Esclusive per gli abbonati
Newsletters
About
UU è una rivista di sport fondata a luglio del 2013, da ottobre 2022 è indipendente e si sostiene grazie agli abbonamenti dei suoi lettori
Segui UltimoUomo
Cookie policy
Preferenze
→ UU Srls - Via Parigi 11 00185 Roma - P. IVA 14451341003 - ISSN 2974-5217.
Menu
Articolo
(di)
Matteo Trevisani
Gli avversari di Ali
16 lug 2016
16 lug 2016
La storia di Muhammed Ali attraverso le storie dei suoi avversari meno conosciuti.
(di)
Matteo Trevisani
(foto)
Dark mode
(ON)



 

Il valore delle cose non esiste nella sostanza, in quanto fondamento ontologico. Non può essere definito per se stesso, senza prima averne provocato lo scontro con la negazione di qualcosa che gli è omogeneo. È una regola che vale per tutte le cose che sono quantificabili, per tutte le unità di misura che contribuiscono a valutare la grandezza. I pugili in questo sono un esempio perfetto: ogni narrazione fa da contraltare a un'altra, non solo perché i contendenti sono due, ma anche perché l’avversario è l’ovvio metro di paragone per un giudizio obiettivo. È una cosa che facciamo sempre, in ogni situazione della vita: modifichiamo la considerazione della realtà a seconda delle giustificazioni che vogliamo darle, una cosa che modifica le quote degli allibratori, la misura delle vittorie, che crea l’epica.

 

Achille usa Ettore, un eroe favorito dagli dèi quanto lui, per mostrare che è il più forte. Il piccolo Davide uccide Golia contro ogni logica. Leonida difende strenuamente la sua posizione alle Termopili costruendo dal niente una nuova tipologia di onore nella sconfitta. Fisher sconfigge Spasskij e il Leicester vince la Premier League. La disparità o l’equilibrio delle condizioni costruisce uno strumento di cui ci si può servire: è questo il senso dei punteggi assurdi di molti nuovi pugili, con zero sconfitte e carriere costruite su atleti mediocri che impressionano l’amatore e fanno storcere il naso a chi conosce le regole del gioco. Nella valutazione complessiva che diamo ai comprimari che contribuiscono a creare i campioni dimentichiamo spesso che esistono storie che possono essere raccontate, e che valgono quanto le altre.

 



 

https://www.youtube.com/watch?v=Tej_r5OFYwM

 

In un mondo perfetto la retorica del rialzarsi dopo una caduta per Ali non sarebbe mai esistita. Anche se Banks è una giovane promessa, Ali è consapevole del valore e della sua boxe: il suo atteggiamento non gli permette nemmeno di considerare la possibilità di una sconfitta. Banks invece è giovane, ha 21 anni e pochissimo da perdere. Quando combatte contro Ali deve pensare che quello è uno di quei giorni santi che cambiano la vita delle persone, e che tutto quello che gli dovrà succedere gli sta per succedere proprio ora. Dopo quell’incontro sarà tutto chiaro, per un verso o per l’altro.

 

È il 10 febbraio del 1962, al Madison Square Garden. Banks sa che ha solo un colpo dalla sua, il gancio sinistro. Ma Ali è troppo forte, troppo veloce. Nonostante la guardia bassa il gancio non arriva mai. A pochi secondi dall’inizio del primo round Banks è all’angolo, cerca di schivare i ganci di Ali, ne schiva uno, due. Ali si attarda per un momento per caricare un gancio al fianco, ma Banks è appena uscito dalla schivata circolare. Mentre Ali si abbassa per portare il pugno lascia scoperta la mascella per mezzo secondo, che per Bansk equivale a vedere la luce. Si ricorda del suo gancio, lo porta al viso, Ali vacilla e cade a terra. Per la prima volta nella sua carriera, ora il mondo sa che non è invincibile, che anche Ali può cadere. Ma quello era il massimo che poteva succedere.

