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Antonio Cunazza
Gli stadi moderni sono tutti uguali?
10 lug 2019
10 lug 2019
Un tentativo di categorizzazione degli stili architettonici che hanno caratterizzato gli stadi di calcio.
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Antonio Cunazza
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Una convinzione sostenuta da quasi tutti i tifosi e appassionati di calcio è che l’architettura contemporanea sia entrata ormai in una fase di stallo per quanto riguarda lo stile dei nuovi stadi. A fronte di una grande, e sempre più profonda, innovazione tecnologica, la chiave stilistica dei nuovi impianti viene giudicata monotematica, con poche idee replicate in serie. In questo discorso ha un suo peso, e non potrebbe essere altrimenti quando si parla di edifici che hanno una forte carica emotiva, il fattore nostalgia: un grande numero di tifosi apprezza maggiormente (se non esclusivamente) i vecchi stadi, che non hanno subìto particolari ristrutturazioni o ammodernamenti nel corso del tempo, e li giudica più belli, attribuendogli un carattere più definito e una sorta di forza comunicativa maggiore.

 

È del tutto normale che il tema della “bellezza” (termine che, per semplicità, ora utilizziamo per abbracciare molteplici aspetti) di un edificio architettonico diventi aperto a diverse interpretazioni: la soggettività è una componente insindacabile anche di fronte a quella che può sembrare la peggiore architettura possibile. Il problema, più che altro, è uscire dalla contrapposizione asfissiante che vede opposte due diverse fazioni, che spesso sono conflittuali e apparentemente inconciliabili.

 

Come detto, la carica emotiva degli stadi è di fondamentale importanza per entrare all’interno di questo discorso e non se ne può fare a meno. Lo stadio è un luogo che si arricchisce di settimana in settimana di storia e identità, e dove il passare del tempo contribuisce a rafforzarne il legame con le persone che lo vivono. E quindi è naturale che all’analisi ragionata di un qualunque edificio prevarrà l’impatto emotivo che questo evoca nei tifosi. Il ricordo delle partite viste, e dell’altalena di emozioni vissute, accresce il senso di “bellezza” generale negli occhi di una persona. Al contrario, un nuovo stadio è un edificio da esplorare e da comprendere, e con una storia tutta da scrivere.

 

Il punto, però, è andare oltre ai ricordi e alla nostalgia, e cercare di capire se in queste affermazioni ci sia un fondo di verità: gli stadi nuovi sono davvero tutti uguali?

 

Nell’antichità i tre requisiti fondamentali che definivano una perfetta Architettura erano: solidità, funzionalità, bellezza. Declinati in diversi modi attraverso le epoche della storia, che ne hanno talvolta deciso la gerarchia (la bellezza sopra ogni cosa nel Rinascimento, ad esempio, o la solidità come regola principale del primo Medioevo), forniscono ancora oggi un confronto fondamentale per giudicare un edificio, anche se in toni più stemperati.

 

Dando per scontata la presenza di una caratteristica di solidità (grazie a tecnologia e regolamenti di sicurezza che guidano i progetti su una strada sempre più tracciata), l’architettura sportiva contemporanea vive un sempre più stretto rapporto tra funzionalità e bellezza, spesso esplorato nel corso del ‘900 e in modi direttamente proporzionali agli stili architettonici del momento. Un binomio che ha influenzato e continua a influenzare profondamente l’architettura sportiva contemporanea, generando quel senso di spaesamento che sembra portare sempre più tifosi tra le braccia della nostalgia.

 

Insomma, rispondendo molto brevemente alla domanda alla base di questo articolo: gli stadi contemporanei ci sembrano tutti uguali semplicemente perché rappresentano lo stile architettonico del periodo in cui viviamo, allo stesso identico modo in cui gli stadi del passato erano figli delle tendenze stilistiche della loro epoca. E quindi, per questa ragione, sarebbe scorretto giudicare l’estetica degli stadi contemporanei confrontandoli con la totalità degli esempi passati, che abbracciano almeno tre epoche architettoniche diverse.

 

Ai fini di questo discorso, quindi, è utile analizzare più a fondo l’estetica architettonica degli stadi (con riferimento in particolare all’Europa), dividendola in quattro macro-periodi nel corso del Novecento. Perché, anche in architettura, è solo approfondendo l’evoluzione del passato che possiamo davvero apprezzare il presente.

