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Gigi Radice era un uomo tutto di un pezzo
10 dic 2018
10 dic 2018
La carriera di Gigi Radice, allenatore e giocatore.
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19 min
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Nelle foto che in queste ore di cordoglio riportano alla mente la figura austera di Gigi Radice, c’è un tratto di continuità pressoché impercettibile e allo stesso tempo inspiegabile. Persino nelle immagini di gioia e di massima esaltazione, appare perfettamente composto. Mai un capello fuori posto, il vestiario impeccabile, anche le braccia spalancate mentre viene portato in trionfo dopo uno scudetto irripetibile – e non a caso mai più ripetuto dal Torino dal 1976 – sembrano la descrizione migliore di un uomo tutto di un pezzo, del sergente di ferro da tanti elogiato, del tedesco.

Un’eleganza inattaccabile che ha però saputo fare breccia nel cuore di alcune delle piazze più calde d’Italia, ulteriormente infiammate dalle folate rabbiose delle sue squadre. Un apparente contrasto di stili e sentimenti, ma sarebbe un errore confondere la pacatezza con la freddezza. Gigi Radice è stato tante cose. Felicità intensa e dolori lancinanti, vittorie inattese, cadute rovinose, drammi così forti da poter trasformare il corso di un’esistenza, la capacità di trattare allo stesso modo i due impostori Trionfo e Rovina mantenendo sempre la stessa linea. Una questione di coerenza.

Un calciatore "testone"

A Cesano Maderno scorre il Seveso, che presta il nome alla valle. Radice nasce lì nel 1935, nel bel mezzo del boom della chimica. È il secondo di quattro figli, il papà lavora proprio alla Snia Viscosa, uno dei colossi del settore. Gigi è un ragazzo perbene, che studia e gioca a calcio con la maglia della Speranza Cesano. Ha corsa e tecnica, lo invitano a giocare al Ceriano Laghetto e si guadagna qualche chiamata nelle selezioni provinciali. A Laveno Mombello, in una di queste gare, finisce sul taccuino di un osservatore del Milan. C’è da convincere il padre, che pretende soltanto una cosa: non vuole che Gigi abbandoni gli studi. Mette in tasca il titolo di ragioniere e la sua carriera inizia a fiorire.

Assapora la prima squadra rimanendone ai margini da rincalzo, va a farsi le ossa tra Triestina e Padova, poi torna da giocatore e uomo maturo. È uno dei titolari nel biennio d’oro 1961-63, l’intuizione di Gipo Viani è trasformarlo in terzino di spinta. «Io mi ero intestardito, volevo giocare mediano. Ci misi del tempo a rassegnarmi. Fui un testone, mi resi conto con ritardo che da terzino avrei potuto fare cose eccellenti: sono stato uno dei primi terzini fluidificanti, abile a marcare il tornante e a sganciarsi in fase offensiva per via dei miei trascorsi da centrocampista».

All’età di 27 anni, con tre Scudetti in bacheca, ottiene anche la convocazione al Mondiale 1962, in Cile, e gioca due partite. Il 3 marzo del 1963 conosce il primo terribile dolore della sua vita. Il ginocchio salta in uno scontro con Tito Cucchiaroni, l’uomo al quale è intitolato un celebre gruppo di tifosi della Sampdoria, nel match contro i blucerchiati a San Siro. Prova a rientrare in campo, non riesce a stare in piedi. «Fu un calvario. L’operazione, il gesso, un supplizio. E i miei compagni che vincevano la Coppa dei Campioni a Wembley». Non migliora, neanche con il passare dei mesi. Quando si sente pronto per tornare, il ginocchio riprende a gonfiarsi. Cambia medico, a Bologna finisce sotto le mani sapienti del Professor Gui, che non ha dubbi: è rimasto un frammento di menisco, un corno, da togliere. L’assenza si prolunga fino a superare i due anni, riesce a rientrare in campo nelle due gare conclusive della stagione 1964-65. Racconta il suo calvario a un giovanissimo giornalista di MilanInter: si chiama Walter Tobagi, quando intervista Radice ha solamente 18 anni. Diventerà un sublime cronista politico, uno dei più fini analisti di un tema delicatissimo come quello del terrorismo, prima di essere strappato alla moglie Maristella e ai figli Luca e Benedetta in un attentato perpetrato ai suoi danni dalla Brigata XXVIII Marzo, un collettivo terroristico di estrema sinistra.

