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Gli All-Blacks: la squadra migliore del mondo?
22 nov 2013
22 nov 2013
L'evoluzione sportiva del rugby, le nuove regole e un collettivo straordinario hanno reso i Kiwis una macchina sportiva senza pari.
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È successo alla vigilia di una partita fondamentale, che l'allenatore avversario definisse gli All Blacks la squadra più forte del mondo. Non la squadra di rugby più forte del mondo, ma proprio la migliore compagine di atleti a confronto di qualsiasi altra in qualsiasi altro sport. Il coach era Stuart Lancaster e la squadra che allena lui è l'Inghilterra, che lo scorso 16 novembre ha incontrato i neozelandesi durante il loro tour d'autunno, a Twickenham. Il perché un test match – un'amichevole si potrebbe dire se esistesse questa definizione nel vocabolario dei rugbisti in generale e dei britannici in particolare – fosse tanto importante da far sì che l'allenatore di casa si sbilanciasse in questo modo riguardo agli ospiti, è insito nel senso stesso del rugby come gioco. In ogni partita c'è un maledetto torto da raddrizzare o un moto d'orgoglio da portare in campo. Quello dei Kiwis in questo caso era la necessità di sistemare le medie, raddrizzando l'unica sconfitta subita dal trionfo al mondiale del 2011, proprio contro l'Inghilterra. Stiamo parlando di due anni di vittorie consecutive, rotte soltanto dall'incidente contro i Roses (del novembre 2012). Hanno vinto, aggiungendo il penultimo piolo della scala che porta al grande slam. Gli inglesi gliel'hanno fatta penare (ma nemmeno più di tanto) e così hanno riassestato l'asse terrestre perché tornasse l'estate nell'emisfero sud. L'importanza dei "caps" C'è una cosa in particolare che mi è sempre piaciuta del rugby, l'infinita gamma di parallelismi possibili con la marineria. L'esempio lampante sta in quanto sul campo conti l'esperienza. Un bravo giocatore è costruito sulle partite giocate esattamente come un bravo marinaio si forgia sul numero di miglia navigate. E allo stesso modo è segnato nel fisico – concedetemi il romanticismo. Così diventa normale che una squadra come la Nuova Zelanda che schiera, tra titolari e riserve, una media di caps – vale a dire di presenze con la maglia nera e la felce sul petto – di 40,5 per giocatore, con quattro elementi che superano singolarmente le ottanta presenze, non sta schierando un team, ma un reggimento di marina. Se poi tra i ventitré ce n'è uno che nella sua carriera internazionale ha realizzato personalmente 1440 punti complessivi – quasi quindici a partita giocata, vale a dire due mete e qualcosina – allora il reggimento si arma di una contraerea e diventa difficile non frenare gli entusiasmi trovandoseli contro. L'idea che questi All Blacks siano i migliori All Blacks di sempre è ormai abbastanza radicata e si accompagna alla preoccupazione che non riescano ad arrivare alla prossima RWC, quella d'Inghilterra (2015), per via delle defezioni naturali dei grandi vecchi, quei giocatori che passeggiano attorno ai cento caps. Intanto però sono usciti dal Championship con un sei su sei senza precedenti, e nei test hanno infilato tre volte la Francia, tre volte l'Australia, due l'Argentina, due il Sudafrica, una il Giappone e una l'Inghilterra. Il fattore determinante per questo particolare successo sembra essere una concentrazione ritrovata e un'acquisita capacità di soffrire. Anche nelle situazioni di regresso, nei momenti di difficoltà – non molti ultimamente a dirla tutta – dimostrano di non perdere il senso della palla. Non è una banalità questa, quando si parla di rugby “isolano”. Se c'è una cosa che si può rimproverare agli All Blacks delle scorse stagioni, è quella di aver troppe volte sacrificato la concentrazione al gioco spettacolare, lasciando scappare occasioni che sembravano ormai in tasca. Una su tutte la RWC del 2007, soffiata via dalla Francia dell'ogreChabal. L'importanza delle regole Una delle ragioni paradossalmente potrebbe risiedere in quelle regole che nel corso dei più di cent'anni di tradizione sono state aggirate, criticate, contestate e riviste ma ciò non ne inficia la validità nel produrre macchine da guerra. Solo nel 2012, ad esempio, si è avviato il processo di apertura delle frontiere per gli atleti che volessero giocare all'estero e una clausola nello statuto del club prevede che nessuno di loro possa indossare la maglia della massima squadra se non possiede un titolo di studio superiore. I loggionisti li archiviano come accorgimenti figli di un'altra epoca e individuano qui il motivo del razzolare male dei giocatori. È vero, possono essere considerate poco al passo con l'evolversi del professionismo – comunque giovane, nato solo nel 1995 – ma sembra che ora tutto sommato abbiano fatto scattare qualcosa e favorito uno sviluppo sportivo senza precedenti, una concentrazione e devozione che non conosce simili. Si tratta di atleti che non hanno di fronte altro obiettivo se non quello di portare a casa una partita dietro l'altra. Per orgoglio, per abitudine, per stima di se stessi. Al netto degli eccessi e alla lunga, il metodo potrebbe aver dato i suoi frutti se anche Stirling Mortlock – australiano e arcinemico dell'orda nera – ha dichiarato: «sono una macchina, sembra che dal mondiale siano riusciti a salire ancora di livello». Prenderli uno per uno, così come sono entrati in campo a Londra e altre 40,5 volte a testa prima, può essere utile per capirsi meglio, se non altro a livello umano.

