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Gianluca Vialli ha chiuso un cerchio
06 gen 2023
06 gen 2023
Quella dell'Europeo non è stata solo una vittoria sportiva.
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Già adesso, a un paio di settimane dalla “fiesta” - in un disincanto che si affinerà ulteriormente nel tempo- molti tratti dell’Italia a EURO 2020 si ridisegnano e ricompongono. "Il Mancio" ha svolto un grande lavoro di (ri)fondazione, ma la sua meravigliosa Nazionale non è stata, come da troppe rappresentazioni iperboliche, l’Olanda di Michels-Cruijff o la Spagna-Barça. Certo, ha avuto il merito di surclassare quasi ogni squadra quanto a condizione atletica (in un torneo in cui si arriva, com’è noto, sulle ginocchia) e a focus di principi di gioco (possesso-fraseggio, movimenti collettivi); ma soprattutto ha unito a quei vantaggi una lucidità e una resistenza psico-agonistica decisive nel capitalizzare un quadro caratterizzato da involuzioni strutturali (l’Olanda) o contingenti (il Belgio e l’Inghilterra), o da veri e propri harakiri (la Francia o la Germania, che pure ha forse giocato, nel match col Portogallo, il miglior calcio del torneo, insieme a lunghi momenti della Spagna). Quanto al contesto, qualche sketch sarebbe stato evitabile, come l’eterno ritorno della compiaciuta esibizione dei propri stereotipi (Bonucci in stile Sordi); e in generale, la (sacrosanta) sbornia carnevalesca è servita ancora una volta da surrogato socio-assistenziale, con l’Italia manciniana ammirata quasi solo per il risultato, quando invece - come ha notato Roger Abravanel - diversi suoi caratteri distintivi (“ambizione, innovazione, meritocrazia”) potrebbero ispirare molta imprenditoria familistica e arretrata.

Ma c’è una sequenza - subito fissata in icona - che va oltre, come scolpita da un vento post-temporalesco, uno di quei venti che danno a un paesaggio un rilievo da HD o 4K naturale: quella dell’abbraccio finale a Wembley tra Mancini e Vialli, “preparato” dai due abbracci di esultanza nei supplementari con l’Austria. Il quid di quelle immagini l’ha riassunto bene il Mancio: «Trent’anni fa eravamo insieme e abbiamo sofferto molto. Oggi si è chiuso un cerchio. Nel 1992 ho pianto lacrime amare a Wembley, oggi erano lacrime di gioia. Poi erano anche quelle di due un po’ anziani». L’allusione è alla finale di Champions persa conto il Barça di Cruijff (20 maggio) proprio a Wembley; ma anche, più estesamente, a un percorso problematico-fallimentare in azzurro. È una ferita plurima che Vialli condivide, anche se con una lieve diffrazione, perché lui la Champions l’ha poi vinta: all’Olimpico, nel ’96, con la Juve e contro il grande Ajax di Van Gaal. Una diffrazione che si estende se si pensa ai loro percorsi paralleli proprio a partire dal passaggio di Vialli in bianconero: e che li porterà a convergere a Wembley 2021 da strade molto diverse.

La sintesi visiva di quella diffrazione è nelle versioni che circolano dell’abbraccio nella notte dell’11 luglio. La più diffusa è la “recto”, quella col volto in profilo del CT, i singhiozzi liberati come un fiume troppo a lungo tenuto in costrizione carsica. Meno diffuso, il “verso”, il rovescio, con Vialli in primo piano in un pianto simmetrico a quello dell’amico-compagno, e, come quello, della stessa intensità e compostezza che ci colpisce in certi “compianti” della pittura italiana medieval-rinascimentale. Nel pianto di Vialli, però, c’è anche altro.

Risalirne la genesi composita è anche l’occasione per ripercorrere, in breve, la parabola tecnica e umana di uno dei nostri giocatori più esaltanti e - qualità rara - intellettualmente e affettivamente più coinvolgenti.