 

Ali si ricompone e dal secondo round in poi non ci sarà storia: l’arbitro sospende l’incontro al quarto, dopo un massacro di colpi di Ali che Banks riceve quasi senza fiatare. Ma perdere contro di lui va bene, la boxe è un lavoro duro e perdere contro il più forte ci sta. Banks è giovane, ci sarà il tempo per rifarsi, per rimettersi in forma, per sfidarlo di nuovo. Dopo l’incontro Alì dira: «io sono il più grande, non dovrei andare per terra». Banks in tre anni fa ancora dodici incontri, fino all’ultimo, contro Leotis Martin nel 1965. Banks ha 24 anni, e mai avrebbe pensato di morirci, sopra quel ring. Nove round di agonia che lo lasciano a terra svuotato. Morirà poco dopo per un ematoma subdurale, un fiotto di sangue nel cervello che non trova nessuna via d’uscita.

 



 

https://www.youtube.com/watch?v=-FZBzGhxERg

 

132 KO. Un record ancora ineguagliato della storia della boxe e una carriera durata venticinque anni fanno di Moore l’icona di una boxe che non esiste più. Passa l’infanzia tra il Mississipi e il Missouri, il profondo sud di un’America votata al razzismo violento. Mediomassimo naturale e picchiatore straordinario fa il suo debutto nel 1936 e da quell’anno inizia una carriera lunghissima che attraversa almeno due epoche della boxe. Vince il primo titolo mondiale nel 1952, al suo 170° match, contro Joe Maxim, per ottocento dollari di borsa. Tre anni dopo davanti a lui c’è Rocky Marciano, la leggenda imbattuta. Dotato di una boxe semplice, Marciano era pura determinazione: lui è il pugile delle 49 vittorie (di cui 43 per KO) e nessuna sconfitta. Ma all’inizio del secondo round, mentre sta tornando troppo lentamente in posizione di guardia dopo una schivata, gli arriva un diretto di Moore dritto sul naso. Va a terra, punta i guantoni, si rialza subito, incredulo. Marciano vince l’incontro ma Moore diventa l’unico pugile ad aver messo a terra la leggenda.

 

Ma quella è una boxe lenta, brutale, basata sulla resistenza fisica dei colpi. Il pugilato che sta portando un giovane chiamato Cassius Clay è del tutto nuova, basata sulla velocità e sulla difesa. Clay-Moore è un classico della boxe. Moore è già una specie di mito, passava ai professionisti sette anni prima che Clay nascesse. Il match, che è fissato per il 15 novembre del 1962, sembra un’anteprima di Ali-Holmes, che si terrà diciotto anni più tardi: sono incontri classici della boxe, dove il testimone viene passato, dove il campione navigato soccombe a quello più giovane nell’ottica di preservare la continuità regale, il corpo deificato e morente del re diventa la metafora stessa della corona.

 

Lo spettacolo è quello che è, Moore ha 46 anni, ha combattuto ovunque, il pubblico lo conosce e lo rispetta. Clay di anni ne ha appena 20, e inizia a diventare in quegli anni ciò che veramente è. Prima di combattere dice: «non chiudete le porte, Moore sarà a casa per il quarto round». Ha ragione. Moore, che è in pessima forma durante il quarto round va al tappeto tre volte. Ora è il momento di Ali.



 



 

https://www.youtube.com/watch?v=8hwn2mqNI1I

 

È il 18 giugno del 1963. Henry Cooper è un peso massimo inglese di 29 anni, cresciuto a Londra durante i pericoli della seconda guerra mondiale. Reclutato alla boxe durante il suo servizio militare, è passato alla storia per uno dei ganci sinistri più devastanti di sempre, chiamato “il martello di Henry”. Cooper è un pugile solido, guardia sinistra benché mancino, che ha difeso più volte la cintura inglese e quella del Commonwealth e quattro anni prima ha perso il match per il titolo mondiale contro Floyd Patterson. Quel giorno, a Wembley, anche se l’incontro non aveva in palio nessun titolo, ci sono trentacinquemila persone.

