend contro il Fulham, Aaron Ramsey ha chiuso il concorso di bellezza con una rete arrivata al culmine di un'azione vertiginosa. La nuova sfida è lanciata: fare più gol possibile non solo volgendo lo sguardo lontano dalla porta, ma voltandole direttamente le spalle.

 

È diventato facile fare gol di tacco, o l'estrema disponibilità del materiale audio-video terracqueo rende solo più semplice reperire i gol che ogni giorno ci danno la nostra goccia di stupore quotidiano? Nelle ripetute e ripetitive gallerie che a ogni prodezza celebrano e rievocano i Roberto Mancini, i Del Piero e gli Ibrahimovic, la quota anni Settanta e Ottanta è ridotta al minimo: al limite un Bettega a San Siro (termine di paragone per i gol di tacco negli anni Novanta, “ha segnato alla Bettega”) e Rabah Madjer, “il tacco di Allah”, nella finale di Coppa Campioni 1987. Forse che trent'anni fa il gol di tacco era un'inconsulta follia? Non proprio, o non del tutto, come scoprirete scorrendo questa galleria di tacchi dimenticati, in cui non c'è spazio per i “soliti” Pastore, Mancini (della Lazio), Mancini (della Roma), Cristiano Ronaldo, Menez, Crespo, Montella, Quagliarella, Palacio e neanche per l'incolpevole Beppe Biava, il cui gol leggendario alla Reggina nel 2006 è stato stropicciato e stiracchiato fino a diventare suo malgrado la bandiera di quelli che tra di loro si chiamano bomber.

 



 


Immaginate la disperazione del povero cineoperatore che si perse completamente la rete dello 0-1. Quella rete.


 

Perché di questo gol, probabilmente il più bello della carriera della "

", non parla mai nessuno? Innanzitutto perché i cinegiornali d'epoca se lo persero e perciò non ne esistono immagini in movimento: il gol fu segnato allo stadio Heysel in un'amichevole che seguiva un mesto pareggio contro la Svizzera che, per l'ambiziosissima Roja (oltre a Di Stefano c'erano in campo anche Suarez, Gento, Puskas, Kubala), aveva significato l'esclusione dal Mondiale 1958. Era la terza partita di Di Stefano con la Nazionale del suo nuovo Paese e il gol destò sconfinata ammirazione in tutta Europa: sugli spalti era presente anche un ragazzino di nome Fernand Goyvaerts, che dieci anni dopo avrebbe giocato scampoli di partite tra Barcellona e Real Madrid e a ogni intervista avrebbe rievocato quel gol favoloso. Eccolo, allora: sul punteggio di 0-0 Miguel scappa a destra e mette in mezzo dove Di Stefano, leggermente avanti con il corpo rispetto alla traiettoria del pallone, si produce in un volo orizzontale per agganciare la palla di tacco e spedirla nell'angolo a destra, in modo che ne esca una specie di fucilata imparabile per il portiere Meert. Oggi lo chiameremmo “scorpione”. Anche i fotografi a bordo campo furono sorpresi con la guardia bassa: tutto ciò che esiste di questo gol è

.

 

Era la seconda replica di uno spettacolo che Di Stefano aveva già regalato agli spettatori di Valladolid nella sua prima stagione spagnola, quando aveva meravigliato e suggestionato il pubblico locale un po' come avviene oggi da noi con Cristiano Ronaldo. In una rocambolesca partita che il Madrid avrebbe perso per 4-3 dopo essere stato avanti 1-3, a Di Stefano riuscì una prodezza che in questo caso fu quantomeno immortalata

. Iniziò qui l'attrazione del Madrid per i

, sopravvissuta nelle epoche e rinverdita puntualmente dai vari Raul, Redondo, Guti, Zidane fino alle recenti prodezze di CR7.

 

La suggestione di quel “gol che non c'è mai stato” è resistita nei decenni. Nel 1986 un giornalista dell'Equipe si presentò al Bernabeu per realizzare un reportage fotografico con l'aiuto dello stesso Di Stefano, ma in uno stadio vuoto e senza portiere non poté essere la stessa cosa. Invece due anni fa Mediaset, con l'aiuto del testimone oculare Luisito Suarez, ne ha proposto

un po' lugubre e meccanica, che equipara ingenerosamente Di Stefano e i suoi compagni di Nazionale ai tanti pupazzoni del calcio virtuale di oggi.

