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Roberto Scarcella
Gignac e il Messico: storia di un matrimonio
21 lug 2022
21 lug 2022
Un romanzo d'amore che nessuno si sarebbe aspettato.
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Roberto Scarcella
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Nemmeno era arrivato e già gli avevano dato un nome. L’avevano chiamato “Bomboro”, una parola che in Messico tutti conoscevano e tutti avevano canticchiato, ma che non voleva dire niente, lasciando che fosse lui a riempirla di significato. Il bomboro - come l’amore, come tutte le cose che puoi chiamare, ma non vedere, e che puoi facilmente fraintendere - era un grande vuoto da colmare.


 

Anche Monterrey, una città enorme, la terza del Paese con più di un milione di abitanti, aveva un disperato bisogno di colmare vuoti dopo aver perso negli anni le sue fabbriche e, di conseguenza, la sua identità. Monterrey era stata una fornace ai piedi di una scenografica montagna che sembra una sella (El Cerro de la Silla, appunto), un’enorme fonderia che aveva smesso di funzionare riconvertendosi in centro finanziario: così si è arricchita, ha ripulito la sua aria e la sua immagine fuligginosa, eppure, ai freddi algoritmi del mondo liquido una parte di sé continua a preferire le colate di metallo fuso.


 

Il suo parco infinito e verdissimo dove le famiglie si riversano nel weekend, il Parque de la Fundidora, è stato ricavato negli spazi dell’ex fonderia; per vedere la città dall’alto si sale su un ascensore esterno che ti porta in cima a una fabbrica in disuso; il museo Horno3, in cui orgogliosamente vengono indirizzati i turisti e portati in processione i giovani studenti locali, è interamente dedicato alla vita negli altiforni; la fontana simbolo della città è una siviera, ovvero uno di quegli enormi secchi da colata che - nelle industrie - sembrano contenere lava, e che oggi invece sputa acqua.


 

Anche il più grande poeta locale (venerato persino da Jorge Luis Borges), Alfonso Reyes, nel descrivere la sua città si ritrovò davanti a due passaggi obbligati, El Cerro de la Silla e le fonderie: “Monterrey delle montagne, tu che stai affianco al fiume, fabbrica della frontiera e talmente mio luogo natio che non so come non aggiungo il tuo nome al mio”. Monterrey, nel nord-est del Paese, lontana da tutto, fuorché dalla frontiera con gli Stati Uniti, è davvero troppo grande per non averla sentita nominare, ma in tanti (messicani a parte) non saprebbero dove indicarla su una mappa. Non lo sapeva nemmeno André-Pierre Gignac, detto poi “El Bomboro”, quando nel giugno del 2015, appena svincolato dall’Olympique Marsiglia, ricevette un’inusuale offerta di lavoro dal Tigres, una delle due squadre della città.


 

Oltre a uno stipendio extralarge, per convincerlo, il presidente Miguel Angel Garza arrivò a dirgli che lì era esattamente come a Cancun, la città-resort sulla Riviera Maya, dall’altra parte del Paese. A Gignac evidentemente non interessava, né di Cancun né della bugia, e nel giro di una notte l’affare era fatto. Uno dei più talentuosi e prolifici attaccanti francesi della sua generazione si trasferiva, a nemmeno trent’anni, in un campionato esotico e poco conosciuto.


 





 

Quando atterra per la prima volta in Messico gli mettono in testa l’immancabile sombrero e in mano una targa d’automobile di quelle che si trovano nei negozi di souvenir per turisti di bocca buona. Nel frattempo è già diventato “El Bomboro”. A battezzarlo è stato Don Rober, al secolo Roberto Hernández Jr., uno dei più noti giornalisti sportivi messicani, che per salutare l’arrivo del francese si mise a canticchiare in diretta tv: “El bomboro, Gignac Gignac, el bomboro”, sostituendo la parola “quiña” nel ritornello di una popolarissima canzone della Sonora Santanera scritta dal cubano Zamorita. La canzone, modificata, diventerà il coro più cantato nello stadio del Tigres e il tradizionale modo di festeggiare le reti del francese.


