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Marco Gaetani
Macheda, Lupoli e altri giovani italiani scappati all'estero
09 apr 2024
09 apr 2024
Breve storia dei giocatori andati all'estero da giovanissimi.
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Marco Gaetani
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Nel bel mezzo degli anni Duemila, l’Italia del calcio venne travolta da una sorta di "psicosi da rapimento": non potendo offrire contratti professionistici ai giocatori sotto i sedici anni, in alcuni casi i club si trovavano esposti a quello che gli addetti ai lavori definivano un saccheggio bello e buono. In altri, più semplicemente, i giovani calciatori italiani preferivano le offerte, spesso più ricche, dei club stranieri, a quelle al ribasso delle società del nostro campionato.

Una psicosi che si è riaccesa all’improvviso attorno al nome di Francesco Camarda, peraltro impossibilitato a prendere la rotta generalmente più battuta negli anni passati, quella inglese. I 16 anni rappresentano una soglia effettiva, non solo psicologica: una volta compiuti, infatti, i calciatori possono muoversi liberamente all’interno dell’Unione Europea.

Il rumore generato dal possibile passaggio di Camarda in un club straniero comunque non è privo di precedenti: proviamo quindi a tornare indietro con la memoria, anche se la storia è piena di trasferimenti sommersi difficili da ricostruire.

Percassi e Dalla Bona, Di Cesare e Gallaccio

Associare il Chelsea di fine anni Novanta ai calciatori italiani è un esercizio facile, immediato: da Vialli a Zola, da Di Matteo ad Ambrosetti e Casiraghi, e poi tanti altri nei decenni a venire. Ma in quegli anni, il Chelsea è anche una destinazione gradita a molti giovani italiani in rampa di lancio. Il club londinese bussa per ben due volte alle porte dell’Atalanta nel giro di pochi mesi nell’estate del 1998: prima per portare a Stamford Bridge un difensore non ancora diciottenne, quindi per fare lo stesso con un centrocampista di belle speranze.

Il primo è l’attuale amministratore delegato dell’Atalanta, Luca Percassi, che arriva in ritiro alle porte della maggiore età. Mette piede a Londra il giorno dopo la finale di Francia 98, trionfale per due difensori del Chelsea come Desailly e Leboeuf. Può giocare all’occorrenza sia terzino che centrale e sogna di seguire le orme di papà Antonio, che prima di diventare presidente dell’Atalanta nel corso della stagione 1990/91 ne era stato a lungo calciatore, salvo ritirarsi a 25 anni per dedicarsi alla vita da imprenditore. A stregare gli emissari del Chelsea è una partita del campionato Primavera contro l’Udinese: scatta l’invito per un provino di due settimane che si trasforma in un contratto quinquennale. «Ho deciso io, in piena libertà: papà non ha esercitato alcun tipo di pressione», racconta ai giornalisti in quelle ore. Alla stampa parla anche il padre: «Fossi stato ancora presidente dell’Atalanta, a mio figlio un ingaggio così non mi sarei mai sognato di darlo».

Proprio in quei mesi, il Southampton aveva fatto razzia in Italia, anche se di tre maggiorenni: Sarli dal Torino, Atzeni e Pelanti dalla Fiorentina. Ma questa è un’altra musica: il Chelsea va a prendersi due minorenni, perché a breve giro di posta a Londra arriva anche Samuele Dalla Bona, che in fretta diventerà Sam. «Nessun senso di colpa nel pilotare mio figlio verso l’Inghilterra, credo di vantare grossi crediti morali nei confronti dell’Atalanta: il vivaio che io ristrutturai investendo miliardi ha prodotto Morfeo, Tacchinardi, Locatelli, Orlandini, Chianese. Ma riconosco che serve regolamentare la posizione dei giovani senza contratto, questa è diventata la terra di nessuno», aggiunge Percassi dopo la firma del figlio.

