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Il gol di Mertens che non dimenticheremo
09 ago 2022
Cosa ha lasciato l'attaccante belga a Napoli.
(articolo)
9 min
(copertina)
Francesco Pecoraro/Getty Images
(copertina) Francesco Pecoraro/Getty Images
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C’è un momento prima del finale, prima della scena decisiva in un film, l’istante che prepara l’ultima inquadratura, l’ultimo dialogo, un frammento che vale più del finale perché lo pone in condizione d’essere, di esistere, bisogna saper arrivare al finale. Ecco il regista che inquadra un oggetto che appare privo di significato, ecco che la macchina da presa scivola fuori da una finestra, si vede un giardino, il retro di una casa, laggiù qualcuno ha passato momenti felici, più in là un uomo di schiena, guarda lontano, riflette, non importa. In quella schiena sul fondo del giardino, oltre lo steccato, convoglia tutto ciò che abbiamo visto fino a qua, quel giubbotto scuro (insieme all’oggetto inquadrato prima) tiene insieme ogni scena del film. Noi spettatori stiamo ricomponendo sentimentalmente ogni fatto e siamo la mano sulla spalla di quel tizio oppure no, c’è naturalmente una musica in sottofondo ma non la ascoltiamo davvero, siamo tutti insieme noi, l’uomo di schiena, le vicende della pellicola, quello che ha immaginato il regista, la colonna sonora, tutti lì in attesa e pronti per l’ultima scena.

Una sera dell’ottobre del 2017, per il campionato di Serie A, si sta giocando, al Ferraris di Genova, la partita Genoa – Napoli, il risultato è sul pari, 1-1. Hanno segnato, per il Genoa, Taarabt e, per il Napoli, Mertens, più avanti la partita finirà 3-2 per i napoletani, ma il momento prima del finale (ripensando al film) – e che tiene insieme le scene (azioni) precedenti e ogni passaggio, fallo, cartellino giallo, altro gol che porterà al risultato della partita – avviene alla mezz’ora del primo tempo, ed è l’istante che porteremo con noi, che, per certi versi, potrebbe addirittura essere il finale alternativo, il finale vero. Il motivo vero del film.

Il copione è quello del Napoli di Sarri, la palla viaggia tra la difesa e il centrocampo, il telecronista dice che gli azzurri tirano il fiato, la tocca Hamsik, poi Insigne, poi Ghoulam, poi ancora Insigne, poi Koulibaly, di nuovo Insigne, indietro fino a Reina, da questi a Chiriches – sequenze preparatorie – una nuova volta a Koulibaly, da questi a Insigne che accelera. Entriamo nella scena successiva. Insigne scambia due volte con Hamsik a centrocampo, poi lo slovacco si volta verso Diawara (?!) e qui c’è il cambio di scenario, nel bel mezzo del primo tempo il regista ci mostra il campo lungo che apre al finale alternativo. Nel momento in cui la palla arriva a Diawara è come se scattasse una specie di segnale per Mertens, si stacca da un difensore e scatta verso il lato sinistro dell’area, Diawara lo lancia e qui accade la cosa che mi ha tolto il fiato per sempre. Si tratta di un ottimo lancio (un giorno scopriremo cosa è accaduto a Diawara tra Napoli e Roma), Mertens esce dal campo di calcio normale ed entra nell’irreale. Fa uno stop che non abbiamo ancora compreso per bene, a distanza di cinque anni, di sicuro lo fa con il destro, a volte pare agganci con la suola, altre con l’esterno, altre con una parte del piede che a tutti noi non è concesso avere. Fatto sta che il gesto è quasi impossibile da replicare, la palla scivola dal piede al suolo e viaggia pochi centimetri più avanti, qui avviene l’altra parte di scena da fantascienza. Il belga, con il pallone che gli resta forse troppo vicino, con la linea di fondo a due passi, col portiere che è sul primo palo, calcia di sinistro in corsa, sotto la traversa e realizza un gol indimenticabile, fa una di quelle cose per le quali ancora ci sorbiamo le partite.