 

Gignac, detto el Bomboro, rapidamente diventerà un sacco di altre cose: in gol alla prima amichevole, in gol nella semifinale di ritorno di Copa Libertadores contro l’Internacional di Porto Alegre che qualifica il Tigres alla finale (poi persa contro il River Plate), capace di fare la prima tripletta dopo appena 5 giornate di campionato.


 

Monterrey, con le fonderie ormai spente, scopre di potersi scaldare con questo francese di Martigues, crocevia sull’acqua tra la Camargue e Marsiglia. Un posto che con il nord del Messico non c’entra nulla. Anche Gignac, con il sombrero in testa, aveva uno sguardo che sembrava dire “cosa ci faccio qui?”. Quattro anni dopo - insieme alla moglie - ha ottenuto il passaporto messicano, passaggio che lui sentiva come obbligato, un gesto d’appartenenza e allo stesso tempo un ringraziamento per una Nazione che l’ha accolto a braccia aperte e fatto sentire a casa. La mossa più simile a un matrimonio per un amore ricambiato tra un uomo e un Paese.


 

Recentemente ha detto che prolungherà la sua carriera fino al 2025, sempre col Tigres, nonostante lo avessero cercato ricche squadre del campionato statunitense, il Flamengo e il Boca Juniors. Ha fatto capire che la sua carriera potrebbe chiudersi al Tigres, aggiungendo che probabilmente rimarrà a vivere in Messico.


 

Queste dichiarazioni d’amore si aggiungono a una serie di parole e fatti che si sono sommati negli anni: ha detto che se fosse arrivato in Messico più giovane avrebbe optato per i suoi colori anziché per la nazionale francese (con cui ha giocato un Mondiale e sfiorato la vittoria nell’Europeo casalingo del 2016 colpendo un palo nella finale col Portogallo), una volta ha pagato una multa per strada a dei ragazzi del suo quartiere per evitare loro guai maggiori (con tanto di selfie celebrativo finale), infarcisce il suo spagnolo di slang messicano e norteño (la parlata di Monterrey) con naturalezza, partecipa a partite di calcetto nel quartiere, ascolta playlist di musica messicana.


 

«Si può dire che è diventato uno di noi, ma in qualche misura pensiamo che lo fosse già» dice Arturo Sanchez, giornalista de El Norte. «Ricordo la sua prima partita, con un caldo micidiale, che di solito stronca quasi tutti gli stranieri che arrivano qui. Lui entrò come se niente fosse. È stato amore a prima vista. Sono quelle cose che succedono perché devono succedere, non vedo altra spiegazione. Non aveva legami col Messico, non era meglio o peggio di altri potenziali acquisti, eppure il Tigres l’ha chiamato e lui è venuto in meno di 24 ore. C’è gente, molto meno quotata, che ci mette di più a firmare per il Real Madrid. Doveva succedere». È successo.


 

Sanchez lo dice a fine primo tempo dell’ultima partita tra Tigres e Club America, allo stadio Universitario, una specie di mini-Bombonera, per atmosfera e colori, gli stessi del Tigres. Lo stadio, di 42mila posti, non solo è sempre pieno, ma gli abbonati sono talmente tanti che la manciata di biglietti che resta per la vendita libera va sempre esaurita in poche ore. Prima che arrivasse Gignac lo stesso stadio veniva riempito solo per metà.


 

Il suo arrivo è stato un affare per la squadra, che è tornata a vincere: 4 campionati, 3 Supercoppe nazionali e una Champions League nordamericana, competizione dove Gignac è stato eletto miglior giocatore prima di trascinare la squadra sino alla finale del Mondiale per Club, poi persa 1-0 contro il Bayern Monaco. I tre gol che hanno portato in fondo i messicani, neanche a dirlo, sono stati tutti di Gignac (doppietta contro l’Ulsan Hyundai, gol decisivo in semifinale nell’1-0 con il Palmeiras).


