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Giuseppe Pastore
Gigi Riva, cupo e fragoroso come un rombo di tuono
23 gen 2024
23 gen 2024
Il ricordo indelebile della leggenda che ha cambiato il calcio italiano.
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Giuseppe Pastore
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Il 17 ottobre 1970, durante la terza puntata di Canzonissima, Raffaella Carrà aggiunge un altro tassello alla propria carriera di gentile picconatrice dei luoghi comuni sulle giovani donne italiane. Dedica, lei e solo lei, una canzone in prima persona a un calciatore, scappando a gambe levate dai cliché delle Rita Pavone abbandonate dai fidanzati per andare allo stadio (“Perché perché, la domenica mi lasci sempre sola...”). No, qui è lei che prende l'iniziativa – d'altra parte non si è Raffaella Carrà per caso. Gli dice che spasima per rivederlo (“conto i minuti, conto le ore”), che è bello, che lo ama, e forse qualcosa di più, lo venera, “classico dio greco in shorts”. Quel calciatore, forse l'avrete intuito, è Gigi Riva.

Con Riva scompare un gigante, un titano, un Prometeo che rubò il fuoco della gloria e degli scudetti agli squadroni del Nord per portarlo su un'isola dov'era indicibile solo l'ipotesi di una vittoria, e dove sarebbe tornata indicibile dopo di lui. Con Riva scompaiono pezzi di residua coerenza, dignità, coraggio e valore che ancora sopravvivono nel diroccato calcio italiano di oggi, diroccato soprattutto nelle istituzioni che per tutta la settimana si sono messe in fila per un grottesco bacio della pantofola saudita solo per essere ripagate dai grotteschi fischi di fronte al minuto di silenzio a lui dedicato. Con Riva scompare l'estate di molte persone, tifosi e italiani comuni, non per forza suoi coetanei, dal momento che la leggenda di "Giggirriva" è una delle più tramandate di padre in figlio, di nonno in nipote nelle notti di scirocco che spazzano Cagliari. Eppure è vero anche il contrario: con Riva non scompare proprio niente. È uno dei personaggi della storia d'Italia in cui l'esempio è più lampante, la strada è più spianata, il cielo è più limpido. Del Gigi Riva calciatore, la mia generazione non ha visto che brevi frammenti anche piuttosto ripetitivi: la rovesciata di Vicenza, il gol all'Azteca contro la Germania, la festa dello scudetto contro il Bari. Ma della statura del Gigi Riva persona, per quanto schivo e tormentato sia stato negli ultimi venticinque anni di vita, abbiamo avuto ben chiaro tutto in poche battute: ci è bastato vederlo abbracciare Roberto Baggio uscito in lacrime dopo la partita più bella della sua vita, la semifinale contro la Bulgaria a USA 94, tormentato dalla paura di saltare la finale per un infortunio muscolare. Una scena di chiarezza evangelica, un padre che consola un figlio, un quadro universale di dolore e bellezza, un riassunto con altre parole della dimensione allegramente fiabesca che aveva circondato l'impresa del Cagliari 1969-70: partito outsider, cane sciolto senza padroni e senza spinte, che aveva raggruppato l'affetto di artisti intellettuali, da Enzo Tortora a Walter Chiari, da Raimondo Vianello a Renzo Arbore. Tutti affascinati dalla diversità, se vogliamo anche un po' dall'esotismo di quell'avventura. Chissà l'esotismo potrebbe aver ispirato anche lo stesso Gigi Riva, secondo le immortali parole rivolte a sua sorella all'atterraggio a Cagliari su un traballante velivolo che non supera mai i 4mila metri di quota. «Fausta, io volevo andare a Bologna, ma qui siamo finiti in Africa!». Il rimpianto per aver rifiutato la corte di una squadra che un anno dopo avrebbe vinto lo scudetto, mentre lui lì a fare la muffa in Serie B, su un campo senza erba, nel nulla di un non-luogo misterioso e respingente, simboleggiato dalle lingue di fuoco che uscivano dalle ciminiere della raffineria Saras, a Sarroch, che si vedeva in lontananza dal balcone dell'hotel dove l'avevano temporaneamente sistemato. Il Riva ruvido, capace di un italiano stentato, che però iniziò prima a capire e poi a condividere. Uno sguardo, una strada lungo il mare, un paesaggio, una visione del mondo. La rarissima occasione di una chiacchierata di dieci minuti di Gigi Riva sarebbe stata più