La ferita (le ferite)

Non si può non ritornare, in prima battuta, a quel 20 maggio, allo scontro tra la Samp di Boškov e il primo Dream Team di Cruijff. Le istantanee di quel match rimbombano ancora oggi in modo spietato: le diverse occasioni mancate dai doriani; la punizione-laser di Koeman che frantuma il “tempo fermo” dei supplementari (al minuto 111) mentre Pagliuca è già proiettato mentalmente sulle inclinazioni e i tic dei rigoristi blaugrana; su tutto, il pathos opposto del post-partita. Da una parte, l’estasi blaugrana: il “guerriero basco” Alexanco che percorre solennemente i 39 gradini - proprio come nel film di Hitchcock - verso il palco della premiazione; e il giovane Pep che gira avvolto nella bandiera catalana, in sfregio all’anniversario della “sexta” madridista. Dall’altra, il marasma blucerchiato, col capitano Mancio che rincorre - trattenuto da Mimmo Arnuzzo - l’arbitro tedesco Arno Schmidhuber, già messo nel mirino due mesi prima (quando gli aveva annullato un gol contro l’Anderlecht) e ora reo di aver fischiato la “dubbia” punizione battuta da Koeman. Appendice surreale: una premiazione livida, col Mancio - gli occhi gonfi di lacrime di rabbia - che offre la mano inerte a quella del presidente UEFA Johansson; e una conferenza stampa (evento senza precedenti) disertata da uno delle due squadre, dato che per i doriani non si presentano né il tecnico né il capitano.

Se di Mancini, in quella notte, restano quei frame isterici e disperati, di Vialli non resta (quasi) nulla, se non per attributi negativi: sbaglia un paio di occasioni nel secondo tempo (un colpo a volo di controbalzo su assist filante di Lombardo e uno “da sotto”, fuori di poco); esce per crampi al minuto 100, sostituito da Buso (lui che in futuro irriderà ai crampi - e alle lacrime - altrui); e non appare nemmeno alla premiazione, smaterializzandosi da Wembley. Opposti anche i commenti degli “inseparabili”: Mancini parla di “chiodo fisso” e non si rassegna («Prima o poi avrò ancora una chance in Coppa dei Campioni», dall’anno dopo, per la cronaca, Champions League); Vialli in apparenza glissa, tra snobismo e nichilismo («La vita continua, non è la morte di nessuno»), ma di fatto è già della Juve, con cui - come detto - la Champions verrà vinta. Anche se non a Wembley, e - soprattutto- non col Mancio.

Foto Ravezzani/LaPresse

A questa ferita originaria (Wembley, la Champions), Mancini & Vialli aggiungeranno le ferite in azzurro; cioè, nel dettaglio, i fallimenti ai Mondiali ’90 e ‘94; quest’ultimo, in particolare, invelenito per tutti e due dai contrasti e dalle incomprensioni con Sacchi, fino alla rinuncia: anche se lo zelo mediatico - puntiglioso fino alla morbosità nel ricostruire quelle tensioni - ha completamente rimosso le dichiarazioni successive dei due giocatori, anche recenti, sul loro rimpianto di non aver accettato le riaperture di Arrigo prima del torneo. Vialli, in particolare, si distingue nel post-USA per il suo inconfondibile touch sarcastico, parlando di “Mondiale dei crampi e delle lacrime”. Non una grande empatia verso un altro abbraccio-simbolo della nostra Storia calcistica, quello perdente - e struggente - tra Sacchi e Baresi dopo la sconfitta ai rigori col Brasile. Ma non avrebbe senso moraleggiare; in primo luogo, perché una volta attraversata la linea bianca dal campo alla panchina, sia Vialli che - soprattutto - il Mancio mutueranno diversi principi di gioco e dinamiche di squadra e di reparto dal sacchismo; e poi, in quel momento, quel sarcasmo è comprensibile, se il Vialli di quegli anni è ancora un Lucignolo o un Franti; un Franti, s’intende, che nasconde, nemmeno troppo, molti tratti da Garrone.