Per me quel gol significa Mertens ed è il suo che preferisco, più bello di altri suoi forse più belli ancora, gioco con le parole, ma di gol meravigliosi l’attaccante belga ne ha fatti tanti, però come quello nessun altro. Quel gol al Genoa rappresenta tutto di Dries Mertens: sfrontatezza, astuzia, intelligenza, capacità tecniche e atletiche, uso senza distinzioni e difficoltà del piede destro e del sinistro, il talento di improvvisare e di trasformare una palla che poteva perdersi sul fondo - e, bastava niente, non controllarla, sbagliare lo stop, cercare di rientrare evitando il difensore, provare a piazzarla rasoterra – in un capolavoro. Un gol del genere, in un film potrebbe essere un controfinale, un’aggiunta, qualcosa che soccorre il vero finale, che forse lo migliora.

Una buona poesia parte con un incipit folgorante, il primo e il secondo verso non li puoi sbagliare, devi far sì che il lettore non scappi, devi illuminare, non indugiare, non perdere tempo a dire chi dalla finestra vede il tram che va verso la periferia, ma dire subito del tram. Poi procedi, apri, sposti la scena, tieni il ritmo e il tempo, incateni un’immagine all’altra, puoi giocare, puoi fare avanti e indietro, far suonare le parole insieme, addirittura rimare, scansionare, far seguire un’assonanza, far scivolare tre parole in successione spostando la stessa lettera da una parola all’altra. Non dire, e poi dire, dire altro, non mentire. La sequenza dei passaggi va bene ma poi devi accelerare, devi arrivare a disegnare quel verso (o coppia di versi) che ti portino alla chiusa, che – in altri termini – chiamiamo gol.

Mi permetto di usare qui una poesia di Milo De Angelis, primo perché è bellissima, secondo perché Milo è un grande appassionato di calcio, ha giocato come tutti, terzo perché è una poesia fatta di ricordi, di illusioni, che sfuma nel pallone per dirci di quasi tutto e, pensate un po’, ci dice anche del gol di Mertens al Genoa. Ma una cosa alla volta. La poesia comincia in questo modo: «Da quanto tempo non entravo al centro Schuster, / da quanto tempo non sentivo le frasi sconnesse e favolose / di Drino Danilovič il primo allenatore». Qui ci fermiamo, il poeta apre uno scenario che è un sogno all’indietro, il centro Schuster, il primo allenatore, che non può esserci più, eppure c’è e suonano quelle frasi sconnesse e favolose. Siamo a Milano e siamo entrati in un mondo in bianco e nero, dove da ragazzi si attendevano e si preparavano meraviglie (non importa se poi concretizzate oppure no), si seguiva un pallone, si provava a dominarlo, lo si rivestiva di rimbalzi e aspettative. La poesia continua e il sogno si fa dolce, a un certo punto c’è un dialogo (e ditemi se non è pure un film, e ditemi se non è pure un triangolo tra un centrocampista e un attaccante): «Mister, lei è ancora qui, nel campo a nove giocatori / è ancora qui con lo stesso taccuino e la stessa matita / […] Ma tu? Sei rimasto l’inquieto pulcino / che correva sulla fascia e poi tremava? […]». Mi fermo di nuovo, il vecchio allenatore continua con un oppure e il lettore un po’ lo attende e vuole stare in quel sogno e in quel vecchio campetto. Il ragazzo, il poeta, il calciatore vuole sapere cosa è diventato e, preparando il finale e poi andandoci, il mister glielo dice: «Sono soltanto tre, posso dirtelo, le regole del bene, / soltanto tre: portare il pallone nel soffio / della prima altalena, portare ogni dribbling in un balletto / astrologico, trovare in una stella / l’attimo giusto per il calcio di rigore». Molto probabilmente il finale di questa poesia vi ha commossi, o quantomeno vi ha sospesi, portandovi in un mondo fatto di soffi, balletti astrologici, stelle e calci di rigore. De Angelis parla di regole del bene e di attimi. Da quando ho letto questa poesia per la prima volta ho pensato a come potessi applicarla al gol di Mertens al Genoa e ho fatto così.