E il caso esplode al momento della firma di Dalla Bona, che manda su tutte le furie l’Atalanta: «Si è rifiutato di firmare il contratto con noi, ci ha mentito ed è scappato all’estero. Chiederemo i danni ai suoi procuratori: spendiamo tre miliardi all’anno per il vivaio e ci scippano i migliori». Dalla Bona, 17 anni, leader della primavera dell’Atalanta campione d’Italia e della Nazionale Under 16, è stato visto proprio in azzurro da Vialli durante una partita contro la Scozia. L’avventura di Percassi durerà poco: tornerà in Italia a ottobre del 2000, al Monza, ma lascerà il calcio in fretta, a 24 anni, e il suo futuro lo conosciamo bene. Ben diversa la parabola di Dalla Bona, che trova via via sempre più spazio con il Chelsea, con un ruolo centrale soprattutto agli ordini di Claudio Ranieri. Dirà no al Venezia, aspetterà e accetterà la corte del Milan, trovandosi alle prese con una concorrenza inaffrontabile a centrocampo. Seguiranno prestiti più o meno fortunati, un’avventura con alti e bassi a Napoli, un finale malinconico, lontanissimo dai fasti di inizio carriera.

È il marzo del 2001 quando la vicenda si ripete in maniera più o meno identica: la Lazio incassa con dolore l’addio di Valerio Di Cesare, difensore, classe 1983, pilastro della Primavera biancoceleste e, per osmosi, descritto in quegli anni come un novello Nesta. «È stata una grande mascalzonata: la società credeva molto nel ragazzo, che purtroppo si è fidato di procuratori o presunti tali che fanno soltanto i loro interessi. So chi è stato e sono sicuro che non metterà più piede a Formello», tuona Massimo Cragnotti, direttore generale biancoceleste. «Non sarei mai andato via perché a Roma sono nato e cresciuto, ma ho perso la fiducia perché qui non si crede nei giovani», dice invece Di Cesare, che secondo le cronache dell’epoca firma per 250 milioni di lire all’anno, casa e automobile. E proprio in quei giorni la Roma riesce a difendere dall’assalto inglese un promettente centrocampista che deve ancora compiere 17 anni. Ha i capelli a caschetto, nelle foto che escono sui giornali indossa non solo la maglia giallorossa ma anche quella della Nazionale Under 16. Se Di Cesare viene accostato a Nesta, da quest’altra parte il paragone più immediato è quello con Giuseppe Giannini: «Lo spero, ma non oso pensarlo. Lui era il Principe». Quindi la decisione di non accettare la corte di Claudio Ranieri: «Mi hanno offerto 480 milioni all’anno, più la casa, la macchina, la scuola, i viaggi gratuiti che la mamma vuole fare per raggiungere l’Italia. Ma da quando mi ricordo d’esser vivo tifo per la Roma. Il mio sogno è giocare nella Roma, potevo romperlo solo per guadagnare di più?», dice Alberto Aquilani al Corriere della Sera.

È un’intervista illuminante, se si pensa che a parlare è un sedicenne: «Per noi ragazzi queste proposte arrivano troppo presto, dobbiamo ancora crescere molto. Per noi si tratta di operazione rischiose, magari ti ingannano, ti promettono tanto e poi… Certo, questa età è quella giusta per loro per provare a prenderci prima che ci vincoliamo con una società: di sicuro, quelli che riescono a prenderci ci guadagnano. Non si muovono mai per caso. Il calcio ormai è un business, anche se per me rimane lo sport più bello del mondo: gli girano intorno troppi quattrini, i giocatori hanno cominciato a guadagnare troppo e troppi soldi possono avere un potere inquinante». Sullo slancio della firma di Aquilani, Sensi corre subito ai ripari e fa firmare i primi contratti professionistici anche ad altri tre ragazzi: Simone Farina, Massimo Bonanni e Simone Pepe. Di Cesare non esordirà mai in prima squadra e riuscirà ad avere una carriera da califfo della Serie B: sono passati 23 anni e ancora gioca: è il capitano del Bari.

È andata meno bene a Michele Gallaccio, che a sedici anni, nel 2002, fa la valigia direzione Chelsea rinunciando alla proposta della Lazio: «Mi sono ritrovato a guadagnare diecimila euro al mese, senza sapere nulla di quello che mi stava accadendo. Pensavo di essere arrivato, visto lo stipendio e la squadra in cui giocavo, ma non era così. Non mi è mai mancato nulla, non ho avuto quella fame di arrivare: questo mi ha penalizzato e sicuramente le scelte che ho fatto non mi hanno aiutato, ho sbagliato tutto quello che potevo sbagliare», ha dichiarato qualche anno fa in un’intervista a Gazzetta Regionale. Il suo nome è tornato d’attualità con l’arrivo di José Mourinho a Trigoria: il portoghese, infatti, lo aveva portato in prima squadra al Chelsea dopo che Gallaccio aveva segnato valanghe di gol nell’Academy. «Il mio fisioterapista lo conosce e gli ha parlato di me, lui si ricorda. Mi ha invitato a Trigoria per un caffè ma tra lavoro, famiglia e pallone non sono riuscito a presentarmi all’appuntamento», diceva ad aprile dell'anno scorso. Oggi fa il tassista.

