Esclusive per gli abbonati
Newsletters
About
UU è una rivista di sport fondata a luglio del 2013, da ottobre 2022 è indipendente e si sostiene grazie agli abbonamenti dei suoi lettori
Segui UltimoUomo
Cookie policy
Preferenze
→ UU Srls - Via Parigi 11 00185 Roma - P. IVA 14451341003 - ISSN 2974-5217.
Menu
Articolo
Il Giro ci ha ricordato l’importanza dei gregari
31 mag 2021
Caruso, Martinez e Bilbao hanno rubato la scena.
(articolo)
12 min
Dark mode
(ON)

Forse mai come quest’anno il Giro d'Italia è stato il paradiso del gregariato, parafrasando il titolo di un vecchio film che invece in paradiso ci mandava la classe operaia. Il paradiso in questo caso è il podio della Corsa Rosa, quel secondo posto che per Damiano Caruso - gregario da una vita - è sempre stato un sogno proibito. Un obiettivo inaspettato, che il siciliano ha voluto e ottenuto con forza e classe, mostrando tutte le sue doti di resistenza nelle tappe più dure di questo Giro d’Italia: mai una sbavatura, mai una giornata storta. La costanza di Caruso l’ha portato a cogliere il miglior risultato della sua carriera in una grande corsa a tappe. Un risultato che, a onor del vero, mai è stato raggiunto da quello che alla vigilia doveva essere il suo capitano, cioè Mikel Landa.

Ci è arrivato con le sue gambe, quindi, Damiano Caruso. Aiutato però da un altro gregario di lusso, se così possiamo definire Pello Bilbao. Il basco è uomo capace di piazzarsi in top-10 nella generale al Giro per due volte negli ultimi tre anni, martellando sempre con costanza con la sua pedalata a stantuffo. Anche in questo caso prestazioni mai straordinarie - almeno per gli standard dei migliori ciclisti in circolazione - ma ordinarie: il Giro d’Italia 2021 è il trionfo dell’ordinario, che poi è proprio il regno del gregario.

Chi è Damiano Caruso

Ciclista di quasi 34 anni con una lunga carriera alle spalle passata a fare il gregario, Caruso è diventato professionista come una giovane e interessante promessa per le grandi corse a tappe. Qualche anno e imprevisto dopo, il ciclista siciliano si è però ritrovato a svolgere un ruolo che forse non aveva pienamente previsto, quello cioè del gregario, ma che ha saputo portare avanti con abnegazione e sacrificio. L’exploit in questo Giro d’Italia non è quindi solo frutto del caso.

Caruso è un ciclista che ha sempre fatto della costanza la sua forza. Finora sempre per aiutare il capitano di turno ma riuscendo negli ultimi anni a togliersi anche qualche sfizio personale, come il 10° posto al Tour de France dell’anno scorso, passato ad aiutare il capitano Mikel Landa. Anche quest’anno avrebbe dovuto scortare il basco nell’assalto alla maglia Rosa ma una caduta in una delle prime tappe ha scombussolato le carte in casa Bahrain-Victorious. Landa è uscito di scena, Pello Bilbao non ha dato garanzie perdendo molto terreno già nelle prime tappe. Così, Caruso si è preso sulle spalle la responsabilità di far classifica per la squadra e i suoi compagni si sono messi diligentemente a sua disposizione, come a voler ricambiare tutto ciò che il ragusano ha fatto per loro in questi anni di gregariato.

Caruso ha sfruttato al meglio quella che è stata l’occasione della vita, un treno che per uno come lui passa una volta sola. Ha saputo cogliere la palla al balzo con intelligenza, gestendosi nelle prime settimane per poi uscire alla distanza e cementificare il secondo posto con una splendida vittoria nell’ultima tappa di montagna. Una vittoria costruita con un’intelligenza tattica rara, andando a seguire prontamente l’attacco in discesa di Romain Bardet e la sua squadra. Trascinato da Pello Bilbao - straordinario discesista - ha colto l’attimo buono per evadere dal gruppo e involarsi verso la vittoria solitaria. Bilbao l’ha scortato fino a metà dell’ultima salita, prima di ricevere una piccola pacca sulla spalla e lasciare Caruso da solo contro la montagna. Un gesto, quello di Caruso, che trasuda tutta l'imbarazzata semplicità di un uomo che non è abituato a farsi servire.