 

Ali, che è ancora Cassius Clay, è un pugile in rapida ascesa che ha già iniziato a creare il suo personaggio. Si presenta sul ring con un mantello e una corona, al peso esclama: «Avete una regina ma avete bisogno di un re. Io sono il re». In quel momento invece Cooper invece non ha nemmeno un allenatore, sale sulla bilancia con del piombo nascosto nei calzoncini, per riempire quel vuoto di dodici chili che lo separano dall’americano. La differenza di taglia tra i due pugili è evidente. Nonostante questo Cooper inizia il match in maniera aggressiva, cerca di trovare la distanza per il suo sinistro. Il primo round è il suo. Ma con Clay è dura, la sua mobilità lo fa sottrarre con facilità ai colpi di Cooper, comincia ad arrivare a colpire il viso dell’inglese. Allarga le braccia, cerca di umiliarlo. Un destro ben assestato gli ferisce il sopracciglio prominente, ed è allora che Clay comincia a giocare con Cooper: l’impressione è che possa condurre il match a suo piacimento, frantumando le difese di Cooper, mortificando il suo stile roccioso fino a quando non si sarebbe stancato.

 

Ma Cooper non è ancora sconfitto. Quando mancano pochi secondi alla fine del quarto round l’inglese fa esplodere il suo leggendario colpo sulla mascella di Clay. L’americano vacilla, si appoggia alle corde, cade a terra. Il pubblico è estasiato. Quello che succede dopo è una storia che viene raccontata spesso. La fine del quarto round salva Clay dall’essere contato. All’angolo, contro ogni regola, gli vengono fatti annusare i sali, il suo manager, Dundee, chiede che vengano cambiati i guanti. Passa tempo prezioso, Clay si calma, capisce che Cooper non scherza. Durante il quinto round la ferita di Cooper sanguina copiosa, rendendo impossibile il proseguimento del match. Quando l’arbitro termina l’incontro Cooper non fa una piega, rimane impassibile. Ha tirato giù il pugile più forte di tutti i tempi e forse non se ne rende ancora conto. Alla fine del match Clay dirà: «quel colpo l’hanno sentito perfino i miei antenati africani».

 




 



 

Bianco, canadese con ascendenze bosniache, allenato agli inizi da Rocky Marciano e con un record: mai un KO in ventidue anni di carriera. Chuvalo viene considerato uno dei migliori incassatori della storia della boxe. Ha perso con tutti i più grandi pugili della Hall of Fame ma viene unanimemente considerato in possesso di uno spirito combattivo difficilmente imitabile. Ali invece ha ancora la sua licenza da agonista ma comincia a essere ostracizzato in patria: è l’uomo simbolo della lotta per i diritti dei neri, si è convertito all’Islam, nel 67 si sarebbe rifiutato di partire per il Vietnam.

 

È per questo che comincia a calcare i palchi fuori dagli Stati Uniti. L’intenzione dell’entourage di Ali era quella di farlo combattere a Chicago, contro Ernie Terrel, ma lo stato dell’Illinois segue l’onda del sentimento popolare contro Ali e non permette l’incontro. Decidono per Montreal, ma l’associazione veterani di guerra minaccia di boicottare l’Expo dell’anno seguente. Alla fine viene scelta Toronto, nonostante l’impopolarità Ali conserva il suo fascino magnetico. La data del match è decisa per il 29 marzo. Ma alla fine Terrel si tira indietro. Gli organizzatori sono nel panico, a soli diciassette giorni dall’incontro Chuvalo riceve una telefonata: vuole combattere due settimane dopo contro Ali, contro il campione del mondo? È un lasso di tempo ridicolo per preparare quell’incontro e mi immagino cosa debba essere passato per la testa di Chuvalo quando risponde che sì, va bene, si può fare.

 

I pronostici sono tutti ovviamente in favore di Ali ma il canadese è più tosto di quello che sembra. Col passare dei round ci si rende conto che Ali avrebbe potuto soltanto vincere ai punti, ma i body shot di Chuvalo sono tremendi, tanto che qualcuno pensa che il canadese potrebbe anche vincere per KO se riesce ad azzeccarne almeno uno che sia micidiale. Nessuno dei due pugili si risparmia, all’ultimo round Chuvalo dà tutto quello che gli rimane, senza paura sa che quella è la sua ultima occasione per brillare. Ali incassa ma regge, nessuno dei due vuole mollare. È un incontro tremendo, forse il più spettacolare che si avvenuto in terra canadese. Ali vince ai punti, racconterà a tutti che quel match è stato il più duro della sua carriera. Chuvalo invece scrive nella sua biografia: «Quando il match è finito è lui quello ha passato la notte in ospedale perché pisciava sangue. Io ho portato mia moglie a ballare».