 



 



Il trecentesimo e ultimo gol della carriera dello scozzese Denis Law fu anche l'unico non festeggiato. Lasciato a piedi a 33 anni dall'amato Manchester United di cui è tuttora il terzo miglior marcatore all-time dopo Wayne Rooney e Bobby Charlton, nell'estate del 1973 si accasò dai cuginastri del City e visse una stagione in linea con le prospettive di annunciato declino: 24 partite, 9 gol e un'annata decorosa in cui il City visse un campionato tranquillo e approdò alla finale di Coppa di Lega (persa contro il Wolverhampton). Ma il veleno è nella coda: all'ultima giornata era in calendario un drammatico derby di Manchester, con i "Red Devils" – appena sei anni prima campioni d'Europa, con Law infortunato al ginocchio a festeggiare in tribuna – clamorosamente invischiati nella lotta salvezza. La vittoria valeva ancora due punti e lo United aveva tre punti e una partita in meno rispetto alla sua diretta concorrente, il Birmingham: doveva dunque strappare almeno un pareggio e augurarsi una sconfitta dei rivali. Ma il Birmingham andò in vantaggio sul Norwich e presto la partita di Old Trafford scivolò verso uno 0-0 dall'aria vagamente funebre. A otto minuti dalla fine Francis Lee scappò sulla destra e mise in mezzo un pallone rasoterra diretto a Law, fermo spalle alla porta sul limite dell'area piccola. L'istinto del rapace da 299 gol in carriera prevalse sulla ragione: il piede destro si mosse da solo e con il tacco spedì la palla alle spalle del portiere Stepney, mandando il Manchester United in Second Division. Seguì una delle esultanze più gelide di cui si abbia memoria, con lo scozzese a testa bassa, rincuorato più che festeggiato dai compagni di squadra. Nella cronaca sul Guardian, Eric Todd citò l'attacco dell'orazione funebre di Marco Antonio nel Giulio Cesare di Shakespeare: “If you have tears, prepare to shed them now”.

 



 



Il campionato argentino ha sempre avuto regolamenti bislacchi e l'edizione del 1979 non fece eccezione. Le ventotto (!) squadre partecipanti furono divise in quattro gironi (detti “zone”) da sette, con le prime due di ogni girone qualificate a un tabellone tennistico con gare andata e ritorno, dai quarti fino alla finale. Il titolo andò al River Plate, che però aveva tribolato non poco per strappare la seconda posizione nella sua “Zona”. All'ultima giornata era in calendario al Monumental lo scontro diretto con l'Huracán, staccato di un punto. Nello stadio in cui un anno prima l'Argentina aveva celebrato il suo primo tenebroso titolo mondiale, il River passò in vantaggio con uno dei gol più belli della carriera del “Pulpo” Leopoldo Luque, che durante quella Coppa del Mondo aveva vissuto la tremenda disgrazia della scomparsa di suo fratello Oscar, morto in un incidente d'auto mentre stava percorrendo la nebbiosa strada che portava da Santa Fé a Buenos Aires per andare a vedere giocare Leopoldo contro la Francia. Anche per questo Luque è tuttora amatissimo in patria e alla sua popolarità contribuì anche questo splendido

: in una specie di versione argentina del numero di Pelé contro l'Uruguay al Mondiale 1970, Luque fece sfilare la palla alla sinistra del portiere Munutti e lo aggirò a destra, anticipando il difensore con un fulmineo colpo di tacco, probabilmente l'unica soluzione possibile per evitare il tackle – una soluzione simile a quella escogitata dal brasiliano Grafite

nel 2009. Poco dopo l'Huracán pareggiò con un gol non meno straordinario di Jorge Sanabria, capace di beffare il grande Fillol quasi dalla linea di fondo, ma l'1-1 finale bastò per qualificare il River alla fase a eliminazione diretta.

 



 



 

Chissà come mai nel calcio italiano degli anni Ottanta e Novanta mancano quasi totalmente i gol di tacco: anche il miglior giocatore della generazione, Roberto Baggio, ha deliziato più volte le folle con la parte posteriore del piede, ma senza mai arrischiarsi nella conclusione a rete. Così quel “quasi” è merito pressoché esclusivo di uno dei bomber di provincia più eleganti e cattivi del decennio, il riminese Igor Protti, ricordato come l'unico giocatore della storia della Serie A a essere retrocesso in B nello stesso anno in cui è diventato capocannoniere (Bari 1995-1996). Ma quest'episodio risale alla stagione precedente: non nuovo a gol spettacolari (un mese prima aveva tirato giù il San Nicola con una splendida rovesciata contro la Fiorentina), Protti approfitta di un'uscita incerta di Ballotta e sceglie la via del tacco volante per girare in rete un corner del colombiano Guerrero. È quello il Bari del trenino sotto la curva per festeggiare i gol, uno degli assi nella manica più micidiali del nostalgismo, che però non sembra ancora arrivato a questo splendido gol.