Dopo il ’94, i percorsi degli “inseparabili” non potrebbero essere - per quasi un quarto di secolo - più divergenti. Il Mancio - riassumendo brutalmente - entra nella fase-Eriksson, il tecnico già avuto (o meglio voluto, da lui e da Vialli) alla Samp del post- Boškov, con cui vince alla Lazio un secondo scudetto da underdog, esercitando già sul campo - l’ha ricordato Eriksson stesso - come allenatore. È una fase, per inciso, di imprinting decisiva, perché proprio la Lazio dello svedese si sedimenterà nell’archivio mentale del Mancio come un software fondativo, un primo “strato” di architettura dinamica in cui verranno calate le conoscenze successive, fino alla sintesi della Nazionale. Conoscenze acquisite per specifiche esperienze; molto più del doppio passaggio interista, quelle estere, in particolare quella inglese al City (2009-2013), in cui il 4-4-2 clonato da Eriksson comincia a spettinarsi e ibridarsi, portando il Mancio a un gioco via via più aggressivo-offensivo, ben riassunto nei tanti match dell’anno di vittoria in Premier; l’1-5 al Tottenham, l’1-6 nel derby a Old Trafford a un sir Alex stordito, la chiusa nella parossistica partita interna con il disperato QPR, coi Citizen che segnano i due gol necessari per il 3-2 con gli ultimi due tiri, il 43° e il 44° verso la porta (score mostruoso), in un finale frantic. Lì il Mancio comincia (senza saperlo o meglio senza averne certezza, perché è un disegno che leggiamo ora, a posteriori) il lento avvicinamento alla presa dell’Inghilterra, alla riconquista di Wembley e alla cura della ferita originaria.

Il bambino nel cortile

Vialli, da parte sua, quell’avvicinamento l’ha cominciato dieci anni prima, approdando a Londra sponda Chelsea, dove in un quinquennio, tra ’96 e 2000, è attivo come giocatore, player-manager e coach puro, senza arrivare alla Premier ma vincendo 5 titoli tra Regno Unito e Europa; spiccano, in particolare, una Coppa delle Coppe nel 1998 stendendo in finale lo Stoccarda del giovane Joachim Löw (dopo aver eliminato in semifinale il Vicenza di Guidolin) e una Supercoppa (stesso anno) stendendo il Real che aveva steso la Juve di Lippi in finale Champions.

A Stamford Bridge, Vialli diventa il dominus dopo altri due player-manager, Glenn Hoddle e Ruud Gullit; pratica e ruolo ormai al tramonto, secondo un trend avviato in Inghilterra nei ’70, che vedrà ancora qualche ultimo esempio isolato, come un altro doriano, Attilio Lombardo, al Crystal Palace. Dominus, a rigore, in senso psicologico e “carismatico”, da supervisore-trascinatore, perché il lavoro di base viene svolto da Graham Rix (già al Chelsea), da Ray Wilkins (uno dei veri amici di Vialli) e dall’AD Colin Hutchinson (che si occupa di contratti e trasferimenti). Anche se questa “divisione del lavoro” non gli impedisce di diventare un breaker, un apripista sottovalutato, che innesca un processo di crescita del club (in era pre-Abramovich) poi completato da Ranieri e Mourinho. Il che può succedere perché il Vialli di Stamford Bridge riprende il discorso interrotto nel passaggio-Juve dove, nonostante il Palmares, era stato in fondo uno dei tanti Terminator programmati da Ventrone in un team dell’establishment, non adatto a lui. Torna cioè a giocare in continuità con l’anarchismo scapigliato della Cremonese e della Samp; l’eterno malandrino dagli occhi ridenti-sfottenti e dall’inconfondibile sorriso a incisivi separati.

Il bel libro in cui Vialli approfondisce l’avvicinamento all’Inghilterra (The Italian Job, scritto a quattro mani con Gabriele Marcotti) non è un’autobiografia; anzi, lui stesso critica lì esplicitamente quei giocatori che - magari a metà carriera, per monetizzare una fama incerta - aprono le porte dello spogliatoio e della loro vita privata. Però è un libro con segmenti autobiografici illuminanti, che aiutano a focalizzare gli snodi della sua evoluzione.