Dovendo iniziare un elenco di giocatori è opportuno andare per ordine. Quello di comparizione in campo, vale a dire dal numero quindici a risalire fino al numero uno. Dall'estremo al pilone sinistro. Perché nel rugby tutto ha un ordine, ognuno ha un compito e la democrazia è costruita in scala gerarchica in modo che chiunque prenda un'iniziativa ne assuma la piena responsabilità in relazione al proprio ruolo – vale a dire in relazione a quanto ci si aspetta da lui – e la paghi da solo se le cose non vanno come dovrebbero. Se l'estremo copre la totalità delle skills necessarie in partita – piede, corsa, placcaggio, senso della prospettiva – e ha una visione completa dell'azione, più o meno come il portiere nel calcio ma con più partecipazione spontanea, man mano che si procede verso le prime linee qualcosa va perduto e si arriva ai piloni che dovrebbero – per lo meno così era nel “vecchio” rugby – mantenere una posizione soprattutto difensiva e di sfondamento. Pochi metri macinati, ma solidi, e tanti placcaggi a termine. È come se si riducesse via via il campo visivo di ciascun giocatore e di conseguenza il loro campo d'azione, dandogli meno spazio su cui giocare, ma dando per scontato che sia uno spazio “valido”, di sostanza. Tuttavia, gli All Blacks attuali prevaricano questa schematicità e danno l'idea di prepararsi al salto da qualche tempo. Già dieci anni fa schieravano un bestione come Jonah Lomu, dal fisico da avanti ma le gambe da trequarti, in posizione di ala. E causavano molti problemi a chi aveva l'ingrato compito di difendere sulla sua fascia. Adesso sempre più giocatori abbandonano la specializzazione per essere impiegati in più posizioni diverse. L'importanza dei singoli Quello che segue è una lista della formazione attuale in relazione al numero di partite giocate in Nazionale che, tout court, non può non pesare sul rendimento e sull'influenza di ciascun giocatore nei confronti della concentrazione dei compagni.

Israel Dagg (@izzy_dagg): estremo. Ha venticinque anni. 1,86 per 95 chili e con i suoi 37 caps rappresenta un ottimo modo per iniziare quest'elenco, perché sta esattamente a metà tra i (pochi) esordienti e i (relativamente numerosi) marinai di lunga carriera. È il prototipo del cadetto All Black. Costretto al suo esordio per un paio di partite a fare da scudiero a Mils Muliaina, si è infortunato appena prima del Mondiale 2011 mettendo a rischio la sua partecipazione. Si è ripreso, ha segnato la prima meta nella partita inaugurale contro Tonga e successivamente ha strappato il record dei punti su meta, dimostrandosi un enfant prodige.

