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L'addio di una leggenda
24 nov 2025
Dopo una carriera irripetibile, Giorgio Petrosyan ha dato il suo addio alla kickboxing
(articolo)
8 min
(copertina)
Davide Gesmundo
(copertina) Davide Gesmundo
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Come rendere l’idea di chi sia Giorgio Petrosyan per chi non lo conosce? Come spiegare cosa significa il suo ritiro? Parliamo di un mito, una leggenda, uno di quegli atleti che hanno fatto la storia dello sport. Nella sua disciplina, la kickboxing, Petrosyan equivale a Michael Jordan, a Lionel Messi, a Roger Federer. Ha vinto 21 cinture mondiali, disputato 114 match e perso solo 3 volte, con 43 vittorie per KO.

Petrosyan è stato campione dell’iconico torneo giapponese K-1 MAX nel 2009 e 2010 (il primo a farlo per due edizioni consecutive), di quello firmato Glory nel 2012 e di un altro, altrettanto competitivo, organizzato da One Championship nel 2019 - oltre alla parentesi nell’americana Bellator Kickboxing e in importanti circuiti europei. Petrosyan ha affrontato i migliori della sua generazione restando al vertice per un decennio, confermandosi in organizzazioni e fasi di carriera diverse nonostante fosse tormentato dagli infortuni alle mani.

Armeno di nascita, Giorgio arriva in Italia da ragazzino con suo padre, per fuggire dalla guerra con l’Azerbaijan, nascosto nel rimorchio di un camion. Da Milano raggiunge Gorizia e si ricongiunge con il resto della famiglia, tra cui il fratello Armen. I Petrosyan attraversano un periodo difficile tra Caritas e povertà, Giorgio lavora in cantiere finché a 16 anni esordisce sul ring - si allenava sin da bambino, affascinato dai film di Bruce Lee e di Jean-Claude Van Damme.

Arrivano i primi successi, Petrosyan si fa un nome - lo chiamano “The Doctor” per la precisione chirurgica dei colpi - e comincia una scalata che farà la storia e che gli consente, nel 2014, di diventare cittadino italiano per meriti sportivi.

Sabato sera è andato in scena l’ultimo atto della sua carriera, in un evento che prende il suo nome, Petrosyanmania, organizzato dal fratello Armen all’Allianz Cloud di Milano.

Foto di Davide Gesmundo

LA VIGILIA
Alla vigilia del combattimento ho parlato con Petrosyan, che mi ha detto: «Mi ritiro non tanto per l’età [saranno 40 anni ai primi di dicembre, ndr] ma per gli infortuni. Mi sono rotto entrambe le mani [undici volte solo la sinistra, ndr] ho avuto tre fratture della mandibola, un’ernia cervicale, problemi vari a ginocchia e piedi. E fare mesi di dieta sta diventando sempre più faticoso».

Petrosyan comincia il training camp sull’ottantina di chili e scende gradualmente fino ai settanta, mangiando «pasta in bianco, riso, pollo e insalata per settimane, finché elimino totalmente i carboidrati per perdere i chili residui». Gli ho chiesto come stesse vivendo la vigilia del suo ultimo incontro, mi ha risposto che cercava di focalizzarsi sull’incontro godendosi la preparazione, senza pensare al fatto che fosse, appunto, l’ultimo. «Altrimenti farei fatica a dormire per l’emozione».

Ma come immaginava il futuro? «Ho una palestra, resterò nell’ambiente, ma sarà dura. Spero di rivivere certe sensazioni portando a combattere i miei allievi. Per il resto, so già che dovrò lavorare su me stesso a livello psicologico». Al momento non c’è un erede e, anzi, suo fratello Armen mi ha detto di essere preoccupato per il futuro della kickboxing in Italia, senza Giorgio.

Anche una leggenda come Petrosyan ha accusato un paio di sconfitte brucianti in carriera: contro Andie Ristie - KO nel 2013 - e più di recente contro il thailandese Superbon - 2019, sempre per KO (poco dopo lo avevo già intervistato) - che gli ha fratturato la mandibola in quattro punti e interrotto una striscia di imbattibilità di ben otto anni. Ripensando al proprio percorso e ai momenti difficili, prima di entrare per l’ultima volta nel ring, Petrosyan ha confessato: «A volte il sacrificio, la dedizione e il talento non bastano. Ci sono stati momenti in cui ho odiato la kickboxing».

Entrambe le sconfitte hanno lasciato pesanti strascichi psicologici in Petrosyan, che ha attraversato periodi di depressione e, in occasione della caduta più recente, è stato ricoverato in una clinica a causa degli attacchi di panico. «Non so come abbia fatto a non farmi del male da solo, a farla finita».

È stato salvato dalla famiglia e dalla psicoterapia: «Ho una fissazione compulsiva che è stata la mia fortuna, perché mi ha reso maniacale nei dettagli, nella disciplina, negli allenamenti. Non mi sono mai goduto una vittoria, pensavo subito a cosa potessi migliorare. Ma questa mentalità mi ha reso anche ossessivo nei confronti delle sconfitte».

In passato, Giorgio Petrosyan ha sempre parlato poco di sé, preferendo dimostrare il proprio valore sul ring, senza giri di parole o proclami. Ancora adesso, se gli si chiede del suo status, oppure di paragonarsi a un altro sportivo del suo calibro, la risposta è modesta: «Non saprei, forse perché non me ne sono ancora reso conto, ho sempre pensato a combattere. Lascio giudicare agli altri».