 



 



Il 17 gennaio 1999 non è stato solo il giorno del celeberrimo gol di tacco di Roberto Mancini a Parma, ma anche quello dell'esordio a Venezia di Alvaro Recoba, piede sinistro e anima di una delle più incredibili rimonte-salvezza della storia recente della Serie A. Tre giorni dopo era ancora altissima l'eco della prodezza manciniana - definita “il più bel gol della storia del calcio italiano” da qualche giornalista senza fantasia - quando il calendario impose il recupero di una banale Venezia-Empoli, sospesa per nebbia due settimane prima al 16' del secondo tempo, con grandi proteste del pubblico a cui fu perciò negato il rimborso del biglietto. Il regolamento prevedeva ancora che si rigiocassero gli interi novanta minuti e così il replay fu una partita ben diversa, con l'Empoli avanti 2-0 all'intervallo con una doppietta di Arturo Di Napoli e il Venezia ridotto in 10. Nel secondo tempo nasce la piccola leggenda di quel Venezia di Novellino trasformato dal "Chino": fin lì ultimo in classifica e peggior attacco della Serie A con 8 gol fatti in 16 partite, accorcia le distanze con Valtolina e pareggia con un colpo di testa di Pippo Maniero, su pennellata di Recoba. A quattro minuti dalla fine un'altra punizione dalla trequarti di Recoba viene girata in rete da Maniero con un colpo di tacco pazzesco in piroetta e sospensione, là dove Mancini non aveva quasi alzato i piedi da terra. Un gol decisamente più difficile di quello del "Mancio" (che Maniero l'aveva avuto come compagno di squadra alla Sampdoria dal 1995 al 1997), ma che godrà di infinita minore popolarità.

 



 



 

Perché l'oblio non si è mai sollevato da questa prodezza volante di Paulo Sergio, amatissimo esterno d'attacco della Roma zemaniana che aveva la piacevole abitudine di festeggiare ogni gol ballando il samba? Probabilmente c'entra qualcosa la scarsissima allure internazionale del Bayern Monaco degli anni Novanta, una squadra che non lasciava molto spazio allo spettacolo. Ancora lontana anni-luce dai fasti dell'Allianz Arena e dalla rivoluzione guardioliana, quel 15 settembre 1999 il Bayern era alla prima partita europea dopo il traumatico epilogo della finale di Barcellona e ritenne opportuno scacciare i fantasmi con una vittoria con lo stesso punteggio. Il gol decisivo unisce la fisicità bavarese con l'estro brasilero: la seconda spizzata di testa è nientemeno che di Carsten Jancker e nulla lascia presagire che Paulo Sergio possa estrarre il coniglio dal cilindro.

 

Col tempo gesti tecnici del genere sono diventati usuali anche nell'ameno Land della Germania meridionale, che da una decina d'anni si è trasformato in un tacchificio grazie alle puntuali spedizioni sul fondo di Robben, che necessitano semplici correzioni da pochi passi. Da Pizarro a Ribery fino a Lewandowski in tanti si sono abbeverati alla sua fonte, fino addirittura a segnare di tacco la rete che è valsa un Meisterschale, come ha fatto Bastian Schweinsteiger

.

 



 



Il destino ha punito severamente il centrocampista martinicano Charles-Edouard Coridon, condannandolo a rimanere per sempre un illustre sconosciuto nonostante abbia segnato uno dei gol più belli della storia della Champions League. La legge del contrappasso sta nel fatto che la sua rete è un capolavoro di coordinazione e timing nella stessa misura in cui non ha avuto alcun tempismo nello scegliere l'epoca storica in cui metterla a segno: un'anonima notte autunnale del 2004, a sei mesi dal caricamento del primo video della storia di Youtube, quando Facebook è ancora un passatempo da campus e lo stesso PSG è ancora ben lontano dalla coolness attuale, rassegnato a vivacchiare senza possibilità di impensierire i giganti inglesi o italiani e nemmeno il Lione (quell'anno finirà addirittura nono, a 28 punti dalla vetta). Insomma, quel PSG di cui oggi si parla con poche e definitive parole: “Era il PSG di Pauleta!”.

 

Invece – ma per una notte sola – fu il PSG di Coridon, che batté con merito il Porto. Sotto lo sguardo attonito dell'arbitro Collina, il PSG piazzò un clamoroso uno-due ai detentori del trofeo, anche se già orfani di Mourinho volato al Chelsea. Il primo cazzotto fu assestato appunto dal nostro uomo, che premiò il bel cross da destra di Pichot con un irripetibile colpo dello scorpione che avrebbe davvero meritato miglior sorte nella memoria popolare: ma nel 2004 l'unico modo per rendere eterno un gol era andare su qualche oscuro forum e impelagarsi in una serie di link a pagamento di dubbia natura. Efficace metafora per il resto della già declinante carriera del già trentunenne Coridon, che non segnò altri gol in quella stagione, rassegnandosi a tristi esili che neanche Napoleone a Sant'Elena: Ankaragucu, Union Squiffiec-Trégonneau e Esnafspor, dove lo immaginiamo passare i pomeriggi a fissare il mare esclamando di tanto in tanto ai viandanti “Moi, j'étais Coridon!”.