Lupoli e Giuseppe Rossi

Le società inglesi iniziano a sviluppare non solo un certo gusto per il talento italiano, ma anche la capacità di individuare quelle realtà in cui portare via giovani può rivelarsi più semplice. Nell’estate del 2004, il Parma è in crisi nera dal punto di vista societario. Mentre gli occhi di tutti sono rivolti alle vicende della prima squadra, Arsenal e Manchester United seguono per diversi mesi le partite del settore giovanile, perché negli Allievi Nazionali si sta mettendo in mostra una coppia di attaccanti composta da due punte classe 1987, decisive per la vittoria del campionato in finale contro la Juventus. «I problemi fino ad aprile-maggio non ci avevano toccato: una volta finito l’anno si iniziava a parlare tanto del nostro futuro e delle squadre che stavano offrendo per noi dall’estero: solo lì abbiamo capito che qualcosa non funzionava», ha raccontato a mente fredda, nel marzo 2022, Arturo Lupoli, in un’intervista-fiume rilasciata al podcast Clock End, ricordando che sulle sue tracce c’erano Arsenal e Tottenham.

Nell’Europeo Under 17, Lupoli e il suo partner d’attacco al Parma, Giuseppe Rossi, sono ancora insieme. Ci sono anche Andreolli, Criscito, Marco Motta e il compianto Piermario Morosini. Il girone è di ferro, l’Italia perde subito con la Spagna di Jurado e David Silva, poi fa 0-0 con l’Inghilterra di Lennon e Milner, e rimane fuori nonostante il 4-0 rifilato a Israele nell’ultima partita del girone, con doppiette di Lupoli e Nicola Pozzi. Subito dopo l’Europeo, Lupoli firma dunque con l’Arsenal: nonostante l’età, si ritrova spesso ad allenarsi in prima squadra, lavorando in pianta stabile con la formazione riserve. Piace a Wenger, che lo getta nella mischia ogni tanto in coppa di lega, trovando anche l’esordio in Premier League. Nel 2006 va in prestito al Derby County e nel 2007 punta su di lui la Fiorentina: sei anni dopo, ironia della sorte, saranno proprio i viola a riportare definitivamente in Italia il suo compagno dei tempi di Parma.

Arrivato in Italia a 12 anni dagli Stati Uniti, Giuseppe Rossi si trasferisce invece dal Parma al Manchester United: firma il contratto sotto gli occhi attenti di Sir Alex Ferguson, finisce in fretta sotto l’ala protettiva delle stelle di quello spogliatoio, da Giggs a Scholes. Stringe un’amicizia fortissima con Gerard Piqué, arrivato allo United un giorno dopo di lui, entrambi fanno avanti e indietro tra prima squadra e formazione riserve. Quella di Rossi è probabilmente la storia di maggiore successo tra quelle degli expat minorenni: mentre la carriera di Lupoli si spegnerà anno dopo anno, la sua vivrà un’impennata dopo un prestito infruttuoso al Newcastle. Ferguson accetta infatti la prospettiva di interrompere il legame con i "Magpies" per rimandare Rossi a Parma per sei mesi: l’incontro con Ranieri varrà una salvezza impronosticabile al momento della firma e sancirà l’esplosione definitiva di "Pepito", che infila nove gol in metà stagione e si guadagna l’approdo al Villarreal. A frenarlo, tra Spagna e Fiorentina, saranno soltanto gli infortuni.

Macheda, Petrucci, Trotta

Ferguson guarda con grande interesse a quello che accade nei settori giovanili italiani e nel 2007 parte di nuovo all’assalto. È la volta di Federico Macheda, sedicenne wonderkid, come scrivono i giornali inglesi, del settore giovanile della Lazio. Il club biancoceleste lo convoca per il ritiro estivo agli ordini di Delio Rossi nonostante l’età, ma il blitz dello United è mortifero. La proposta è quella di un triennale per il ragazzo (80mila euro a stagione) e un posto di lavoro garantito a papà Pasquale. «Sono amareggiato dall’atteggiamento dello United, il problema è quello dei personaggi che girano attorno ai campi facendo promesse e illudendo i giovani», dice Walter Sabatini, direttore sportivo della Lazio. In quei giorni parla soprattutto il papà: «Sarà l’inizio di una nuova vita, una scommessa che Federico vuole vivere appieno. Non so ancora che tipo di lavoro ci troverà il Manchester United ma sono sicuro che finalmente sarà stabile, con busta paga e tutto il resto. Dal primo contatto con il loro emissario, ormai due anni fa, sono stati estremamente corretti con noi, come del resto lo è stata la Lazio: Lotito ci ha chiamato promettendoci, al compimento dei sedici anni, un buon contratto e la ribalta della Primavera, ma abbiamo dovuto dire no. La decisione, ispirata non solo da valutazioni sportive, era ormai definitiva. Dopo tre anni torniamo a fare le ferie e poi, ai primi di settembre, andremo a indossare la maglia dello United».