Foto di Clive Mason/Allsport/Getty Images

Uno di quei segmenti (il denso flashback sull’infanzia-adolescenza) mostra dove e come si generi il Vialli che conosciamo, a livello sia tecnico che caratteriale. Si tratta di un doppio imprinting (di città e di campagna) e di un doppio paternage calcistico (un coach esteta e uno più “risultatista”), il tutto in successiva e progressiva integrazione, a comporre un’architettura fondativa. L’imprinting di città è quello di tanti bambini che “giocano nel cortile”, proprio come in Io vagabondo dei Nomadi; nel suo caso, il cortile rettangolare (i garage adibiti a porte) che si traduce in un campo “più largo che lungo”, inducendolo anche ad “allargarsi” per crossare e disegnando quindi il futuro giocatore in grado di svariare “su tutto il fronte d’attacco” e aggredire insieme ampiezza e profondità. L’imprinting “di campagna”, invece, è quello estivo (giugno-fine agosto) reso possibile dallo spostamento della famiglia da Cremona-città alla grande magione rinascimentale a Grumello, Villa Affaitati di Belgioioso (Vialli padre è un ricco imprenditore nel settore prefabbricati): lì, lui e il fratello si esercitano - dopo gli inverni nebbiosi sul porfido urbano - in grandi prati dall’erba “spessa e rigogliosa”, che permette di provare rovesciate e colpi in acrobazia, tutte le variabili atletico-tecniche che caratterizzeranno il Vialli stoccatore (Stradivialli, secondo uno dei tanti geniali nickname del brand breriano, con riferimento a Stradivari, il liutaio cremonese forgiatore di violini sublimi).

Viene in mente, per associazione, il misconosciuto imprinting tattico di Maradona, che inizia come libero di costruzione: “da libero vedi tutto da dietro, hai il campo intero davanti a te, hai la palla e dici: pim!, usciamo di là, pum!, proviamo dall’altro lato, sei il padrone della squadra”. In fondo - semplificando - è proprio quello ha fatto, spostando il baricentro d’azione avanti di 50 metri e sostituendo le uscite di costruzione con sempre nuove eversioni dello spaziotempo, verso il gol o l’assist, simili alle torsioni degli edifici in Inception di Nolan.

Quanto ai coach - dopo un’atipica lezione oratoriale di Don Angelo, che istruisce il ragazzo Vialli sull’amoralismo del calcio e dello sport tutto - l’esteta è Franco Cistriani, che al mattino incanta gli alunni spiegando la “grande letteratura” e al pomeriggio allena i Giovanissimi del Pizzighettone: in coerenza col suo mantra, tra Valdano e Bielsa (“Non importa se si vince o se si perde, l’importante è come giochi”) cura, più e prima del risultato, “i passaggi, il movimento, il controllo”; su tutto, induce i ragazzi a “ascoltarsi” (cioè a completarsi tecnicamente) e a giocare “senza paura di sbagliare”. Il coach “risultatista”, invece, è il leggendario Guido Settembrino, che accoglie Vialli - dopo l’exit dal Pizzighettone per un inghippo burocratico - tra i giovani della Cremonese. Straordinario scout (vedi la scoperta dei fratelli Baresi, con l’Inter che prende Beppe ma scarta Franco perché “mingherlino”), Settembrino è alla fine un “sergente” che impone ai ragazzi una disciplina implacabile, tecnica prima che comportamentale, smistando multe a chi sbaglia uno stop o un passaggio. Cercando l’unità e la compattezza del gruppo come base per arrivare a vincere, è il “concavo” rispetto al “convesso” di Cistriani (o viceversa); due aspetti della sua formazione che Stradivialli troverà riassunti in parte, com’è noto, dal terzo maieuta delle origini, Emiliano Mondonico, a sua volta giocatore “scapigliato” (da buon sessantottino) e protettore dei giocatori creativi, ma tatticamente poi virato in italianista estremo.