Quando il giovane Tobagi intervista Radice, in cambio ottiene risposte sincere: «Ho avuto paura di smettere di giocare, è la sofferenza più grande per un calciatore che ama il suo mestiere. Durante il periodo di convalescenza avevo pensato a esercitare la professione di ragioniere e non solo, ho anche tentato di intraprendere un’attività in campo edilizio. Appena ho iniziato, l’edilizia è entrata in crisi. Adesso mi sento bene, devo ricostruire la mia fama, il mio valore. Quello che ho fatto per dieci anni non ha più alcuna importanza, devo riprendere come se fossi un principiante. Siamo merce con un prezzo variabile, e per mantenere alta la mia quotazione devo giocare. Se non gioco, sono finito». Torna, ma non dura. Il ginocchio fa le bizze dopo uno scontro con il compagno Trebbi e Gigi molla, è esploso anche l’altro menisco. Si porta dietro un campionario di umanità che gli servirà in futuro, nella nuova vita da allenatore. «Dino Sani mi affascinava: un grande campione che tuttavia non perdeva mai la sua dimensione umana. Gipo Viani capiva di calcio come pochi e aveva un gran gusto per l'avventura. Ammiravo Liedholm per la sua scrupolosa dedizione al lavoro, Schiaffino mi incantava per la sua genialità spontanea: in campo era sua maestà, fuori era sempre disponibile, neanche ai ragazzini faceva pesare la differenza. Di Gren ho sempre invidiato il palleggio soffice, naturale, istintivo. Ecco, al fianco di questi campioni io mi rendevo conto che erano molto più bravi di me. Che non ero come loro. Ma proprio qui veniva fuori la loro umanità, vedevi l’uomo».

Subito in panchina

Il destino lo costringe al ritiro prematuro ma gli rende qualcosa nell’avviare la sua seconda carriera. Il cognato imbecca Gigi sull’acquisto di un appartamento, c’è un costruttore che ne vende di interessanti. Quel costruttore diventa vicepresidente del Monza mentre la squadra retrocede dalla B. La chiamata è praticamente immediata. In squadra trova Claudio Sala, che sarà uno dei riferimenti del suo Torino tricolore e che finirà addirittura per sostituirlo in panchina in una delle annate più drammatiche della storia granata, e Luciano Castellini, il Giaguaro. Riporta i brianzoli in B, li lascia in zone tranquille, passa al Treviso e poi nuovamente al Monza.

Nel 1972-73 guida il Cesena a una storica promozione in A, quindi il primo assaggio con una delle piazze più importanti della sua vita, Firenze. Il sesto posto alla guida di una giovanissima Fiorentina non è da buttare via, la conferma pare scontata, ma in società hanno un’idea bizzarra: affiancargli Nereo Rocco come direttore tecnico. Gigi, che ha da poco rifiutato la corte dell’Inter, lascia lì il contratto e se ne va: «C’è molto rammarico da parte mia, ma non rivendico niente. Un po’ di tempo per digerire, e avanti». Ad aiutarlo a digerire c’è Nerina, come sempre. Si conoscono dai tempi dell’asilo, a Cesano, e non si sono mai persi di vista, fino al fidanzamento. Non ha nemmeno avuto bisogno di chiederle di sposarlo. L’ha presa da parte dopo una trasferta: «Fra un mese ci sposiamo». Il matrimonio nel bel mezzo del supplizio dell’infortunio, il 3 luglio 1963. Con Nerina al suo fianco, Gigi può anche restare a spasso per un po’.

Le panchine sono ormai prese, per ingannare il tempo inizia a collaborare con Stadio. Lo vogliono dalle categorie inferiori, per una volta la presunzione di valere ancora la Serie A lo aiuta. Arriva la chiamata del Cagliari, che porta in salvo nonostante i problemi di Riva e una classifica da soli sei punti in nove giornate. Anche stavolta, come a Firenze, il rinnovo è una formalità. Ma è Radice a nicchiare, perché sa che lo vuole il Torino. «Feci presente la mia situazione, le mie ambizioni e il mio imbarazzo ad Arrica, e lui capì». Dopo quello con Nerina, è il secondo matrimonio della vita di Radice. Il Torino gli entra nella pelle, inizia a scorrergli nelle vene. «Il granata non è un colore, è uno stato d’animo, un modo di essere. Può sbiadire un modo di essere, quando si è proprio così?». Eredita il Toro da Mondino Fabbri, arrivato un anno e mezzo prima al posto di Giagnoni. Scatta immediatamente qualcosa. «Deve essere stato qualcosa di epidermico. Il tifoso del Torino è sanguigno, generoso, appassionato. Le mie figliole non si erano mai scaldate per nessuna delle squadre che io avevo allenato. Erano rimaste indifferenti. Ebbene, qui sono diventate immediatamente tifose sfegatate del Toro, vanno allo stadio con la sciarpa granata. E non è finita: mio figlio Ruggero, il più piccolo, ha già imparato a fare certi gesti a quelli della Juve. Non sta bene, lo so, ma che devo farci? Per quel che mi riguarda, io considero la Juve solo una delle tante antagoniste più forti; una squadra che merita rispetto per i suo glorioso passato e per le sue strutture attuali, un’avversaria che comunque si sente di più perché è della stessa città, ed è più vicina, palpabile in qualsiasi momento».