È un caso emblematico: il padre di Macheda che parla al plurale, che sottolinea contatti partiti quando il ragazzo aveva solamente 14 anni e che fa capire, senza nemmeno la volontà di nascondersi, che la decisione è figlia anche, se non soprattutto, della possibilità di dimenticare anni di precariato. Per un paio d’anni, nessuno in Italia parla più di Macheda. Poi, però, arriva il giorno dell’esordio in Premier League, il 5 aprile 2009. È una data che nessun tifoso del Manchester United ha dimenticato: i "Red Devils" si stanno giocando il titolo e Macheda entra al posto di Nani in una partita agonica con l’Aston Villa. Ha aperto i conti Ronaldo su un calcio di punizione a due in area – da quant’è che non vedete una punizione a due? – prima del gelo generato dalle capocciate di John Carew e Gabby Agbonlahor. Quella di Ferguson sembra la mossa di un pazzo, di un disperato, ma Rooney è squalificato e Berbatov infortunato.

Macheda è il primo ad abbracciare Cristiano Ronaldo che firma il 2-2 con un mancino chirurgico a superare Friedel, gli batte la mano sul petto, chissà cosa gli urla addosso. Al 93’ riceve palla nella lunetta al limite dell’area, prova un dribbling in maniera goffa, non riesce, il pallone si allontana. Pare inadatto per quel livello, di calcio e di tensione. Ma Ryan Giggs decide di servirlo nuovamente, stavolta in area, lievemente defilato sulla sinistra. Macheda è spalle alla porta, ha un difensore che lo controlla a leggera distanza. Controlla con il tacco destro, a seguire: è incredibile come la stessa persona, nel giro di cinque secondi, possa passare dal trasmettere una sensazione di incertezza a una di onnipotenza. Si piega facendo leva sul piede d’appoggio, che è il sinistro, perché con il controllo è riuscito a girarsi: fa partire un destro a giro sul palo lontano che genera un boato infinito e diventa immediatamente un classico della storia della Premier League.

A questo punto, Macheda torna a essere un tema d’attualità anche dalle nostre parti. «Sapevamo che era un grande giocatore, abbiamo fatto di tutto per trattenerlo, abbiamo diffidato più volte il Manchester United per impedire che ce lo portasse via. Purtroppo le normative non consentono di contrattualizzare i giocatori sotto i 16 anni. È stato uno scippo: lo United, fuori da qualsiasi rispetto di codice etico, prima che i giovani calciatori compra i loro genitori offrendo compensi assurdi. Non è pensabile che un ragazzo di 15 anni venga comprato come se fosse il mercato delle vacche», dice un furioso Claudio Lotito. Macheda, in quelle settimane, è protetto da una divinità invisibile: sei giorni dopo, mette un piede su una conclusione di Carrick destinata sul fondo e segna la rete che regala un altro successo cruciale allo United in casa del Sunderland. Per anni, continuerà a inseguire quella settimana di magia, senza più ritrovarla se non con la maglia del Panathinaikos, con cui è stato protagonista dal 2018 al 2022.

A metà dell’arco temporale tra la firma e l’esplosione di Macheda si colloca invece la vicenda di Davide Petrucci, che nell’estate del 2008 va allo United lasciando di stucco la Roma. «Il Manchester si lamenta per quello che sta facendo il Real Madrid con Ronaldo ma ha fatto la stessa cosa con Davide. Il papà Stefano mi ha deluso, non mi venga a raccontare altre fesserie. Al ragazzo auguro tutto il bene del mondo». La prassi è consolidata: a fare la differenza è il lavoro offerto al padre, al punto che il Daily Mail titola "United grab new Totti and give his dad a job too". Petrucci si dichiara felice dell’affare, ammette che era difficile rifiutare nonostante il tifo per i giallorossi e che papà Stefano lavorerà come giardiniere. Sul tavolo, per il giovane fantasista ormai ex Roma, un contratto da 95mila sterline all’anno contro, stando alle indiscrezioni, la proposta da circa 20mila euro della Roma, che ne incassa 200mila come indennizzo. «Un mese fa la Roma mi ha offerto un contratto al minimo, senza chiarire se si trattasse di un triennale o di un quinquennale. Ho chiesto tempo, lo United mi aveva già presentato la sua offerta, la Roma mi ha dato solo tre giorni per decidere».