Charles Piutau (@CPiutau): estremo e all'occorrenza ala. È nato nelle isole Fiji nel 1991 e con queste ha esordito. Ha collezionato 10 presenze in Nazionale neozelandese, il suo vero nome è piuttosto impronunciabile – Salesi Tu'ipulotu Piutau – ma non è questo il punto. È alto 1,86 e pesa 94 chili. Record di punti su meta nel Mondiale Under-20, sempre nel 2011.

Ben Smith (@bensmithotago): estremo di recente traslato all'ala e con qualche incursione al centro. 1,87 per 91 chili. 26 caps. Ha esordito nei test di autunno del 2009, per la precisione il 14 novembre a San Siro, facendo le scarpe a Joe Rockocoko e ammaccando l'Italia mica male. È uno di quelli di cui ogni tanto ci si dimentica, ma in grado di sistemare due mete a partita senza fatica e recuperare la stima delle tribune e dei sofisti. Il dubbio più grande, ultimamente, è quello di impiegarlo effettivamente come centro accanto a Ma'a Nonu senza che si distragga troppo dalle sue doti difensive. Qualche tempo fa sull'argomento si era espresso Tana Umaga, ex capitano e leggenda vivente.

Ma'a Nonu (@maavelous): centro. Ecco, vedere Nonu giocare è come osservare un rinoceronte che si fa largo tra un branco di gazzelle spaesate, come guardare uno spalaneve pulire le strade. È alto 1,82 e pesa 106 chili e vede la partita dalla punta dei fili d'erba per quanto placca e carica basso. A parte i dread e l'eyeliner sulla faccia ovale da Maori, il suo è un gioco esplosivo, sospeso tra una serie di blitz distruttivi e lo strenuo mantenimento della posizione. È uno che gioca centro ma starebbe benissimo in terza linea, insomma, nonché uno dei giocatori con più partite in maglia nera alle spalle: 87. La presenza di un giocatore come Nonu negli All Blacks ha una valenza quasi primitiva, originaria. È uno di quegli elementi che hanno più carisma che tattica, al netto del fatto che lui di tattica ne ha da vendere. Graham Henry lo ha definito – sempre nell'ambito di quel Mondiale 2011 che echeggia da ogni parte come l'inizio di questa infornata di fenomeni – «il miglior linebreaker del Paese» che traslato alla tesi di fondo che accompagna l'articolo rischia di essere tradotto come “il migliore di tutti i tempi”.

Julian Savea (@juliansavea): ala. 1,93 per 108 chili e 19 caps. La sua prestanza fisica gli è valsa, nel 2010, all'indomani del Junior Championship, l'ingombrante onere di diventare il prossimo Jonah Lomu. Esprimersi in merito sarebbe quantomeno prematuro, però Savea continua a segnare, e lo fa con lo stile del suo mastodontico predecessore: comparendo e sparendo lungo la fascia chiusa, e infilandosi tra le falle della linea con sorprendente agilità per uno che potrebbe tranquillamente sostituire da solo il semiasse di un fuoristrada. È uno dei giovani giocatori che fanno meglio sperare per il futuro della squadra una volta che il cambio di generazione sarà completo.

Dan Carter (@DanCarter): mediano d'apertura. 1,78 per 94 chili e 100 caps tondi. Qui si apre una parentesi, perché se si deve sostenere la tesi di avere sotto gli occhi una squadra fenomenale, allora Dan Carter incarna il fenomeno stesso con 1440 punti segnati e senza alcuna intenzione di rallentare. Gioca mediano d'apertura, il che vuol dire che conosce perfettamente l'allineamento dei compagni e ha sicuramente una buona teoria per ogni squadra che si trovi di fronte. Centra i pali da qualsiasi posizione, con una media che si avvicina al 97% delle trasformazioni realizzate, vuol dire tutti i calci sparati nella direzione giusta, perché ogni tanto il vento, la pioggia e il terreno la differenza la fanno davvero. Tra il 2005 e il 2008 è stato inseguito da praticamente tutti i maggiori club europei fino a che lo Stade Toulousian gli ha offerto «il più grande contratto che una squadra di rugby potrebbe offrire», 750 000 euro l'anno. Nel 2010 ha battuto il record di punti segnati su punizione fino ad allora nelle mani dell'inglese Johnny Wilkinson. Nel 2012 è stato top scorer nella storia del Super Rugby – massima lega neozelandese – con 1301 punti segnati. Non c'è molto altro da scrivere, in realtà, Dan Carter è per il rugby quello che è stato Jordan per il basket e Federer per il tennis: un insieme letale di forza fisica, precisione e concentrazione.