 

Nel 1972, a Vancouver, c’è un altro mach, l’ultimo grande incontro del canadese. Anche stavolta non c’è storia, ma allo stesso modo lo stile roccioso e indistruttibile di Chuvalo mandano il match fino ai punti. Nemmeno stavolta Ali riesce a mandarlo a tappeto.

 



 

https://www.youtube.com/watch?v=oJUzl0aFHZw

 

Come una specie di Crilin ante litteram (il ragazzino senza naso è il terrestre più forte di Dragon Ball) Cleveland Williams è considerato il più forte pugile a non aver mai vinto un titolo. Una magra consolazione. Classe 1933 e alto un metro e novanta, tra gli anni 50 e 70 ha combattuto contro molti dei più grandi pugili dell’epoca, compreso un doppio incontro con Sonny Liston. Dotato di una tecnica grezza e di una difesa labile Williams compensava il suo stile con un impressionante condizione fisica. Liston e Foreman hanno ammesso più volte che Williams era stato uno dei pugili più duri contro cui avessero combattuto.

 

I match persi contro Liston gli limitano le già poche possibilità di accedere a un incontro per il titolo. Ma il suo

è il 1965. Viene fermato a un posto di blocco della polizia e si mette a discutere con l’agente, vengono alle mani. Il poliziotto tira fuori una magnum e gli spara, lo centra in pieno addome. Da quel momento in poi soffrirà di danni permanenti al rene e al nervo sciatico e sopravvivrà per miracolo dopo un intervento di rimozione di tre metri di intestino tenue. È in queste condizioni miserabili che

a Houston, il 14 novembre 1966.

 

Ali è al picco della sua carriera, durante l’incontro, considerato una delle sue migliori performance, offre una dimostrazione straordinaria di tecnica e abilità evasiva. Cleveland sa di non potere fare molto, Ali durante quella notte sembra possedere qualcosa di divino, una specie di aura magica che lo rende invincibile: per Ali perdere sarebbe stato impossibile. Il match è impietoso, Williams va giù al terzo round. Incontro finito, carriera finita. Decide di ritirarsi dalla boxe dopo il match e dopo un piccolo ritorno sui ring appende i guantoni definitivamente nel 1972. Chiude la sua carriera da professionista con un dignitoso 78-13-1.

 



 

https://www.youtube.com/watch?v=efBcVKmbLs8

 

Gli errori degli uomini costruiscono le trame delle storie, sono il motore delle narrazioni. Ci vorrebbe tutta una letteratura del contrappasso per verificare e studiare come gli uomini reagiscono agli errori che commettono, quale sia la loro responsabilità e quale la pena che cancella il debito. Per Ernie Terrel la pena è stata un massacro. Ali lo conosceva fin dai dilettanti, quando entrambi erano due giovani promesse della boxe mondiale. Alcuni dicono che fossero addirittura amici, che si rispettassero, che avessero discusso insieme di politica e religione negli hotel solo per neri di Miami in cui condividevano le stanze. Terrel dice che è per questo che prima del match non ha usato per chiamarlo il nome che si è dato dopo essersi convertito all’Islam, che un uomo non può cambiare il suo nome. Ma Ali in quel momento non era soltanto uno sportivo, era il volano di un assetto politico che sarebbe mutato all’improvviso e per sempre. Era il braccio armato della Nation of Islam, la guardia-simbolo a difesa dei fratelli neri. Ali non può permettere che Terrel la passi liscia: deve essere punito per la sua spocchia, per la sua incoscienza. «Non era un insulto», avrebbe detto poi Terrel «io lo conoscevo col nome di Clay, e vedendo come reagiva ho continuato».