In Inghilterra la notizia fa rumore: Petrucci è reduce da una stagione scintillante, ha già debuttato in Under 17, è stato spesso paragonato a Totti. Il Telegraph, con un certo gusto sadico, pubblica un articolo nel quale ricostruisce le reazioni degli angry Romans, citando anche una profezia del quotidiano Il Romanista: «Questo è un incubo, lo United ci ha sfilato Petrucci da sotto il naso, probabilmente è il miglior prodotto del nostro settore giovanile: in tre o quattro anni, varrà cento volte quello che è stato pagato». Non accadrà nulla di tutto questo: dopo lo United, la sequenza della carriera di Petrucci dice Peterborough, Anversa, Charlton, Cluj, Caykur Rizespor, Ascoli, Cosenza, Hapoel Beer Sheva, Brindisi. A fine febbraio ha segnato il suo primo gol con i pugliesi.

È un momento in cui il calcio italiano è totalmente alla mercé dei club inglesi. Il Manchester City, da un anno in mano all’ex primo ministro thailandese Thaksin Shinawatra, versa un milioncino nelle casse del Napoli e si porta via il quindicenne Marcello Trotta, già nazionale azzurro Under 16: «Mi hanno dimostrato quanto credono in me e sono felice». Con lui, che avrà a disposizione un tutor per imparare l’inglese e avere una sponda per proseguire gli studi, parte anche la madre, alla quale il club inglese ha garantito un lavoro. «Rifarei tutta la vita quella scelta: mi ha portato dove sono oggi e mi ha fatto crescere tantissimo come calciatore. Ho avuto l’opportunità di vedere un calcio che è avanti nella cura dei giovani, con strutture e risorse che ti mettono in condizione di diventare un calciatore professionista», ha ricordato qualche mese fa. Come Petrucci, ora gioca al Brindisi.

Il caso Camilleri

Il 2008 è anche l’anno in cui i livelli di tensione raggiungono vette mai sperimentate prima. Tutto ha inizio a febbraio, quando Vincenzo Camilleri, difensore degli Allievi Nazionali della Reggina, accetta l’offerta del Chelsea e si aggrega, ancora quindicenne, al settore giovanile dei Blues. Il patron della Reggina, Lillo Foti, va su tutte le furie: «La trattativa è stata avviata in un’epoca non consentita in quanto il calciatore non aveva compiuto sedici anni. Per raggiungere lo scopo, i signori Frank Arnesen e Carlo Jacomuzzi, utilizzando gli elicotteri di Abramovich, sono sbarcati all'interno di un territorio non di loro competenza, quale il Centro Sportivo Sant’Agata e lo hanno saccheggiato, mettendo in mostra potenza e denaro, di contro al quotidiano lavoro e sacrificio della Reggina Calcio».

Camilleri aveva esordito, quindicenne, in uno spezzone di Reggina-Inter di Coppa Italia nel dicembre 2007, a testimonianza dell’importanza che rivestiva nei progetti del club. «Mi chiamò l’osservatore del Chelsea, Carlo Jacomuzzi, mi disse che avevano individuato in me il centrale del futuro», ha rivelato Camilleri nel 2019 in un’intervista concessa al sito di Gianluca Di Marzio, sfumando però il racconto di Foti: «Andai a Londra con mia madre e il procuratore per vedere il progetto da vicino, mi portarono a Stamford Bridge. La società non sapeva ma immaginava, fui io a parlare con il presidente Foti, non rimase contento: era convinto di essere stato derubato e fece ricorso, anche Platini si schierò dalla sua parte. Tutti pensavano che io ero stato prelevato di nascosto con un elicottero del Chelsea dal Centro Sant’Agata per andare a Londra, ma vi confesso che non è stato assolutamente così».