 



Il primo periodo è quello dell’epoca pionieristica del calcio, con il modello di stadio “all’inglese” nato alla fine dell‘800 e durato fino agli anni ‘30 del XX secolo. Stadi a pianta rettangolare, votati alla funzionalità, figli di un’architettura vittoriana influenzata dalla Rivoluzione Industriale: gli elementi in ferro e la semplicità delle murature, ad esempio, sono presi in prestito dalle grandi stazioni ferroviarie e dalle fabbriche.

 


Craven Cottage (foto di Catherine Ivill / Getty Images)


 

L’influenza del celebre ingegnere scozzese Archibald Leitch, che ha progettato quasi tutti gli stadi inglesi dell’epoca (inventando, di fatto, la versione moderna di questo edificio), ci ha lasciato in eredità stadi tutti molto simili fra loro, riconoscibili solo per pochissimi particolari: la diversa forma del timpano sul tetto della tribuna centrale (Craven Cottage, Fulham, 1905; Hillsborough, Sheffield Wednesday, 1915; Anfield, Liverpool, 1906) e la presenza di facciate esterne più o meno decorate (ancora Craven Cottage, Fulham, 1905; Villa Park, Aston Villa, 1924; Ibrox, Glasgow Rangers, 1924). Le date appena citate si riferiscono alla realizzazione degli elementi specifici e non, per forza, all’inaugurazione degli stadi, che a volte è stata precedente.

 



Dagli anni ‘30 si apre l’epoca degli stadi olimpici e monumentali. Entra in scena la pista d’atletica, che impone la forma ovale all’edificio, e invita i regimi totalitari a cavalcare l’idea di un’architettura di propaganda. Il gusto per l’imponenza delle architetture dell’antica Roma, e il messaggio che possono veicolare, produce stadi più grandi pensati per attirare grandi folle. Il senso politico di tutto questo corre in parallelo all’importanza crescente dei Giochi Olimpici che, allo stesso modo, portano alla costruzione di stadi che possano accogliere qualunque sport.

 

Prende piede la tipologia del “velodromo”, nata in Francia a inizio ‘900 con l’avvio del Tour de France (e che si diffonde anche in Italia), e in Europa si moltiplicano stadi ovali grandi e piccoli, con facciate esterne che strizzano l’occhio alle simmetrie del neoclassico ma propongono elementi più rigidi e meno votati all’ornamento (si notano influenze dal Bauhaus e riferimenti al Razionalismo).

 


L'Olympiastadion di Berlino (foto di Boris Streubel / Stringer)


 

Di questo tipo sono i velodromi di Marsiglia (1937) e Parigi (la seconda versione del Parco dei Principi è del 1932), lo Stadio Comunale di Torino (1933) e l’Artemio Franchi di Firenze (1931), lo Stadio Olimpico di Amsterdam (1927) e l’Olympiastadion di Berlino (1936), forse il più celebre (in questo caso e nei successivi invece le date si riferiscono all’inaugurazione degli stadi).

 



Dopo il termine della Seconda Guerra Mondiale si aprono scenari stilistici meno univoci, anche se in ogni caso guidati da un materiale, e cioè il cemento armato. La sua diffusione, figlia degli anni ‘30 e ‘40, si apre all’utilizzo sistematico per varie tipologie di edificio fra cui anche gli stadi di calcio.

 

Anche qui troviamo molti punti in comune fra gli impianti costruiti in questo periodo: le strutture sono spesso a vista, celebrano la forza del cemento armato come materiale e lo stadio torna a essere edificio più funzionale che bello, senza necessità di essere ulteriormente decorato.

 

È da questo concetto che nell’architettura civile emerge la corrente del Brutalismo, che si riversa anche sugli stadi. Gli elementi di sostegno statico delle gradinate sono visibili dall’esterno, così come le rampe di scale d’accesso e la parte sottostante dei gradoni.

 

Seguendo questa filosofia sono stati costruiti il Bernabéu di Madrid (1947), la versione ristrutturata del Mestalla di Valencia (1959) e il Sánchez Pizjuán di Siviglia (1960), che hanno praticamente tutti la stessa impostazione strutturale.

 


Il Marakana di Belgrado (foto di Srdjan Stevanovic / Stringer)


 

Alcune eccezioni si notano invece in altri casi specifici: è il caso delle “costole” inarcate del Parco dei Principi di Parigi (1972), che rimandano a quelle rigide del San Paolo di Napoli (1959). Allo stesso modo, il catino dell’impianto partenopeo fa venire in mente quelli del vecchio Da Luz di Lisbona (1954) e del Raijko Mitic/Marakana di Belgrado (1963).