 

Per questo - e non solo - l’avvicinamento allo stadio del Tigres ricorda per metà un pellegrinaggio, per metà l’ingresso in un mondo parallelo dove tutto viene messo nelle mani (e nei piedi) della stessa persona: Gignac che ti vende una carta di credito, uno shampoo, un paio di scarpe, una bibita energetica, una maglietta. Se guardi in alto c’è il faccione di Gignac stampato su un cartellone della Coca-Cola, se guardi verso lo stadio ci sono i suoi poster, se ti guardi attorno ci sono tifosi con la maglia del Tigres, e se dietro c’è un nome stampato, facile che sia quello di Gignac, se guardi per terra ci sono venditori ambulanti che di Gignac hanno tutto, perfino degli inquietanti pupazzetti con le sue sembianze. Il francese ha ingoiato la sua stessa squadra, e gli resiste solo un mito del passato come Tomas Boy, morto nel marzo di quest’anno: l’unico per cui risulta ancora accettabile la domanda “È più forte lui o Gignac?”, che nel frattempo ha battuto il suo record di gol (siamo a 167).


 

Nel negozio ufficiale del Tigres, otto magliette vendute su dieci portano il suo nome. Tra i venditori ambulanti la percentuale cresce per forza: alcuni vendono solo la sua. Quando in un negozio chiedo di farmi stampare il nome dell’altro francese del Tigres, Florian Thauvin, per un regalo a un amico, il commesso resta perplesso. Gli rimane la domanda in bocca per qualche secondo, poi non ce la fa più e mi chiede: «Perché non Gignac?».


 

"Perché non Gignac" è la domanda che devono essersi fatti in molti, tra i tifosi del Tigres negli ultimi anni: il suo nome è stato dato a panini, tacos e cocktail, perfino a una salsa. Una taqueria di Monterrey si chiama El Gignac, come anche la tigre del Bengala nata nello zoo cittadino de La Pastora nel 2017: a scegliere il nome sono stati tremila studenti.


 

Arturo, il giornalista che mi sta seduto accanto mentre matura l’indolore sconfitta del Tigres contro il Club America, mi dice che se voglio approfondire la Gignac-mania devo andare da Charly, una marca sportiva locale in cui il francese vende una linea tutta sua chiamata Gignac10. Quando andrò, troverò un po’ di tutto, dalle borse ai palloni, dai cappellini alle magliette di colore nero: pare che usare il gialloblù del Tigres sarebbe stato troppo e il club gli ha chiesto di mettersi in affari con un altro colore.


 


La stessa cosa accade anche da Nuevo Mundo, il negozio in cui gli abitanti di Monterrey che non possono permettersi la magliette originali (che sono molti, una divisa ufficiale col nome costa circa 70 euro, uno stipendio mensile medio si aggira sui 350) vanno a far compere. Anche lì gli scaffali sono divisi per squadra, con una sola eccezione: Gignac, ovviamente. L'attaccante francese appartiene a un campionato tutto suo.


 

Andando verso la Macroplaza, l’enorme piazza che secondo gli abitanti di Monterrey è la più grande del mondo (sarebbe più giusto dire che sono una serie di piazze collegate l’una all’altra), c’è un ambulante che vende le maglie del Tigres e dei Rayados (l’altra squadra della città) a 400 pesos (circa 20 euro), quella di Gignac però costa 450. Come se tutto quel che riguarda il francese avesse non solo la pretesa, ma anche il diritto di concedersi uno scarto rispetto al resto: esattamente come in campo, quando al comparire del suo volto sul maxischermo il volume dei tifosi aumenta, quando a ogni palla indirizzata a lui i seggiolini si mettono a vibrare con più convinzione, quasi ci fosse un tasto da qualche parte ad azionarli.


 

Resta la bizzarria - che è anche una sorta di contrappasso per i francesi, che storpiano per principio i nomi altrui - legata alla pronuncia del suo cognome, sempre sbagliata, dallo speaker dello stadio a quello che legge distrattamente il giornale al bar: non Gignac, ma Ghignac.


 

Mentre il poeta in esilio Reyes sognava di aggiungere il nome dell’amata Monterrey al suo, i suoi concittadini non hanno perso tempo e hanno aggiunto quello del loro idolo Gignac accanto ai nomi dei figli. Il 2 luglio del 2015 è stato registrata la nascita di Andre Gignac Quistian Palomo. Non è il solo: ci sono Andre Pierre, Eder Pierre Gignac, Yeremi Gignac, Armando Gignac, Dereck Gignac, Mateo Gignac… e perfino un Griezmann Gignac. Se ne sono contati più di 50, finché li hanno contati. Poi hanno smesso perché hanno capito che non sarebbe finita presto.


 

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