THE LAST DANCE
Arrivo all’Allianz Cloud verso le 19, in una gelida serata milanese. Scendo le scale delle gradinate, attraverso il parterre e accedo all’area degli spogliatoi. Gli atleti della card sono divisi in due stanze ai lati opposti del palazzetto, a seconda che gli sia stato assegnato l’angolo rosso o quello blu. I fighter radunati sotto lo stesso colore condividono lo spogliatoio, mentre Petrosyan ha una stanza tutta per sé. Entro, lui non c’è ancora, è atteso dalla numerosa troupe che sta realizzando un documentario sulla sua storia e che è già schierata con la propria attrezzatura. La stanza è bianca, quadrata, con panche dotate di appendiabiti e vani contenitori lungo le pareti, specchi, un tavolo, un lettino per i massaggi, un muro che separa la zona con docce e bagno. Petrosyan compare alle 19:30, il suo match è previsto tre ore più tardi.

Comincia un via vai di persone del suo team, più conoscenti vari, che lo salutano, lo abbracciano, ci scambiano qualche parola. L’atmosfera è rilassata, ma Petrosyan sembra già concentrato. Cammina per lo spogliatoio, fa qualche piegamento sulle gambe, scioglie i muscoli, mangia una barretta credo proteica e un paio di banane, beve parecchio. Compare il fratello Armen, onnipresente in qualsiasi angolo del palazzetto per supervisionare l’organizzazione, che lo aggiorna sull’andamento dell’evento.

A un certo punto bussano alla porta, entra un gruppo di persone tra cui un paio di addetti alla security che scortano un ragazzone con una tuta nera, il cappuccio sugli occhi e una bandana sul volto con il sorriso di un teschio. Appena se la sfila, tutti riconoscono Mario Balotelli - dietro di lui il fratello Enock - venuto a sostenere l’amico Petrosyan, che lo abbraccia per salutarlo. Poco dopo ecco anche Tony Effe, Emis Killa, Tedua, Nicola Ventola, Alessio Sakara. Alle 20:30 arriva il cutman e Petrosyan comincia i bendaggi. Una volta finito manca ancora un’ora e mezza al match.

Foto di Davide Gesmundo

Dopo un rapido massaggio ci sono gli esercizi di mobilità, per aumentare l’ampiezza e la fluidità dei movimenti, e lo stretching. Mentre si scioglie, Petrosyan comincia a menare colpi a vuoto - si chiama shadowboxing -, abitudine utile alla sollecitazione neuromuscolare, ad aumentare i battiti gradualmente, a visualizzare la strategia dell’incontro.

Quando indossa i guantoni, sa che sta entrando nella fase finale del riscaldamento, quella ai colpitori. Il rumore di pugni e calci sferrati alla massima potenza sui bersagli di pelle, imbottiti di schiuma ad alta densità su più strati, è assordante. Rimbomba nella stanza, rimbalza sulle pareti, fa venire mal di testa. Petrosyan urla e colpisce, sfoggia combinazioni rapide e potenti. E così comincia a sudare, a spezzare il fiato.

Foto di Davide Gesmundo

L’evento è in leggero ritardo, alle 22:50 Armen dice al fratello di uscire nel corridoio degli spogliatoi, dove l’aria è più fresca - all’interno, ormai, è quasi irrespirabile da quanto è umida. Petrosyan indossa il completo da ring, saltella, tira colpi a vuoto, Armen ordina ai presenti di fare spazio. Poi i due si abbracciano parlandosi in armeno. Sono sempre stati fianco a fianco, nella buona e nella cattiva sorte come si dice, e lo sono anche oggi. L’epilogo della carriera di Petrosyan non poteva che svolgersi su un palcoscenico costruito su misura per lui dal fratello, per celebrarne l’importanza, in un contesto che rende onore a un campione, ma anche all’amore fraterno.

Petrosyan viene chiamato sul ring, percorre il corridoio del backstage insieme al suo team, ai suoi allievi, agli amici e compare in scena. Il pubblico lo acclama, il palazzetto vibra.

Al suono della campana, Petrosyan domina l’avversario, il portoghese Josè Sousa, che alla fine gli concede l'onore di alzargli il braccio per decretarne la vittoria per l’ultima volta, segnando la fine di un percorso durato 24 anni. Petrosyan si sfila i guantoni, li bacia, li appoggia davanti a sé e si inginocchia sul ring, applaudendo e ringraziando. C'è grande entusiasmo e commozione. «Non pensavo sarebbe mai arrivato questo momento, invece eccoci qui. Sono fiero di aver chiuso la mia carriera con voi», dice al microfono. Comincia la festa, Petrosyan viene travolto dall’affetto di amici e fan.

Esco dal palazzetto e penso a come la carriera di Petrosyan ha di fatto accompagnato la mia vita, o almeno a una buona parte di essa. Ho assistito alla fine di una carriera leggendaria nata quasi prima di me, conclusa quando ormai sono diventato un adulto, costellata di vittorie a cui ho assistito durante l’adolescenza. Forse riusciremo a visualizzare la grandezza di Petrosyan solo tra qualche anno, nel frattempo sono felice che abbia potuto salutare i suoi tifosi in una serata all’altezza di ciò che è stato.

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