 



 



 

Dei dieci casi presi in esame, questo è decisamente il più inspiegabile. Le condizioni per un gol di culto ci sono tutte: una grande competizione (la Champions League), un grande stadio (il Bernabeu), due grandi squadre (Real Madrid e Lione, all'epoca dei fatti estremamente à la page), persino il biglietto da visita del diretto interessato. Di John Carew ci si dovrebbe ricordare almeno per un soprannome (“Gulliver”, coniato dai tifosi romanisti) e per un paio di circostanze notevoli: insieme a Ibrahimovic e Mutu è uno dei tre giocatori ad aver segnato nelle competizioni UEFA con sette squadre diverse, e fu il primo a segnare in gara ufficiale all'Italia di Lippi nel biennio che ci condusse fino a Berlino. Questo fu il gol che diede al Lione la certezza aritmetica del primo posto nel girone, davanti a un Real Madrid piuttosto malmesso che allignava in panchina il brasiliano Wanderley Luxemburgo e in campo gente come Diogo o Pablo Garcia. Entrato da due minuti, Wiltord scappa a sinistra e mette in area un pallone che Carew ha il tempo di addormentare, prima di far fare una pessima figura a Roberto Carlos con una soluzione di tacco in bello stile che passa tra le gambe del terzino brasiliano e rotola lemme lemme nell'angolino basso alla sinistra di Casillas. Nonostante il metro e novantacinque di altezza, un numero alla Savicevic.

 



 



 

Insieme all'Atalanta 2016-2017, il Genoa 2008-2009 è stato il capolavoro della carriera di Gian Piero Gasperini, che riportò il Grifone in Europa dopo 17 anni (sfiorando addirittura la Champions) con il suo tipico calcio iper-cinetico che a volte riusciva anche ad andare oltre lo strepitoso talento individuale di Diego Milito, acquistato da Preziosi a pochi minuti dalla sirena finale del calciomercato 2008. Un esempio pratico furono le tre partite tra dicembre e gennaio che il Genoa fu costretto a giocare senza l'infortunato Milito, tutte e tre vinte senza subire gol, con Gasperini che non si fece problemi a lanciare in Serie A per qualche minuto anche un ragazzino appena sedicenne di origini italo-egiziane, di nome Stephan El Shaarawy. La vittoria di Lecce, giunta alla fine del girone d'andata, porta la firma del serbo Bosko Jankovic, esterno sinistro di un tridente liquido in cui la punta centrale è solo nominalmente il non irresistibile Ruben Olivera. Jankovic – acquistato dal Palermo persino alcuni minuti dopo lo stesso Milito, nell'indifferenza generale – gira mirabilmente in rete un invito da destra di Mesto con una fucilata sul primo palo, e a fine partita affronta ai giornalisti con il classico understatement balcanico: «Il mio gol più bello? Mah, non lo metto più in alto del quarto-quinto posto, sicuramente dietro quello in rovesciata alla Spagna Under 21». Con una presentazione del genere, abbinata a una delle esultanze più brutte che si ricordino, poi non si lamenti se ce ne siamo presto dimenticati.

 



 



 

Chiudiamo con un gol ultra-contemporaneo, tant'è che è stato segnato da uno dei giocatori più caldi del periodo: ancora 23 anni, neo-acquisto del Bayern Monaco dopo aver fatto cose eccellenti allo Schalke 04, Leon Goretzka ha già all'attivo una partecipazione a un Mondiale, anche se ha visto il campo solo nella disfatta finale contro la Corea del Sud. Forse anche per questo il suo gol all'Azerbaijan in qualificazioni Mondiali non fa parte del nostro immaginario collettivo, e sospettiamo neanche dei tedeschi. Peccato, perché è una rete di difficoltà irreale, persino più difficile del famoso tacco di Menez in Parma-Milan, quando il francese aveva sollevato la palla quel tanto che bastava per eludere l'intervento in scivolata dell'avversario. Goretzka fa ancora meglio perché non deve beffare solo il portiere ma anche un altro difensore posizionatogli alle spalle a breve distanza: decide perciò di sferrare al pallone una frustata talmente violenta che temiamo istintivamente per il suo tendine d'Achille. Un'azione che spiega meglio di altro come nel calcio di oggi ci sia una componente di muscolarità persino in un gesto soave come un colpo di tacco, con il pallone che si solleva fino quasi a finire sotto l'incrocio tra lo sbalordimento generale. Ma stranamente nessun meme, nessuna parodia, nessun tentativo d'emulazione per una rete di sesquipedale complessità, che a guardarla sazia gli occhi e lo spirito, ma non fa venire voglia di imitarla.

 

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