Pello Bilbao lancia Caruso su verso l’Alpe di Motta. Una vittoria che ha un significato speciale per entrambi, e per i tanti gregari di questo mondo (foto di Fabio Ferrari/LaPresse)

Con qualche chilometro a cronometro in più, Caruso avrebbe forse potuto impensierire maggiormente Egan Bernal e magari andare a cogliere quella che sarebbe stata una vittoria impensabile alla vigilia del Giro d’Italia. Anche se è qualcosa che ovviamente non sapremo mai con certezza, è una riflessione che va fatta, in questo momento storico in cui le cronometro sono viste con disgusto dagli organizzatori dei grandi giri. Forse con qualche chilometro a cronometro in più, il Giro d’Italia sarebbe stato ancor più combattuto e spettacolare.

Oltre a Caruso, l’altro gregario che ha rubato l’occhio durante l’ultima settimana di questo Giro d’Italia è stato Daniel Martinez. Definire “gregario” il colombiano della Ineos rende l’idea di cosa sia la squadra britannica rispetto alle altre. Una distanza che si riassume tutta nel lusso di poter schierare al via come spalla del capitano uno che ha vinto il Delfinato meno di 12 mesi fa.

Dani Martinez ha svolto un ruolo fondamentale nella vittoria di Egan Bernal, non solo tirando in gruppo e scremando la resistenza degli avversari come spesso vediamo fare ai gregari; ma soprattutto rimanendo accanto al suo capitano nei momenti più difficili di queste 21 tappe, incitandolo a gran voce sulla salita di Sega di Ala quando la maglia Rosa sembrava a un passo dal naufragare rievocando tanti fantasmi del recente passato. Dando vita alla foto più iconica di questo Giro, e forse anche degli ultimi anni.

Foto di Luca Bettini - Pool/Getty Images

Non è un caso, quindi, che sul terzo gradino del podio sia finito il grande sconfitto di questo Giro d’Italia, l’unico fra i primi tre della generale a non poter contare su un gregario di fiducia nei momenti chiave della corsa. Simon Yates ha mostrato tutto il suo talento e tutti i suoi limiti, che però la sua squadra non è riuscita a nascondere quando serviva, al contrario dei suoi avversari. Il britannico del Team Bike Exchange era uno dei grandi favoriti, doveva essere alla vigilia il principale avversario di Egan Bernal, pronto ad approfittare di qualunque crepa nel dominio del colombiano per sfilargli la maglia Rosa dalle spalle con la complicità di un percorso che, tutto sommato, era anche favorevole alle sue caratteristiche.

«In tutti i grandi giri che abbiamo vinto - ha detto Sir Dave Brailsford, general manager della Ineos, nell’intervista post-tappa a Milano - ci sono sempre stati dei momenti in cui il vincitore ha sofferto. Ma l’importante è come gestisci quei momenti». La Ineos, con Castroviejo e Martinez, ha saputo gestire i momenti di difficoltà di Egan Bernal, mantenendo la calma e gestendo il vantaggio acquisito nelle prime due settimane. La Bike Exchange non è riuscita invece a supportare fino in fondo il suo capitano, prima non tenendolo abbastanza vicino in classifica generale nelle prime settimane, poi non riuscendo - per evidenti limiti di organico - a supportarlo nei suoi attacchi alla maglia Rosa.

In più, Simon Yates ha palesato anche tutti i suoi limiti nelle tappe più dure, mostrando crepe evidenti quando le tappe presentavano più salite in successione o quando ci si avvicinava ai 2000 metri di altitudine. Carenze che alla fine pesano quando si va a fare un bilancio della carriera di un ciclista da grandi corse a tappe, pur essendo questa un’epoca in cui di grandi tapponi di montagna se ne vedono sempre meno.

Un Giro “completo”

Il percorso del Giro 104 - pur prestandosi a facili critiche per l’assenza di grandi tapponi alpini e per il basso numero di chilometri a cronometro, oltre che per il modo in cui alcune tappe erano state pensate e disegnate - alla fine ha mostrato buona parte di quella che è l’essenza di una grande corsa a tappe di tre settimane. Nella prima parte abbiamo vissuto tappe mosse e molto diverse fra loro: arrivi in quota a San Giacomo e a Campo Felice, con il breve strappo conclusivo; la tappa di Montalcino in cui bisognava saper guidare la bici sullo sterrato e serviva anche grande resistenza in un percorso che richiedeva uno sforzo molto prolungato nel tempo.