È più di una semplice digressione-suggestione ritrovare, nell’Italia di EURO 2020, le matrici della formazione di Vialli. La matrice-Settembrino, per la verità (la capacità di resistenza-resilienza e di “esaltazione nella difesa”) è in parte costitutiva della nostra storia calcistica, dalle origini al Mondiale 2006: vedi la “capacità di soffrire” contro la Spagna (un concetto inimmaginabile nella visione-Cruijff, quasi un tabù). Mentre la matrice-Cistriani è una venatura o una fioritura rara, emersa a singhiozzo: per questo nell’Italia del Mancio (e di Vialli) ha impressionato proprio il continuo giocare “senza paura di sbagliare” (esemplare la reazione al gol di Shaw), premessa e insieme conseguenza concettuale essenziale per un lavoro tecnico, prima che tattico, sofisticato e complesso (passaggio, ricezione, pazienza nella costruzione e nel riavvio di giro-palla, eccetera) su cui si è scritto troppo poco. Un lavoro, va da sé, svolto soprattutto (se non quasi solo) dal Mancio, ma in cui Vialli - totalmente sintonico con quella visione - potrebbe aver detto, chissà, qualche parola di peso, molto più che da semplice “capo delegazione”.

Il paziente inglese

Londra, per Vialli, diventa presto una “seconda patria”: il luogo degli affetti profondi (è la città in cui conosce la futura moglie Cathryn) e dell’uscita definita dalla “provincia” italiana, siglata dal primo domicilio a Belgravia. L’impatto è disintossicante, non gli sembra vero di poter sprofondare in un anonimato protettivo: passeggiare per Hyde Park senza essere riconosciuto, o fare spesa ai magazzini Harrods senza dover rilasciare autografi. Infatti, l’impiego del suo tempo libero anticipa le abitudini successive, quelle che si consolideranno dopo la rinuncia alla carriera di coach: le viste ai giardini botanici di Kew, alla National Gallery, al castello di Windsor.

Mentre penetra nei segreti del football insulare, puntualmente scannerizzati in The Italian Job (l’incidenza del meteo e soprattutto del vento sulle dinamiche di gioco; la strana obbedienza anaffettiva dei giocatori a coaching; le analogie e le differenze con l’Italia, a partire dai media), cerca di capire la società e l’antropologia inglese tout court. Ed è anche grazie a questa apertura comparativa che affina la sua “filosofia”, per esempio quando inquadra il “suo” machiavellismo: «C’è una linea sottile che divide il cinismo dal realismo, e Machiavelli probabilmente si sarebbe definito soltanto realista». Vale per il calcio, ma non solo.

Dopo la bonus track al Watford di Elton John (2002, in cui esaurisce la sua esperienza di coach), Vialli è quindi pronto per il ruolo di commentatore-entertainer, che si distende in parallelo al quindicennio in panchina del Mancio. Da quel momento, Sky diventa la dorsale della sua attività, dai commenti TV ai match (sempre marcati da originalità analitica e ironia tagliente) al docu-reality Squadre da incubo, prodotto da Sky Italia e andato su TV8, co-conduttore Lorenzo Amoruso. In mezzo, a contrappunto, diversi altri impegni, dalla Fondazione per la ricerca sulla SLA (in condomino con Massimo Mauro) ai contributi editoriali per vari libri, in primo luogo quelli sullo stesso argomento.

Tutto scorrerebbe in una sorta di routine illuminata, non fosse per l’irruzione, nel 2017, del nonsense della malattia (un tumore al pancreas), in tempi e modi da lui stesso raccontati - col solito mix di schiettezza e pudore - nella coda criptata di un altro libro, Goals, in cui raduna un centinaio di quotes, ciascuna seguita da un racconto esemplare su sportivi notissimi, misconosciuti o ignoti.

Il racconto dettagliato dell’esordio della malattia (subdolo, come spesso in oncologia), del suo decorso e delle diverse terapie è in quelle poche, intensissime pagine. Pagine in cui non si può non restare toccati da certi passaggi psicologici: le rassicurazioni risolute ai genitori («prometto a mio padre che non me ne andrò prima di loro»); il momento di dirlo “alle bambine”, il giorno di Santo Stefano, per non intaccare il Natale; la presa di coscienza dello squilibrio della contesa («non è una lotta per sconfiggere lui», il cancro, sottintendendo una lotta impossibile) e della vera posta in palio (la “sfida a cambiare se stessi”). Ma soprattutto colpisce la dissimulazione cui Vialli deve (vuole) ricorrere: quella esteriore (i maglioni sotto la camicia per nascondere il feroce dimagrimento) e quella “narrativa” («una versione della storia che è solo una parte della verità») per non restare intrappolato in un’ipocrisia ben peggiore, quella degli amici sani che fingono di non sapere: «non voglio che cambi il modo in cui mi parlano e scherzano con me». Una dissimulazione, va da sé, sostenibile fino a quando è sostenibile l’ambiguità diagnostica, fino a quando le terapie non alterano la fisionomia e la malattia viene ufficializzata. E tutto questo mentre il sé vacilla tra la vergogna («Quasi che quanto è successo fosse colpa mia») e la paura, «la paura vera, quella che ti fa chiudere in bagno a piangere».