Il Toro edizione 1975-76 ha l’ambizione di sentirsi al livello dei rivali, scansando quella sensazione di inferiorità che troppo a lungo i granata si sono portati dietro. Orfeo Pianelli sta cercando di far rivivere al pubblico se non i fasti del Grande Torino, almeno qualcosa di simile. La zona mista e il pressing di Radice accendono la scintilla, anche se è la Juventus a mettere le mani sul campionato, o almeno così sembra. Campioni d’inverno con tre punti sui granata, a fine febbraio le lunghezze diventano cinque. Ma il Torino non molla, è una squadra destinata a entrare nella leggenda.

La Juve stecca tre partite di fila, una di queste è il derby che riapre il campionato, vinto sia sul campo (1-2) che a tavolino, per un petardo che al rientro nel tunnel dopo il primo tempo colpisce il Giaguaro Castellini. Il sorpasso arriva sette giorni più tardi, 2-1 al Milan mentre la Vecchia Signora cade nel Derby d’Italia con l’Inter. Il Torino avrebbe il primo match point definitivo alla ventinovesima: non solo deve registrare la vittoria della Juventus sulla Sampdoria, ma non va oltre lo 0-0 in casa di un Verona in piena bagarre salvezza. Il 16 maggio 1976, con un solo punto sui bianconeri in scena a Perugia, il Torino ospita il Cesena. I granata, in un atto di masochismo squisitamente coerente con la propria storia, si fanno fermare sull’1-1: vantaggio di Pulici, inconcepibile autogol di Mozzini. La vittoria della Juve porterebbe tutti a un drammatico spareggio ma Renato Curi fa scoprire ai tifosi bianconeri che Perugia può essere fatale, come tornerà ad esserlo molti anni più tardi.

Paolo Frajese comunica a Radice che la Juventus ha perso a Perugia e che il suo Torino è campione d’Italia. Il tecnico rimane impassibile, ancora scottato dall’inatteso pareggio dei suoi, come se il campionato non fosse davvero finito. L’adrenalina della vittoria inizia a scorrere con qualche minuto di ritardo, e anche Radice può essere portato in trionfo.

A quarantuno anni, Radice è campione d’Italia. Nei mesi della rimonta, mai aveva avuto il coraggio di nominare la parola Scudetto. Lo chiamava «quella certa cosa», in una miscela tra deferenza e malcelata scaramanzia. «A un certo punto della stagione ci abbiamo creduto e abbiamo fatto tutti una grande fatica a non dirlo, perché non volevamo illudere nessuno, noi stessi per primi». I giornalisti cercano di scavare all’interno di una corazza di un uomo apparentemente inscalfibile, che mostra soltanto alcuni lati di sé, talvolta i più spigolosi, come quando spiega la decisione improvvisa di passare da trenta sigarette al giorno a zero nel giro di 24 ore. «Fa male e costa soldi. So che era assurdo pretendere di abolirla immediatamente. Guardavo l’orologio e mi dicevo: per sette ore, niente. E niente era. La mia forza derivava dall’aver analizzato la questione e, soprattutto, dal piacere che provavo, ora per ora, nell’eliminare quel maledetto vizio. Vinco i miei impulsi solo perché non mi prometto traguardi impossibili».