Abbiamo avuto arrivi in salita unipuerto o simil-tali, come il deludente arrivo sullo Zoncolan - preso dal versante più morbido in una tappa che non presentava nessun altra difficoltà altimetrica degna di nota. Nella seconda parte invece, da Cortina in poi, ci sono state tappe ancora più diverse: una doveva essere il tappone dolomitico, poi mutilato, ma che ha avuto comunque un suo senso nell’economia della corsa. E poi i due arrivi in salita più esplosivi di Sega di Ala e Alpe di Mera, prima dell’altro tappone di sabato con San Bernardino, Passo Spluga e Alpe di Motta.

In tutte queste tappe così diverse l’una dall’altra come caratteristiche, abbiamo visto i grandi favoriti alternarsi nel ruolo di mattatore della corsa in base ai punti di forza di ognuno di essi. Simon Yates, ad esempio, è andato molto forte a Sega di Ala e sull’Alpe di Mera proprio in virtù della sua capacità di essere molto esplosivo nelle salite secche con pendenze più dure. Una caratteristica che non è propriamente nelle corde di Egan Bernal, che ha invece costruito il grosso del suo vantaggio nelle tappe più impegnative, dove più che l’esplosività contano la resistenza, la capacità di andar forte in altura e le doti sul passo.

Non è un caso, infatti, che Egan Bernal abbia perso terreno proprio nelle due tappe che più si addicevano al suo rivale inglese, che per qualche giorno è sembrato sul punto di ribaltare il Giro d’Italia. Nell’ultima tappa di montagna, invece, i valori si sono di nuovo ribaltati, con Bernal che è tornato - pur senza essere brillantissimo - ad essergli superiore laddove servivano appunto doti di fondo sulle quali Simon Yates è più limitato.

Anche a cronometro Bernal ha complessivamente guadagnato 51” su Yates nelle due prove di Torino e Milano. Non un distacco eclatante, ma questo per dire che il colombiano ha guadagnato sul rivale ovunque ci fosse da sfruttare le doti di resistenza e sul passo.

Nelle prime due settimane Yates ha provato a nascondersi per risparmiare energie preziose e provare a ribaltare tutto nella terza settimana. Una strategia che non ha pagato fino in fondo, perché è nelle tappe più impegnative che si fanno i distacchi più pesanti. Il britannico ha quindi in un certo senso scelto di lasciare una decina di secondi qua e là nelle varie tappe iniziali (12 a Campo Felice, 17 ad Ascoli, 11 a Sestola) per poi provare a recuperare tutto nel finale. Il problema però è che già sullo Zoncolan, salita in cui in teoria Yates avrebbe dovuto iniziare la rimonta, Bernal non solo non ha perso terreno ma l’ha addirittura staccato nel finale. Ma la botta vera “lo scienziato” l’ha presa proprio sulle Dolomiti, sul Passo Giau, dove Bernal ha vinto la tappa di Cortina rifilando ben 2’37” al rivale. Un distacco quasi incolmabile nelle due tappe di Sega di Ala e Alpe di Mera, dove infatti Yates ha recuperato soltanto 1’21”, abbuoni esclusi.

Non è un caso, fra l’altro, che Yates abbia perso anche il secondo posto a vantaggio di Damiano Caruso, un altro che fa della resistenza e della regolarità il suo punto di forza e che infatti ha costruito il suo secondo posto proprio nelle tappe in cui Bernal ha inflitto i distacchi più pesanti a Simon Yates e a tutti gli altri pretendenti alla maglia Rosa. Chissà, magari senza il taglio della tappa di Cortina, Caruso avrebbe potuto guadagnare anche di più sui suoi inseguitori e forse Yates avrebbe anche perso il suo posto sul podio ai danni di Almeida o Martinez.