La svolta - la possibilità di cominciare “a dialogare” con quella stessa paura - avviene quando il professor Cunningham, eminente oncologo che prende in carico il paziente dopo la fase di cure italiane, lo rassicura circa la possibilità concreta, credibile, di una guarigione. Da quel momento, Vialli costruisce una “nuova, formidabile routine”, intessuta di “piccole frasi fondamentali”, “dettagli piacevoli”, “silenzio”: una strategia costruttiva minimalista e zen, che possa aggregare frammenti di senso lungo il nonsense generale. Ma il minimalismo non è per lui. Alto lo aspetta. Stiamo pur sempre parlando di Stradivialli, forse il nostro più grande attaccante dopo Meazza e Gigi Riva.

La cura

Nel quindicennio scorso in parallelo, gli “inseparabili” continuano a sentirsi,in un “cazzeggio” ininterrotto (Mancio dixit) che assume al tempo della malattia la forma di un elegante esorcismo, tra elusività e rispetto. Arrivato alla Nazionale (14 maggio 2018), a un certo punto il Mancio sente il bisogno di accorpare al gruppo l’amico di una vita (come si vedrà, insieme a mezza Samp, dello scudetto e non); e ha onestamente poca importanza che il gesto sia anche dovuto a pura spinta affettiva, persino una disperata pietas fraterna. Se anche fosse… Il punto è che il CT vuole avere a fianco il gemello nel cercare di sanare l’antica ferita originaria del 20 maggio ‘92 e il suo (il loro) rapporto fallimentare con la Nazionale; tanto più che - con le finals a Wembley - Vialli è l’antidoto ideale in quanto diventato nel frattempo un inglese d’adozione, come riassumono iconicamente le tante, belle foto in cui appare con varie fogge di flat cap, da “mister” british storico.

Scritturato dalla FIGC nel novembre 2019 (ufficialmente come dirigente, in realtà come caretaker tecnico-psicologico), Vialli diventa a EURO 2020 (21) una delle chiavi “culturali” del successo. Quanto riesca incidere nel crescendo delle 7 partite lo riassume Florenzi: «So che queste parole lo faranno arrabbiare, ma è importante che tutti lo sappiano. Noi abbiamo un esempio che ci mostra ogni giorno come si deve vivere, come ci si deve comportare in qualsiasi ambiente ti trovi e in qualsiasi situazione. Per noi è speciale: questa vittoria senza di lui, così come senza Mancini e gli altri, non sarebbe niente. Lui è un esempio vivente».

Foto di Alessandro Sabattini/Getty Images

Di questa incidenza profonda - tecnica, motivazionale, affettivo-emotiva - noi spettatori abbiamo assorbito solo alcune sequenze avvincenti, comunque sufficienti a tracciare uno stato di grazia: il rituale del pullman, che dopo aver “dimenticato” Vialli a terra prima di Italia-Turchia, ripete per altre sei volte la pantomima apotropaica; la declamazione alla squadra riunita (la vigilia della finale) del celebre discorso del Presidente-soldato Teddy Roosevelt (L’uomo nell’arena), sentito decine di volte nello sport (vedi LeBron James al tempo degli Heat) e nei business meeting aziendali, ma da lui depurato da ogni scoria retorica; i rigori (specie l’ultimo) vissuti spalle al campo, nell’attesa di un’euforia sonora prima ancora che visiva; la progressione degli abbracci col Mancio a Wembley, da cui siamo partiti, i due nei supplementari con l’Austria e quello nella notte dell’11 luglio.