 



Con gli anni ‘90, le nuove tecnologie e l’avvento dei media cambiano completamente la visione degli stadi, portandoli nell’era dell’architettura contemporanea. I nuovi impianti, quelli che oggi ci sembrano tutti uguali, sono figli dell’epoca che stiamo vivendo, iniziata con l’Amsterdam ArenA (1996) e lo Stade de France di Parigi (1998), che fanno da spartiacque rispetto al passato.

 

Gli stadi diventano contenitori di servizi commerciali e di comfort assoluto al servizio del tifoso, e nella struttura si arricchiscono di materiali prima inesplorati: membrane polimeriche, coperture semi-trasparenti, utilizzo sistematico di vetro e acciaio, pannelli LED che vanno a rivestire l’edificio anche completamente.

 

Inoltre, su scala più piccola, l’architettura contemporanea deve confrontarsi con tutti gli standard imposti dai regolamenti attuali, che portano a una certa standardizzazione del disegno delle gradinate e della loro forma. Si pensi all’angolo di visuale (codificato proprio da Archibald Leitch per la prima volta con il progetto di Ibrox, a Glasgow, nel 1902) che ha ormai portato alla regola del profilo superiore ondulato delle gradinate, sdoganata con l’Etihad Stadium di Manchester (2003) e l’Emirates Stadium di Londra (2006): una curva sinusoidale più alta al centro e più bassa agli angoli dell’impianto, così da garantire la stessa distanza dello spettatore dal terreno di gioco anche nei posti più lontani. A questo possiamo abbinare l’analisi dei rivestimenti esterni, vero spazio di manovra e fantasia per i progettisti: il tema del “guscio” che avvolge l’impianto, declinato in vari materiali e forme - dall’Allianz Arena di Monaco (2005) all’Allianz Riviera di Nizza, dalla Borisov Arena di Borisov (2014) allo Juventus Stadium di Torino (2011).

 

Nonostante ciò, questo non ha impedito la costruzione di stadi iconici anche in tempi molto recenti, anche se spesso su scala più grande (dai 60mila posti in su), come il Bird’s Nest di Pechino (2008), il recente Mercedes-Benz Stadium di Atlanta (2017) o la Cosmos Arena di Samara (2018).

 


Il Bird's Nest di Pechino (foto di Ryan Pierse / Getty Images)


 

Nondimeno è fondamentale sottolineare la rilevanza dei progetti di ristrutturazione e ammodernamento, che producono eccezionali casi di integrazione fra la struttura storica e le nuove parti dello stadio: il Soldier Field di Chicago (2003), con il nuovo catino di gradinate che si inserisce nell’originale colonnato esterno neoclassico; il Wanda Metropolitano di Madrid (2017), con la tribuna originale fatta rivivere all’interno del nuovo impianto; e più vicino a noi, il restyling del Friuli di Udine (2016), con la nuova vita della tribuna principale e della celebre copertura arcuata grazie al rinnovamento dei tre lati restanti dello stadio.

 

Certo, questa sintetica discettazione non pretende di assoggettare qualunque punto di vista soggettivo e personale. D’altronde, il giudizio definitivo di un’opera è sempre dato da chi ne fruisce quotidianamente e su questo punto ha influito moltissimo anche il regolamento dei posti a sedere e della presenza di seggiolini in tutti gli impianti. Il senso visivo di omologazione che ne è derivato, a partire da metà anni ‘90, è stato decisivo nel creare una spaccatura di gusto e apprezzamento nei confronti dei nuovi impianti. Il tentativo, mutuato dalla Premier League inglese, di variare l’effetto ottico colorando i seggiolini con i colori sociali dei club e i marchi degli sponsor, è stato positivo solo in parte – e si è arrivati a esempi estremi come le seggiolature multicolor dell’Alvalade di Lisbona, della Dacia Arena di Udine o del nuovo Stirpe di Frosinone.

 

I regolamenti di sicurezza e ordine pubblico di inizio anni ‘90 hanno avuto l’effetto estetico collaterale di standardizzare il disegno degli stadi e, in parte, l’atmosfera stessa durante le partite. Lo stadio è diventato con il tempo uno dei luoghi con più regole e paletti, sia costruttivi che comportamentali, e questo ha inevitabilmente avuto un peso su come i tifosi vivono la partita, e quindi guardano lo stadio che la ospita.

 

Gli stadi attuali hanno forse meno abbellimenti stilistici rispetto a quelli del primo Novecento, e meno forza evocativa che negli anni ‘60 e ‘70 (e questo perché l’architettura contemporanea sta proponendo nuove e diverse soluzioni, non per forza migliori o peggiori) ma non è solo lo stile architettonico ad essere cambiato ma anche, e forse soprattutto, il modo di tifare e vivere lo stadio.

 

 

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