 

Nell’incontro di riunificazione delle cinture programmato a Houston, in Texas, la lezione sarebbe stata esemplare: Ali avrebbe dimostrato una volta per tutte con chi il mondo aveva a che fare. E così fu. Un incontro che sarebbe potuto durare pochi minuti durò per tutte e quindici le riprese. Ali dominò Terrel dall’inizio alla fine, chiudendolo alle corde, dimostrando una classe tecnica inaudita e una violenza inaspettata. Durante l’ottavo round, mentre continuava a colpirlo senza pietà Ali chiedeva a Terrel «Come mi chiamo zio Tom? Come mi chiamo?». Terrel non aveva nemmeno il tempo per rispondere, era diventato l’emblema di quell’America odiata contro cui l’Ali politico combatteva con crudeltà, e che avrebbe sconfitto.

 



 

https://www.youtube.com/watch?v=vbYtHaduVZ8

 

La seconda sconfitta da professionista arriva contro Ken Norton, che tanto per rientrare nell’epica ha un nome da semidio: l’Ercole nero. Norton aveva dimostrato il suo valore atletico prima al college e poi in Marina, dove inizia a prendere confidenza con la Boxe. Vince con facilità i primi incontri,

lo descrive come una nuova promessa della boxe mondiale. Nel 73 si presenta al match contro Ali con un impressionante serie di 29-1 (aveva perso solo contro il venezuelano Garcia, all’apice della carriera).

 

Norton afferma di dovere la sua fortuna a un libro motivazionale,

di Napoleon Hill, un’espressione tra

e coaching che cercava di sostituirsi alle sbandate degli anni ‘60 dimostrando ai lettori che era possibile desiderare cose nuove, cose più pratiche, soldi, successo, potere. È il libro che Norton sta leggendo prima dell’incontro con Ali. È più giovane, meno esperto, sfavorito dai pronostici, alla morte dell’autore del libro dirà: «È merito suo se ho vinto contro Ali».

 

La sera del match Ali si presenta col mantello che gli ha donato Elvis Presley, è sicuro di vincere. Norton è dato cinque a uno, sa che le sue possibilità sono limitate, ma la sua forma fisica è ottima, ha intenzione di affrontare il campione a viso aperto. Ogni volta che il jab di Ali parte, la sua spalla si flette, Norton lo blocca col guanto destro e spara col sinistro, quasi tutte le volte. La mascella di Ali si rompe, ma lui non cade. Dopo l’incontro, per gonfiare la sua capacità di sopportare il dolore, Ali dirà  di aver combattuto con la mascella rotta per dieci round, anche se pare se la sia rotta a una ripresa dalla fine. Ali perde per la seconda volta in carriera, Norton non è il pugile così scarso che tutti credevano. Ma quel match gli ha cambiato la vita. In un’intervista afferma: «Il match con Ali mi ha permesso di comprare a mio figlio più cibo, vestiti nuovi. È stata una nuova chance per la vita».

 



 



 

La storia dell’incontro tra Leon Spinks e Ali può essere ascritta a tutte quelle storie la cui morale parla di come è pericoloso sottovalutare chi si ha di fronte. Fratello del più dotato Michael Spinks (uno dei mediomassimi più forti della storia), Leon Spinks aveva ventiquattro anni e solo otto incontri nel suo registro quando gli venne data la possibilità di combattere contro Ali. Sapeva che era l’occasione di tutta una vita. Ali invece di anni ne aveva già trentasei, si aspettava un match facile, contro un avversario mediocre la cui vittoria veniva data 10 a 1.

 

Ma Spinks quella notte fece la storia, quel match divenne leggendario: nessuno si aspettava la vittoria ai punti di Spinks dopo quindici round. Ali era più grosso, aveva maggior esperienza ma si era allenato male, la sua preparazione non era all’altezza. Spinks aveva la follia dei giovani nello sguardo e pochissimo da perdere: non ha mai permesso ad Ali di prendere il controllo totale sul match. Non ne era intimorito. Anche se il decimo round è tutto per Ali, l’undicesimo inizia con un potente jab di Spinks che va a segno, per rimettere le cose in chiaro. Alla fine due giudici su tre decretano la vittoria di Spinks, il suo angolo scoppia in urla di gioia, sua moglie gli va incontro in un’evocazione di un film che verrà proiettato solo molti anni più tardi. Spinks è il nuovo campione. Ali scuote la testa, va a centro ring a stringere la mano del suo avversario.