Nelle ore successive allo Scudetto lo stuzzicano ma ci tiene a confermare davanti a tutti l’immagine del duro, del tedesco. «Ho pianto, è vero, ma soltanto da un occhio. Dal lunedì al sabato sono nell’imbarazzo ogni volta che devo incontrare i cronisti. Pretendono che io dica sempre cose nuove, a volte mi accorgo di reagire duramente e me ne pento: fanno il loro lavoro come io faccio il mio». Gli attaccano sulla giacca uno Scudetto adesivo, lascia che la squadra festeggi in campo mentre torna nello spogliatoio abbracciato al presidente Pianelli. «Che fatica», sussurra all’orecchio del patron uscendo dal campo. Vince il Seminatore d’Oro, nei tre campionati successivi il Toro rimane nelle zone altissime della classifica, senza però bissare il titolo del ’76.

Il dramma

La sua vita cambia improvvisamente in un giorno di aprile del 1979, nel weekend di Pasqua. Dopo la gara con il Milan, Gigi e Nerina raggiungono alcuni amici nella casa di Mirko Ferretti, il suo vice, a Ospedaletti. Ci sono Edoardo Traversa, vice presidente del Toro, e Giacomo Franco, oltre a Paolo Barison, altro collaboratore di Radice. Martedì 17 aprile, Nerina decide di raggiungere Chiavari in treno per unirsi ai tre figli, mentre Gigi e Barison si dirigono verso Torino per andare a svolgere l’allenamento al Filadelfia. Sono da poco passate le dieci del mattino quando un autotreno che trasporta delle vetture, in viaggio verso Sanremo, dà origine a una tragedia.

Lo guida Gino Longo, 27 anni, miracolosamente illeso. Perde il controllo del mezzo sotto la pioggia, intorno ai 90 chilometri orari. Tenta di frenare, sfonda lo spartitraffico, poi lo schianto e le automobili che si ammassano. La prima macchina coinvolta è quella di un avvocato, Enrico Elia: muore sul colpo e lascia da sola la figlia quindicenne, che era già rimasta orfana di madre a due anni. È Antonella Elia. La 130 coupé di Radice viene schiacciata dal rimorchio e prende fuoco, a salvare la vita al tecnico del Torino è il fatto di essere sbalzato fuori dall’abitacolo. Barison non ha questa fortuna, rimane intrappolato e subisce una morte terribile, rimanendo carbonizzato nel veicolo. Quando entra all’ospedale di Imperia, Radice è privo di conoscenza. Sanguina dalla gola, dalle gambe, dal torace. Viene portato immediatamente in sala operatoria. Dopo ore di agonia, il dottor Novaro dà il primo responso. Radice ha il ginocchio sinistro e la mano fratturati, gli è stato praticato un massiccio drenaggio al torace e ha riportato diverse lesioni alle costole. Le condizioni sono gravi. Nerina cerca di raggiungere Imperia il prima possibile, sarà lei a guidare l’amato Gigi fuori dall’incubo, una carezza e una parola alla volta. Chiede a tutti di Barison una volta ripresa conoscenza, Nerina prende tempo. Al capezzale di Radice arriva anche Trapattoni, nessuno ha il coraggio di dirgli la verità.

Arriva domenica 22 aprile, il Torino scende in campo contro la Lazio, la moglie non vuole fargli patire ulteriori tensioni e lo convince che è ancora sabato. I medici continuano a monitorarlo e gli raccontano tutto quando capiscono di non correre rischi. «No, no, non può essere vero», ripete Gigi prima di chiudersi in un lungo silenzio. Anche Nerina ha un crollo di nervi, dopo aver ovattato il marito in un castello di bugie per una settimana. «Quando gli ho detto che il Torino aveva pareggiato si è messo a ridere, mi ha detto che ci era cascato come un bambino. Ma ho vissuto una settimana da incubo, temendo che la verità su Paolo venisse a galla da un momento all’altro.

Abbiamo fatto calare il sipario su questo mondo di finzione, mi sembra di essermi tolta di dosso il peso di un grosso macigno, posso finalmente guardarlo negli occhi senza il terrore che possa intuire che gli sto nascondendo qualcosa, che lo sto in un certo senso tradendo». Si riprende piano piano, torna in panchina, e riceve un altro colpo difficile da assorbire. Nella stagione 1979-80 viene esonerato, con il Torino in una brutta condizione di classifica. «Ci ho ripensato più volte e non sono riuscito a togliermi quella grande amarezza. Pensavo ormai di essere in famiglia, ci dicevamo tutti insieme che anche le eventuali intemperie le avremmo superate senza traumi, discutendone serenamente. Poi ai primi accenni di burrasca mi cacciano via e mi fanno sentire un allenatore qualunque, cinque anni di affettuosa collaborazione spazzati via perché si erano perdute un paio di partite in più».