Siamo alla mezz’ora di questo primo tempo di Genoa – Napoli del 2017, vediamole queste tre regole del bene, adattiamole all’erba del Ferraris, Marassi se preferite. Hamsik si volta, Insigne gli ha fatto segno con la mano, ricordiamolo Diawara è alle spalle, là nel cerchio di centrocampo. Diawara riceve palla, alza la testa, intanto Mertens si è già staccato dal suo marcatore - stiamo entrando nel sogno o, più semplicemente, nel gioco del calcio, nel regno perenne della nostra infanzia. Diawara lancia in profondità, predispone le cose in modo che la poesia possa andare a comporsi nella sua strofa finale. Mertens aggancia in quel modo irreale di cui sappiamo (ma non abbastanza) e trasporta – traduce, transita – tutto nel mondo del sogno, là nel soffio della prima altalena. Tutto è in equilibrio e tutto si perde nel dondolio che fa la palla tra la suola (l’esterno del piede, altro posto che ignoriamo sotto la scarpa) e il terreno di gioco - che non è più il Ferraris ma è il centro Schuster, un incrocio tra due vie a Lambrate, un selciato lungo la Cassia, un cortile sconnesso di Rione De Gasperi a Giugliano – e la prima delle tre regole del bene si compie.

Passano uno, due secondi, forse tre, dal controllo al tiro, Mertens si mantiene in equilibrio (pensa, non pensa), in quegli istanti il sinistro è il piede d’appoggio, cade non cade, scivola non scivola, e invece balla: quel movimento a non cadere, il comprimersi del corpo per restare all’altezza giusta tra la caduta e la possibilità del tiro, far sì che il difensore non abbia il tempo di capire, di arrivargli addosso; tutto è il concretizzarsi della seconda regola del bene, ogni dribbling (e perciò ogni storia di calcio, ogni attimo di fantasia) viene portato in un balletto astrologico, e perciò nulla c’entra più con l’ordinario, tra il controllo e il tiro di Mertens abbiamo avuto il tempo di finire in una strada di stelle, ed eccoci che stiamo ballando. Prima di cadere, prima che tutto sfumi, il belga trova la stella e trova in lei l’attimo giusto per calciare in porta, dal basso verso l’alto, di sinistro, dall’erba alla traversa, dal pianeta terra all’universo, prima che Perin possa capire. È gol, ecco la terza regola del bene, e non è un calcio di rigore come nella poesia di De Angelis ma è esattamente la stessa cosa. Ve lo direbbe il poeta milanese, ve lo direbbe il suo allenatore Drino Danilovič, ve lo direbbe Mertens e, in fondo ve lo ha detto.

David Foster Wallace parlando di racconti a un certo punto dice una parola “click”, intendendo rappresentare la frase di una storia che accende qualcosa del lettore, ciò che trasforma la narrazione da una cosa normale in un’altra che potremmo chiamare (poco filologicamente) wow. Foster Wallace in quel momento sta parlando dei racconti di quel genio che è stato Donald Barthelme, di quel mondo surreale e perfetto in cui accadono cose cui normalmente non penseremmo ma, che grazie alla scrittura perfetta, ci sembrano le sole possibili, sensate. Il gol di Mertens è un click, è ciò che trasforma una buona partita in qualcosa da ricordare per sempre.

Ne Il pallone, forse il suo racconto più famoso (in Italia è pubblicato da minimum fax), Barthelme crea un pallone aerostatico che di ora in ora copre 45 isolati di New York, un pallone che prende vita e diventa occasione di svago, la gente ci gioca, vi si dà appuntamento, si bacia, passeggia. Nessuno si stupisce della sua improvvisa esistenza, della sua costruzione perfetta, che rispetta tutte le regole di ingegneristica, un uomo gli ha dato vita per sopperire a una malinconia, all’assenza forse temporanea della donna amata, ma nessuno lo sa, noi leggiamo e basta, e quel pallone che copre il cielo di New York ci pare la cosa naturale, il gol di Mertens. Se io fossi davvero malinconico avrei, con Barthelme, creato un pallone aerostatico che da Fuorigrotta a Palazzo Donn’Anna ricoprisse tutta la città, per distarmi, per annullare il peso di una partenza, invece non lo sono (non fino in fondo). Ho già il gol al Genoa (e dietro non so quanti altri ancora), ho le tre regole del bene, ho il click, ho il controfinale: Mertens che dice «Ma quanto ci siamo divertiti» e io che all’istante vado a perdifiato a quel minuto di quasi cinque anni fa, sorrido e va già molto bene così.

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