Torniamo così a quell’abbraccio, ricordando - ancora e sempre - come sì, lì il cerchio si chiuda, ma in una visione a posteriori, secondo il corso di una necessità come esito di tante scelte giuste (e fortunate) in biforcazioni o sliding doors non scontate; sarebbe bastato meno di un rigore sbagliato, una semplice deviazione, uno scarto qualsiasi degli eventi, per vanificare quella circolarità.

A cerchio chiuso, però, non si può non vedere la potente condensazione, in senso psicologico-analitico, di quell’abbraccio: la ferita (le ferite) di Mancini & Vialli sanate collettivamente, come se la squadra e l’ambiente intero, a partire dagli altri doriani, avessero fatto propria quell’extra-motivazione monstre, innervandola con forza lungo un desiderio di riscatto più generale, sia calcistico-sportivo (dopo il crash traumatico che nega il Mondiale 2018) sia psicosociale, con l’abbraccio che - più di ogni altro - risolve simbolicamente la negazione di quel gesto, cioè una delle mutilazioni profonde dell’era-COVID. Una negazione primaria per l’animale umano, come ricordano i testi omerici; l’abbraccio mancato di Achille a Patroclo, in sogno: quello, triplice, di Odisseo alla madre, nell’Ade.

E non si può non tornare - condensazione soggettiva - all’abbraccio dal punto di vista specifico di Vialli, il “verso” di cui abbiamo detto. Una lunga vertigine che (almeno ai nostri occhi, ma forse anche per lui) connette tutto: il bambino nel cortile e le sue acrobazie sull’erba, Cistriani e Settembrino, Boškov e Eriksson, Mondonico e Sacchi, i crampi e le lacrime propri e quelli altrui, su su fino alla malattia e alla metamorfosi che gli ha imposto, scatenando in lui una forza paradossale, con cui è riuscito a strappare al nonsense non qualche frammento, ma una sequenza memorabile di senso qual è la vittoria all’Europeo.

A sintesi di tutto, c’è poi, tra le altre, una terza versione dell’abbraccio: frontale, le teste e i volti dei “gemelli” perfettamente simmetrici. Lì, le ragioni del pianto condivise dal Mancio e da Vialli e quelle soggettive di ciascuno, sembrano compenetrarsi una volta per tutte. Lì, il Mancio sembra piangere anche per la malattia dell’amico e per come l’ha elaborata. Quello che non ha mai potuto dirgli fuori dal cazzeggio (l’indicibile), avrebbe potuto dirglielo solo in quel modo.

Coda

La diffrazione, lo scarto di Vialli rispetto al Mancio e alla squadra, diventa tangibile nel post Europeo. Quando la Nazionale viene ricevuta al Quirinale da Mattarella e Draghi, lui resta a Londra; e mentre tutti raggiungono favolosi luoghi di vacanza, indigeni o esotici (il “duo di Harvard” Bonucci-Chiellini in Sardegna, i napoletani a Ibiza, lo stesso Mancio - dopo la rimpatriata jesina - in Salento) lui torna a Grumello, la sua Itaca senza mare (o dal mare d’erba), nella parte del “castello” che il padre gli ha lasciato in eredità. L’unica foto postata è quella col suo volto sorridente davanti al vicino Santuario della Beata Vergine della Speranza, una scabra chiesa settecentesca, quasi spoglia. A commento, solo cinque parole: «È il tempo della gratitudine».

Il “dialogo con la paura” - in quel tipo di malattia- non può mai davvero finire, ma solo declinarsi in forme diverse. Eppure, Vialli è già andato aldilà del suo obiettivo primario, dichiarato in Goals: «Voglio essere di ispirazione agli altri. Voglio che qualcuno mi guardi e mi dica: “È anche per merito tuo se non ho mai mollato”». Ci ha offerto molto, molto di più. Ci ha mostrato come nessuna limitazione sia un alibi sufficiente per farci provare solo a sopravvivere; come l’animale umano - anche, anzi a volte proprio nelle condizioni più difficili - abbia la possibilità, per natura e cultura, di provare a vivere.

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