Si mette in mezzo il presidente della FIGC, che annuncia l’invio di una lettera ai presidenti di FIFA e UEFA, Blatter e Platini, «per chiedere che l’argomento venga approfondito e discusso nelle sedi competenti, nell’ottica di salvaguardare vivai e scuole tecniche nazionali». Con il giocatore ormai già a Londra, a ottobre la Commissione Disciplinare Nazionale emette una squalifica di due mesi per il giocatore, anche se si tratta di uno stop che, di fatto, vale soltanto per le nazionali giovanili. Al Chelsea andrà malissimo e finirà per tornare alla Reggina, passando poi anche alla Juventus. Oggi è un giocatore del Barletta.

Scamacca

I 195 centimetri del non ancora sedicenne Gianluca Scamacca sono una notizia che gira veloce nel mondo del calcio: le tribunette di Trigoria si affollano per vedere questo strano esemplare di centravanti che infila 34 gol (compreso quello che vale lo scudetto Giovanissimi contro la Juventus) in una stagione, giocata sotto età, figlia non solo dell’inevitabile dominio fisico ma anche di una tecnica che teoricamente cozza con questo corpo sovradimensionato rispetto ai coetanei. Era arrivato alla Roma grazie a Bruno Conti, che due anni e mezzo prima lo aveva portato via alla Lazio.

Per una volta, il Manchester United decide che non vale la pena: ha già osservato da vicino il ragazzo in occasione del torneo Nike a Carrington e nessuno ne è rimasto impressionato. Scamacca è uno dei tre 1999 aggregati all’Under 17 per le partite di qualificazione all’Europeo di categoria insieme a Gigio Donnarumma e Filippo Melegoni. Le voci inglesi riferiscono di Liverpool e Southampton, ma ben presto è la pista olandese ad accendersi: la Gazzetta dello Sport lancia la bomba del possibile addio di Scamacca a dicembre 2014, quando Gianluca non può ancora firmare nulla. Ma manca poco, i sedici anni scoccano il primo gennaio. Walter Sabatini, che stavolta è il direttore sportivo della Roma, prova ad attivarsi nei giorni in cui Scamacca salta alcuni allenamenti: tutti sono convinti che le assenze siano dovute a un viaggio in Olanda.

Il DS della Roma mette sul tavolo il minimo sindacale, alza l’offerta, inoltre aveva già proposto al giocatore un posto nel pensionato di Trigoria, abbastanza anomala come offerta per un ragazzo di Roma ma pensata per venire incontro alle esigenze di Scamacca che aveva problemi a farsi accompagnare a Trigoria venendo da Fidene, nel quadrante opposto della capitale. Il PSV offre un contratto base di 70mila euro a stagione, a salire. Il 9 gennaio, sul suo profilo Twitter, il club olandese mostra la foto del neosedicenne Scamacca che firma il primo contratto della sua vita: non ci sono tatuaggi in vista, Gianluca sfoggia una camicia a quadrettoni, sorride alla camera. «Dopo tanti anni di sacrificio, una soddisfazione vera», scrive lui su Instagram.

Il PSV trova un lavoro alla madre, ma prima deve imparare la lingua: lo afferma proprio Scamacca, che un mese dopo la firma si fa intervistare dalla Gazzetta dello Sport. «Ci hanno dato casa e macchina, quando salgono anche mio padre e mia sorella ci stiamo tutti. A me è sembrato un passaggio normalissimo, anche se ho cambiato nazione. L’ho fatto per migliorare, per un percorso di crescita. In Italia nei giovani credono poco, all’estero è tutto diverso. Qui non c’è l’ossessione del risultato: mi hanno offerto un percorso chiaro, un lavoro specifico, personalizzato, con tanti ex calciatori che fanno gli istruttori: il vice della squadra B è Van Bommel, mi alleno spesso con lui, anche perché è l’unico che parla italiano. E a fare lavoro specifico con i centravanti c’è Van Nistelrooy, un mito. A Roma mi avevano proposto la promozione in Primavera ma ho avuto l’impressione che sarei salito solo per fare numero, a cosa mi sarebbe servito? Uno all’età mia deve giocare, per crescere e migliorarsi. Il campionato Allievi è sin troppo facile, poco allenante». Poi, al giornalista, lascia una frase che forse dovrebbe farci da faro quando analizziamo vicende come quella che ha coinvolto tutti questi ragazzi e rischia di essere calzante anche per l’eventuale caso Camarda: «Ho sentito tanta gente che parla senza conoscere la situazione: non si può dare del mercenario a un ragazzo di sedici anni».

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