 

I giornalisti pensano al ritiro, i medici gli sconsigliano di combattere di nuovo, per salvaguardare i suoi reni. No. Anche se il vincitore aveva firmato per difendere il titolo contro Norton, una rivincita con Ali avrebbe fruttato molti più soldi di borsa. Così decidono per la rivincita. Ma stavolta Ali ha imparato la lezione e decide di usare una tecnica che non aveva usato per il match precedente: allenarsi. Vuole disperatamente essere il primo pugili a vincere il terzo titolo mondiale, riappropriarsi di ciò che è suo. «Sto prendendo molto seriamente questo match. Puoi puntare i tuoi soldi su di me», dirà durante gli allenamenti. In effetti il match è a senso unico. Il campione ha capito che la caparbietà paga, che può essere ancora il più forte. La sbornia della vittoria aveva invece distratto Spinks dal match, probabilmente sapeva che non aveva più chance. Ha alcuni guai con la polizia a causa dell’alcol. Il match viene trasmesso in 80 paesi. Ali vince nettamente per decisione unanime e si riprende così il terzo e ultimo titolo mondiale della sua carriera. Spinks invece verrà ricordato per la parabola discendente più fulminea della boxe statunitense: «è ancora il mio idolo», dirà di Ali qualche settimana dopo il match.

 



 



 

La storia di Larry Holmes non è solo la storia di Larry Holmes. In essa si mescolano infamità, soldi, ingiustizia, rivalità e amicizia. Il suo match con Ali, quando ormai il campione è solo un simulacro vuoto, con il parkinson già in azione, è tra gli incontri più infami della boxe e ha contribuito alla fama di manager senza scrupoli di Don King. Holmes era cresciuto all’ombra di Ali, facendogli da sparring partner per 500 dollari alla settimana e imparando tutto quello che c’è da sapere sulla boxe e su quello che c’è intorno. Lo aveva accompagnato persino in Zaire nel match contro Foreman, insomma gli doveva tutto. A un certo punto deve aver pensato, in un attimo di autocoscienza sbagliata che ti mostra un futuro diverso da quello che ti aspetta, forse anche io posso diventare come lui.

 

Holmes era talentuoso, aveva un fisico imponente, sul ring ci sapeva fare. La sua ambizione non gli avrebbe permesso di rimanere tutta la vita all’ombra di un semidio morente. Vince il titolo mondiale contro Norton, nel ’78, che è una specie di lotta all’ultimo sangue. Nella boxe si dice che il gancio ti faccia vincere gli incontri, ma che in realtà sia il jab, a pagarti i migliori alberghi del mondo. E il jab di Holmes è fenomenale. Difende il titolo per otto volte, prima di trovare Ali sulla sua strada. Tre mesi prima del match la commissione medica del Nevada ordina a Ali di compiere degli accertamenti neurologici, che evidenziano problemi di coordinazione e difficoltà ad articolare il linguaggio. Ciononostante lo stato del Nevada acconsente al match, che si terrà nella prestigiosa cornice del Caesars Palace, il 2 ottobre del 1980, ai quindici round.

 

Il video di quel match è impietoso, Ali è palesemente fuori forma, poco lucido, lento e scoordinato, forse durante il suo training camp ha esagerato con un medicinale per la tiroide. Holmes vuole risparmiarsi, non fargli troppo male. Ha detto più volte, al di là del tresh talk delle conferenze stampa, che Ali è un suo amico, che gli vuole bene. Angelo Dundee decide che il massacro può bastare al decimo round, e ferma l’incontro. Larry Holmes, che diventerà uno dei più forti pesi massimi della storia, è il quinto uomo ad aver battuto Muhammad Ali. I giornali parlano poi di un Holmes seduto negli spogliatoi in lacrime, dopo aver capito la gravità di quanto era successo. Ma nel 1980 due milioni e trecentomila dollari, tanto gli fruttarono quei dieci round (mentre Ali ne guadagnò più di 8) erano moltissimi soldi. Larry Holmes ha avuto il compito di dare il colpo di grazia a un eroe mondiale, Ali invece è stata la vittima sacrificale sull’altare di uno sport che lui stesso aveva glorificato. Contro ogni ragionevolezza, Ali sarebbe salito sul ring ancora un’altra volta.

 

 

Attiva modalità lettura
Attiva modalità lettura