C’è vita oltre il Torino

Si rigetta nella mischia accettando la panchina del Bologna appena travolto dal fango del Totonero. «La colpa non è mica solo dei giocatori. Noi allenatori e i dirigenti dovremmo essere anche dei maestri e degli educatori, invece spesso… Ma sì, diciamolo, quasi sempre i giocatori sono figli delle colpe di chi non li sa minimamente indirizzare. Siamo in un ambiente in cui si tende troppo a far galleggiare il calciatore in quel determinato stadio di infantilismo cronico. Se il calciatore è viziatissimo e fa qualche corbelleria, non è solo colpa sua». Parte con cinque punti di penalizzazione, chiude brillantemente al settimo posto, arriva in semifinale di Coppa Italia. Si fa sedurre dal cuore, dal richiamo del Milan neopromosso. Chiede invano Zico, poi Dossena, assapora la suggestione Cruijff nel celebre Mundialito 1981. «Potrebbe anche rimanere, chi può dirlo? Dopo Scudetto e retrocessione non dico che si debba ripartire da zero ma quasi: ci vorranno un paio di anni di lavoro, senza l’assillo del risultato, poi si raccoglieranno i frutti. Lo straniero, da solo, non basta».

Sono proprio i risultati a condannare Radice. Il Diavolo gioca senza Baresi per quasi quattro mesi, Gigi rimane in carica fino al 25 gennaio. Farina lo esonera dopo un capolavoro di Causio a San Siro (Milan-Udinese 0-1), con la squadra penultima e soli dodici punti raccolti in sedici giornate. Ripartire è sempre più difficile, accetta la chiamata in corso del Bari, in piena lotta per non retrocedere dalla B alla C. Lo score è di tre vittorie, cinque pareggi e cinque sconfitte nelle tredici giornate conclusive ma non basta per la salvezza. È invece sufficiente per la chiamata dell’Inter, un po’ inattesa. Resta in nerazzurro per una sola stagione e torna al Torino, ancora una volta il cuore più forte di tutto il resto. Va vicino al clamoroso bis tricolore, arrendendosi solamente al Verona di Bagnoli. Mette in piedi una squadra gagliarda, lancia tanti giovani, eppure finisce come la prima volta: esonerato a dicembre 1988, dopo sole nove giornate, con la squadra di poco fuori dalla zona calda. Claudio Sala non riuscirà a fare di meglio e toccherà a Sergio Vatta provare invano a salvare il Torino da un’impronosticabile retrocessione. Gigi è stanco, secondo i critici addirittura superato. È sulla cresta dell’onda da troppo tempo e la sua zona, innovativa dieci anni prima, rischia di essere fagocitata dalla nuova infornata di tecnici. Ma Radice ha ancora qualche colpo in canna.

Dino Viola si è appena infilato in un bel guaio. Vuole Ottavio Bianchi a tutti i costi, reduce dalla turbolenta separazione – ma non ancora divorzio – con il Napoli, con cui ha appena vinto la Coppa Uefa. Il d.s. Mascetti, che aveva già preso contatti con Radice, non sa che fare. A Bianchi poco importa: ha un altro anno di contratto con gli azzurri, nella peggiore delle ipotesi può ancora percepire 850 milioni di lire in un anno per andare a pesca. La gestione del caso, per alcuni, è il segno del tramonto dell’ingegnere, logorato da una battaglia con i vertici del calcio italiano. Roma e Lazio, per i lavori all’Olimpico, devono spostarsi giocoforza al Flaminio. Un trasloco sgradito a Viola, che vede sfumare gli incassi monstre dell’impianto del Foro Italico per spostarsi in uno stadio più raccolto, capace però di trasformare il tifo giallorosso in una polveriera. I

l presidente blocca Bianchi per la stagione successiva, rimane da risolvere il nodo legato al 1989-90 alle porte. E allora Radice sia, anche se solo per un anno. Un tecnico a tempo, come quello stadio così sgradito. I tifosi, all’inizio, non approvano l’arrivo di Gigi. Sa di ripiego, di decisione presa per tamponare una falla. Il giorno della presentazione si trasforma nel Viola show: «Non ci servono soldi, non vogliamo cedere Giannini. Abbiamo fatto un atto d’amore sposando il Flaminio, dopo essere stati per anni ospiti di uno stadio dal quale dovevamo uscire in punta di piedi. Siamo in una situazione assurda, alcuni dirigenti di squadre di B e di C mi chiedono come possiamo disputare un campionato in un impianto del genere. Vorremmo avere uno stadio tutto per noi, per la Polisportiva, ma non riusciamo ad averlo».