Aaron Smith (@A_Smith09): mediano di mischia. 25 caps con gli All Blacks e tre con la Nazionale Maori. 1,69 per 84 chili. Indicato come uno dei promettenti giovani All Blacks, solo che non è più così giovane – è nato nel '88.

Kieran Read: numero otto, occasionalmente flanker. Se hai una faccia come quella di Kieran Read, qualcosa a metà tra Vincent Cassel e Gary Busy, sei alto 1,93 e pesi 112 chili, hai giocato 60 partite con la maglia All Black, sei stato il "giocatore neozelandese dell'anno 2010", hai sostituito Richie McCaw come capitano quando ha deciso di prendersi un sabbatico passando in corsia di sorpasso personaggi come Mealamu, Ma'a Nonu e Muliana, hai giocato la tua cinquantesima partita il giorno del cinquecentesimo test degli All Blacks, per giunta in Francia e sei in grado di cavare la palla fuori dalle gambe di una decina di persone ammassate per terra, così strette tra loro da confondersi con l'erba, allora c'è ben poco che si possa aggiungere a supporto della tua storia. Tutto sommato è probabilmente il migliore dei migliori in questo momento, e sono in tanti a pensarlo.

Richie McCaw (@RichieHMcCaw): flanker e capitano. 1,88 per 104 chili. Capita spesso che parlando degli All Blacks ci si imbatta in leggende viventi, camminanti e pensanti, ancora in campo dopo decine di stagioni, centinaia di partite e montagne di punti – siano quelli segnati o quelli ricuciti sulle sopracciglia, soprattutto giocando in terza linea. Richie McCaw, vecchio dei suoi 31 anni, sembra sempre sul punto di salutare con cordialità la Nazionale, ma ogni anno si ritrova lì dietro ad aspettare palloni, a tenere insieme le mischie ordinate, a calmare gli animi ardenti e a disturbare i mediani avversari. E lo fa senza il minimo cenno di cedimento, nemmeno per scherzare, arrivando a nascondere gli infortuni piuttosto di lasciare i compagni senza capitano. Retaggio forse del passato militaresco, dopo 123 caps è ancora in grado di fare la differenza e la preoccupazione diffusa è che quando lascerà il posto a qualcuno con meno partite alle spalle, la squadra perda la bussola.

Liam Messam (@LiamMessam): flanker. 1,88 per 108 chili. Ha esordito nel 2008 contro la Scozia e da allora ha collezionato 28 caps, in linea con la media. Nel 2012 ha vinto la Tom French Cup come "giocatore Maori dell'anno".

Sam Whitelock: seconda linea. Figlio e fratello d'arte – George, suo fratello maggiore ha una sola presenza in Nazionale, così come Luke, il minore – ha fatto parte di quei Baby All Blacks vincitori della JWC nel 2008. Vive della tradizione dei giocatori allevati da piccoli, abituati a considerare il club come una seconda famiglia e ha sempre riflettuto questa attitudine sul campo, segnando ad esempio due mete all'Irlanda il giorno del suo debutto. 2,03 metri per 114 chili.

Ben Franks: pilone. 1,85 per 120 chili, gioca a destra, col numero tre. 31 caps e 5 punti realizzati, che non è una banalità per un pilone.