Il senso della vittoria

Ma il Giro d’Italia, alla fine, l’ha vinto Egan Bernal- non un gregario, ma indubbiamente un campione. È il secondo colombiano a vincere la Corsa Rosa dopo Nairo Quintana nel 2014, dopo essere stato il primo sudamericano vincitore del Tour de France, nel 2019. È ancora giovanissimo (24 anni, classe 1997) e ha già vinto un Tour e un Giro, due dei quattro grandi giri a cui finora ha preso parte. Numeri che fanno girare la testa ma che in un certo senso ancora non bastano a consacrarlo perché nel frattempo sono arrivati altri personaggi che in parte ne oscurano le gesta. Uno su tutti: Tadej Pogacar.

Come spesso accade, anche stavolta si rimprovera a Bernal di aver vinto sfruttando le assenze degli altri. Di non essersi cioè confrontato contro i migliori interpreti al mondo per quanto riguarda le corse a tappe di tre settimane. Uno ce l’ha in squadra, ed è quel Richard Carapaz con cui la Ineos non ha ancora ben capito cosa fare. Gli altri sono i due sloveni, Primoz Roglic e Tadej Pogacar, contro il quale Bernal si è incrociato solo al Tour dell’anno scorso che ha dovuto abbandonare a causa di problemi alla schiena.

Ma al di là di questi confronti con gli altri campioni del nostro tempo, Bernal ha dominato questo Giro d’Italia rifilando distacchi enormi a tutti i suoi avversari presenti al via. Fra il primo e il quinto della generale ci sono 7’24”, il decimo è a 18’25”. Distacchi impressionanti dati a ciclisti che, pur non essendo tra i primi al mondo, sono comunque di altissimo livello. Nel ciclismo, esistono al momento due mondi paralleli: quello dei “normali”, ovvero Vlasov, Carthy, Almeida, Yates e tutti gli altri; e quello dei fenomeni, al quale appartiene Egan Bernal e i tre che abbiamo citato nel paragrafo precedente.

In un certo senso, quindi, questa vittoria al Giro d’Italia riveste un’importanza ancora maggiore nella legacy di Egan Bernal rispetto al trionfo al Tour del 2019. Perché in quel caso la vittoria era arrivata al termine di un Tour de France molto particolare, in cui un uomo come Alaphilippe aveva tenuto la maglia Gialla per buona parte della corsa resistendo agli attacchi degli specialisti delle corse a tappe. Bernal aveva vinto quel Tour facendo praticamente un solo attacco, con cui aveva fatto saltare per aria tutti gli avversari e primo fra tutti proprio Julian Alaphilippe. Avversari che certo non erano assolutamente superiori a quelli che si è trovato di fronte quest’anno al Giro, anzi.

La mutilazione delle tappe finali, poi, aveva completato l’opera e consegnato a Bernal la vittoria della Grande Boucle in scioltezza. Ma fu, quella, in un certo senso una vittoria mutilata, appunto, arrivata con un singolo e improvviso colpo di mano.

Quella di quest’anno al Giro è stata invece una vittoria costruita dal primo all’ultimo giorno. Bernal ha saputo dominare le prime due settimane attaccando su ogni terreno e mostrandosi nettamente superiore a tutti gli avversari in gara. Ha staccato tutti sugli Appennini, ha mostrato tutta la sua forza sullo sterrato di Montalcino, ha domato le pendenze dello Zoncolan e infine ha inflitto distacchi siderali sulle Dolomiti.

Poi, a rendere ancor più speciale questa vittoria, ha saputo difendersi nei momenti di difficoltà nelle tappe di montagna successive, tenendo duro quando c’era da stringere i denti. Supportato dalla sua squadra (comunque non la solita corazzata che eravamo abituati a vedere, anche se con un Martinez straordinario) è riuscito a controllare la situazione nelle ultime tappe, mascherando anche le sue piccole crepe.

Un dominio, quindi. Bernal ha vinto rimanendo sempre in testa, dovendo perciò controllare la corsa e resistere agli attacchi dei suoi avversari. Una maglia Rosa che quindi pesa in qualche modo più di quella maglia Gialla che l’aveva lanciato nel paradiso dei grandi campioni di questo sport. Se è vero che il secondo album è sempre più difficile nella carriera di un artista, allo stesso modo nel ciclismo confermarsi ad altissimi livelli è ancora più difficile che vincere un primo grande giro. Bernal, ancora nel pieno del suo percorso di maturazione, l’ha fatto. E questo, più della stessa vittoria del Giro, lo pone già nella storia del ciclismo.

Attiva modalità lettura
Attiva modalità lettura