Radice firma un annuale con un’opzione per un prolungamento, sembra essere l’unico a non sapere di avere la data di scadenza sulla schiena. Si getta nella nuova avventura con un amore infinito: «Ho voglia di riscatto, ho sofferto molto in questo ultimo anno. Non sono un sergente di ferro, sono luoghi comuni, spero solamente di riuscire a ricreare uno spogliatoio giusto, perché la forza di una squadra è tutta lì». Nasce una Roma lontana dai fasti della prima decade degli anni ’80 eppure vicinissima al cuore della gente. Nell’intimità del Flaminio, il ruggito del pubblico trascina la squadra, e gradualmente i tifosi si innamorano di Radice. È un legame insondabile, quello tra Gigi e la Roma. Una fiamma che arde per dieci mesi scarsi e che a distanza di anni ancora scalda e illumina. Le immagini di quell’anno al Flaminio fanno impressione, sembra di vedere uno stadio sudamericano a ogni gol giallorosso.

Il frastuono pazzesco al gol di Comi, i tifosi che si ammassano nelle file più basse nell’esultanza.

Desideri e Voeller giocano una stagione spettacolare ma è tutta la squadra che gira, Gigi riesce anche a rivitalizzare Bruno Conti, con cui aveva avuto un duro confronto a inizio anno. Con 41 punti, la Roma chiude sesta, lasciando la Coppa Italia con l’amaro in bocca in semifinale contro la Juventus. I tifosi vogliono ancora Radice. Gli dedicano striscioni, cori continui. Si illude di poter restare, dice no alla Fiorentina che vira su Lazaroni, è convinto che questo fiume in piena d’affetto possa piegare la resistenza di Viola. Non ha fatto i conti con la tenacia dell’Ingegnere, che gli mostra la porta e presenta con orgoglio Bianchi già a fine maggio: «Aspettavo questo giorno da tre anni». Prova a salvare il Bologna arrivando ad annata in corso al posto di Scoglio, non ci riesce.

Quindi un’altra chiamata, l’ennesima, dalla Fiorentina. È il pallino di Vittorio Cecchi Gori, che sta mettendo le mani sul club di papà Mario. Lo riporta in viola 18 anni dopo la prima volta, Radice si gode il primissimo Batistuta italiano in una stagione condotta soltanto dalla sesta giornata, subentrando proprio a Lazaroni. Il campionato 1992-93 parte sotto i migliori auspici, la Fiorentina ha una fase offensiva esaltante, viene sculacciata dal Milan ma batte la Juventus e a fine ’92 è seconda, in coabitazione con Torino e Inter. La prima sfida del 1993 è una sconfitta interna con l’Atalanta arrivata al termine di una partita dominata e nessuno, davvero nessuno, può immaginare cosa sta per mettere in piedi Vittorio Cecchi Gori. Radice viene esonerato davanti ai giornalisti, nello stupore generale.

«Ritengo che la Fiorentina è mal schierata», farfuglia Cecchi Gori. Ancora una volta, per l’ultima a livelli così alti, Radice si dimostra un signore d’altri tempi, intrattenendo i giornalisti con una calma che non appartiene agli uomini di questo mondo.

Cagliari e Genoa sono due parentesi prima della fine, con Radice che torna dove tutto era iniziato, riportando il Monza dalla Serie C alla B. Arriva anche l’ultimo esonero ma è una nota stonata, che non ci interessa ascoltare.

Il mondo del calcio allontana Gigi come un corpo estraneo da espellere lentamente. Senza violenza, con il crescere dell’indifferenza, fino alla terribile malattia. L’Alzheimer che cancella la lucidità di una mente una volta viva e brillante, qualche sporadica manifestazione d’affetto da parte di chi aveva percorso con lui una parte del cammino. Dieci anni di un addio lungo e silenzioso, per andarsene definitivamente nel 2018 come altre due icone del Toro, Giagnoni e Mondonico. «Del Torino mi resta il sapore di uno stato d'animo, una cosa che ha molto a che fare con l'orgoglio, con il senso di appartenenza e, parlando di derby, per i bianconeri ha a che fare con la paura. Come succede ai ricchi che temono di perdere in un colpo tutti i loro beni. Se non hai niente, salvo quello che porti dentro di te, non puoi perdere niente».

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