Keven Mealamu: tallonatore. 1,81 per 111 chili. È ricordato tristemente per l'incidente che costò a Brian O'Driscoll il tour coi Lions nel 2005, quando assieme a Tana Umaga – ci sarebbe da fare un analisi solo su di lui per quanto ha influenzato il destino di tutti i giocatori che sono venuti dopo – ha effettuato una dubbia pulizia, dislocando una spalla all'irlandese. A parte questo ha collezionato 110 presenze – terzo All Black a toccare i cento nel 2012 – , che devono contare qualcosa di più di una sanzione disciplinare. Per anzianità è il capitano delegato dopo McCaw, anche se c'è chi dubita possa mantenere il sangue freddo nelle situazioni più complicate.

Tony Woodcock: pilone. 1,84 per 120 chili, classe 1981, è il terzo più vecchio schierato in campo con i suoi 107 caps, subito dopo Mealamu. È stato il primo pilone neozelandese a segnare una meta contro l'Australia in 20 anni, nonché il primo pilone a segnare due mete nella stessa partita in 50 anni. Ha inoltre segnato l'unica, decisiva, meta contro la Francia nella finale del RWC del 2011. Aggiustare torti, si diceva.

Per necessità di sintesi in questo elenco manca chi a Londra è entrato dopo, vale la pena citare almeno Charlie Faumuina, 18 caps da pilone, 1,85 per 130 chili ma secondo Pat Lam "aggraziato come una ballerina" e Aaron Cruden, che sostituisce da qualche tempo Dan Carter all'apertura e in 27 partite ha già realizzato 178 punti, con una media al piede decisamente invidiabile. Il verdetto Quello che sta accadendo ultimamente nel rugby mondiale, e che conduce direttamente al centro di questa analisi, è che le squadre del Championship – il torneo un tempo conosciuto come Tri-nations e disputato tra Australia, Sudafrica, Nuova Zelanda e Argentina – in generale, e gli All Blacks in particolare stiano cambiando il modo di giocare. È lampante per gli appassionati e facilmente spiegabile ai neofiti: si passa da un gioco statico, caratterizzato da un divario fisico piuttosto marcato tra gli avanti – i pesanti, la mischia, quelli adatti a razzolare nel fango delle ruck – e i trequarti – i leggeri, le retrovie, chi porta il pallone nelle fasi veloci del gioco – a un gioco dinamico, caratterizzato da un atletismo piuttosto prevalente. Basta guardare una foto della Nuova Zelanda nella sua formazione attuale e ci si accorge immediatamente che non esistono grandi differenze a livello fisico nei giocatori e che dove prima si trovavano montagne, fuscelli e strani uomini-quercia, ora sembra essersi depositato un ammasso di rocce delle stesse dimensioni. Tutte ugualmente spaventose.

Complici vari assestamenti del regolamento volti a favorire il movimento del pallone, le fasi di gioco fermo si stanno riducendo sempre di più. La mischia ordinata, per fare un esempio, è stata portata da quattro a tre movimenti e va giocata immediatamente dal mediano, pena l'assalto del flanker avversario direttamente nelle reni. La palla si muove e costringe i giocatori a seguirla, c'è sempre meno tempo perché venga messa a terra e perché, in sostanza, si preferisca la forza bruta ai guizzi di velocità. Tutti rapidi, tutti difficili da placcare, tutti molto preparati ai cambi di passo: una nuova specie di super-uomini evoluti per imbracciare l'ovale e portarlo oltre la linea di meta avversaria. A questo si aggiunga il gioco aereo – le rimesse laterali, o touche – e i calci, che nessuno è più dispensato dal padroneggiare perché sono il modo più veloce di guadagnare terreno e una buona occasione per immagazzinare punti ogni volta che la posizione lo consente. Quello che si ottiene è qualcosa di fluido e spettacolare, di armonico e continuo che sembra fondarsi sui miti olimpici greci più che sul passato di università e taverne che vanta lo sport più corretto al mondo. Per immagazzinare al meglio questi cambiamenti è necessaria una preparazione eccezionale, a livello fisico e disciplinare. Conti alla mano, ed escludendo l'emisfero nord ancora legato alla maniera inglese, non c'è una squadra che incarni il cambiamento meglio della Nuova Zelanda e, scorrendo la storia del rugby, non c'è una squadra che maggiormente meriti il diritto di dettare le regole.

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