esplicativa di tante parole a vanvera sullo spirito dei sardi e della Sardegna, qualcosa che non viene svelato con troppa generosità. C'è da andare, c'è da restare, e solo dopo c'è da parlare. Le raccolte di aneddoti e interviste ai protagonisti dello scudetto 1970 sono piene di particolari sorprendenti e spiazzanti su una città reietta e dipinta in continente come luogo di penitenza, ma per nulla votata all'autocommiserazione. Anzi. E in quel contesto indimenticabile, che mescolava i bollori del Sessantotto al fervore consapevole di stare facendo la Storia, Riva divenne prima re e poi mito. Prima “Re Brenno”, primissimo soprannome di Gianni Brera che ne fu massimo cantore, e poi direttamente “Rombo di Tuono”, un suono lontano, un'idea, una promessa, intuizione felicissima presa in prestito da alcune righe del “Nostro Padrone” di Grazia Deledda, Premio Nobel per la Letteratura nel 1926: “Si sentiva il vento fremere a intervalli, poi il suo rumore cresceva, si avvicinava, diventava cupo e fragoroso come un rombo di tuono”. Gigi Riva fu tutte queste cose e poi tante altre. Semplicemente, in quei dieci anni che poi diventarono venti, trenta, cinquantacinque, sessanta, fu tutto. Sex symbol concupito da tutte le Raffaelle Carrà di questo mondo, “Hud il selvaggio” come lo chiamano i compagni citando un personaggio di Paul Newman che non eccelle per bonomia. Ma anche eroe greco, torero caduto sul campo come si figurò sempre Brera, al momento del terzo e ultimo fatale infortunio nel febbraio 1976: “No me dejas veerlo”, scrisse in spagnolo, citando l'orazione funebre di Federico Garcia Lorca per il suo amico matador spirato alle cinque della sera. Riva ha ispirato lirismo, ha ridato una dimensione epica al calcio degli anni Sessanta, ha incoraggiato le penne più coraggiose a volare alto. È stato arcadico e picaresco, lui e quella banda di matti di cui era il condottiero, a cominciare dall'allenatore Manlio Scopigno, a cui è indirettamente legato da uno degli scambi di battute più spassosi e surreali del nostro calcio, roba da puro Peter Sellers. Il giorno di Pasquetta del 1967, quando Gigi Riva si fratturò il perone sinistro con la Nazionale contro il Portogallo, fu uno stravolto Boninsegna a dargli la ferale notizia: «Mister, Riva si è rotto una gamba». «Beh», disse, «meglio a lui che a me». Gigi Riva aveva pieni e vuoti favolosi. Il pensiero della morte lo ossessionava silenziosamente a tal punto da imporgli di avere in garage due scatoloni pieni di ritagli di giornale su due personaggi entrambi tragicamente scomparsi nel 1967: Lorenzo Bandini, morto nel rogo della sua Ferrari al Gran Premio di Monte Carlo, e Luigi Tenco, che si era suicidato a Sanremo in circostanze mai chiarite. Proprio per questo motivo ascoltava di continuo il 45 giri di Preghiera in gennaio, la canzone che Fabrizio De André aveva composto tornando dai funerali di Tenco. Dopo la compilazione del calendario della stagione di grazia 1969-70 che vedeva il Cagliari impegnato in casa della Sampdoria alla prima di campionato, Riva contattò il suo amico Giuseppe Ferrero, ex compagno di squadra l'anno prima, appena ceduto in Serie B al Genoa. «Non è che potresti combinarmi un incontro con De André?». «Volentieri, lui è sempre allo stadio, si può fare». L'incontro si fece, quella sera stessa. Riva si presentò con un regalo, la maglia numero 11 indossata il pomeriggio a Marassi, e uscì dalla casa in corso Italia con una chitarra e tante parole segrete, sempre avvolte nel mistero. In tanti anni, solo una volta Riva ha socchiuso la porta: «Eravamo a casa sua, uno di fronte all’altro su due divani diversi. Lui era chiuso, io ridicolo. A un certo punto si è alzato ed è andato a prendere una bottiglia di whisky, ne ha versato un bicchiere per ciascuno e lì siamo partiti come treni. Servì un contributo di quattro bicchieri di whisky e non so quante sigarette per sbloccare la situazione. Fabrizio iniziò a parlare di Georges Brassens. E ancora mi disse della sua grande amicizia con Luigi Tenco e della lunga notte in cui scrisse per lui Preghiera in gennaio. È anche la mia canzone preferita. Un vero inno all’amicizia». Così come Tenco nel 1967 e De André nel 1999, anche Riva ci ha salutato a gennaio.

Le auto veloci, i bigliettini audaci delle ammiratrici lasciati sotto il tergicristallo della Ferrari Dino, le sigarette a scalare (il lunedì un pacchetto abbondante ma poi sempre meno, fino a quella della domenica negli spogliatoi, prima del via), le partite a poker con tanta grappa come testimoniato anche da Gianni Mura, in un'epoca in cui i giornalisti non solo venivano fatti entrare nei ritiri ma anche invitati al tavolo. Alla maniera di De André, Riva non era un asceta né un santino da sventolare post mortem, non nascondeva i propri vizi anzi li esibiva sfacciato, e chi mi ama mi segua. Aveva un'amante di cui tutta la città sapeva, titolare di una boutique in via Alghero, una donna sposata in un Paese in cui il divorzio non è ancora consentito: la madre dei suoi due figli. Non glie n'è mai fregato niente delle cose insulse che interessano a gran parte del suo mondo, mentre ha dato importanza alla comunanza, all'istinto comune, alle intese silenziose, stabilendo una simbiosi irraggiungibile con il suo secondo popolo. Oggi che tutta Italia lo celebra attraverso le sue acrobazie, le fiondate di sinistro (era anche un eccellente calciatore di punizioni), i tuffi quasi rasoterra come quello contro la Germania Est, forse la sua essenza di semi-dio eppure del tutto mortale sta in due calci di rigore speciali battuti e segnati nell'anno dello scudetto a distanza di una settimana. Il primo il 15 marzo 1970 a Torino, nello scontro-scudetto contro la Juventus, un rigore romanzesco per le modalità con cui è stato assegnato, uno spettacolare caso di compensazione en plein air perpetrato dal divo Concetto Lo Bello che, per obbedire alla propria vanità, regalò un rigore al Cagliari dopo averne regalato uno alla Juve. Siamo 2-1 e il Cagliari ha assoluto bisogno di non perdere: Riva è stordito da tanta protervia, il suo codice morale non sa decifrare comportamenti così balzani, perciò tira il peggior rigore della carriera, masticato, ciancicato, come uno che ha paura. Eppure la palla va dentro, appena sfiorata dalla mano del portiere juventino Anzolin. Il secondo il 22 marzo, in casa contro il Verona, con la Juve che sta perdendo a Firenze e quindi è il momento di scappare. Riva ha 38 di febbre e al secondo minuto della ripresa, mentre sta sistemando il pallone sul dischetto, viene scosso dal boato dello stadio Amsicora che ha appena appreso dalla radio del risultato di Firenze (sono anni in cui Tutto il Calcio Minuto per Minuto segue solo i secondi tempi e si apre con gli aggiornamenti dai campi). Anche questa volta non tradisce, ma stavolta è perfetto: palla da una parte, portiere dall'altra. Il viaggio dell'eroe.

Avete presente la scritta bianca su sfondo nero che compare alla fine di Mediterraneo di Gabriele Salvatores? “Dedicato a quelli che stanno scappando”.

Se stai scappando, o se addirittura ti stai nascondendo da qualcosa, quale posto migliore di un'isola? Alla fine del film scopriamo che il sergente Lorusso – che poi era Diego Abatantuono – si era rifugiato in Grecia, per sempre, dopo la guerra, deluso dall'Italia e così, di conseguenza, lontano dall'Italia. Ma quello era un film, invece questa è una storia vera. Quella di otto campioni d'Italia 1970, otto calciatori in cerca d'autore che venivano da tutte le parti d'Italia e rimasero stregati per sempre dalla stagione più bella della loro vita. Mario Brugnera da Venezia, Mario Martiradonna da Bari, Claudio Nené da Santos (Brasile), Ricciotti Greatti da Basiliano (Udine), Adriano Reginato da Carbonera (Treviso), Cesare Poli da Breganze (Vicenza), Beppe Tomasini da Palazzolo (Brescia) e naturalmente Gigi Riva da Leggiuno (Varese). Come dicono loro, homines balentes.

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