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Giampiero Boniperti, i ricordi sono a colori
22 giu 2021
Intervista inedita allo storico giocatore della Juventus e della Nazionale.
(articolo)
6 min
(copertina)
Foto di Central Press/Getty Images
(copertina) Foto di Central Press/Getty Images
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In occasione della morte di Giampiero Boniperti, pubblichiamo un'intervista di Vittorio Martone ed Enrica Speroni di circa dieci anni fa all'ex dirigente e calciatore della Juventus e della Nazionale.

Era il 12 febbraio del 2012 quando nella mia casella di posta elettronica arriva un messaggio con un importante allegato di Enrica Speroni, storica giornalista de’ La Gazzetta dello Sport, con cui in un serrato scambio di mail avevamo pianificato un’intervista a Giampiero Boniperti nell’ambito di un docudramma radiofonico che stavo producendo insieme all’amico e autore Rai Francesco Frisari. Enrica Speroni, anche lei ormai venuta a mancare, era di fatto l’unica giornalista con cui Boniperti parlasse. Era stata lei a convincerlo a chiamarmi una mattina: «Salve, parlo con Vittorio Martone», «Sì, sono io», «Buongiorno Martone, sono Boniperti», era stato il suo introdursi, che mi ha fatto capire qualcosa di come poteva essere il gestire una contrattazione con lui. In quella telefonata mi disse che accettava la nostra intervista e le nostre domande, quasi tutte collegate alle nostre ricerche sull’avventura della Nazionale che nel 1950 partecipò ai Mondiali raggiungendo il Brasile in nave, data la tragedia di Superga dell’anno prima. L’intervista si sarebbe fatta, ma per tramite di Speroni. Che nel suo averci in qualche modo adottato ci regalò poi questo pezzo, in cui le risposte di Boniperti ai nostri quesiti divennero preziosi virgolettati. Questa intervista ci è stata infatti utile per lavorare al docudramma sui Mondiali del ’50 ma è rimasta inedita fino ad oggi.

Vittorio Martone

***

I ricordi sono a colori. Anche quelli lontani. Basta un attimo e Giampiero Boniperti si rivede ragazzo, ritrova i volti un po’ preoccupati di mamma Camilla e papà Agabio nel salutare il figliolo che va ad imbarcarsi sulla Sises. Destinazione Brasile. «I miei genitori erano perplessi di fronte a quel lungo viaggio. Più che al Mondiale pensavano a Superga. Alla tragedia del Grande Torino».

4 maggio 1949, l’aereo che si schianta in braccio alla basilica, tutti morti. «Io me lo ricordo bene quel pomeriggio, del resto come potrei dimenticarlo? Tutte le volte che vedo Superga il pensiero va lì. E io Superga la vedo tutti giorni».

Di colpo cambia la vita. C’è un prima e un dopo. «Non avevo ancora 21 anni, ma il Grande Torino lo conoscevo bene. Al primo anno di Juventus, campionato 1946/1947, giocavo nelle riserve e la domenica pomeriggio, se i bianconeri erano in trasferta, la passavo al Filadelfia a vedere quella squadra di campioni guidata da Mazzola, il più grande di tutti. Poi, diventato titolare, ci ho giocato contro in partite che ti azzannavano lo stomaco a cominciare da sette giorni prima. E dico 7 non a caso. Io andavo a mangiare da Tolmino, una trattoria in via Alfieri a pochi passi dalla sede granata, allo stesso tavolo di Bacigalupo, Rigamonti e Martelli, chiamati il trio Nizza dal nome della strada dove abitavano tutti e tre. Eravamo amici, ci vedevamo quasi tutti i giorni. Ma quando si avvicinava il derby diventavamo estranei: loro da una parte, io dall’altra, alla larga da una settimana prima fino a una settimana dopo la sfida. Troppa tensione, troppa adrenalina, meglio scaricare i nervi a distanza. Passata la febbre da derby mi ripresentavo da Tolmino e riprendevo il mio posto a tavola».

Torniamo alla partenza per il Mondiale del ’50. Tutti in nave perché l’aereo faceva paura. Un viaggio lungo…

«Lungo è dire poco. A pensarci sarebbe stato meglio restare a casa: 18 giorni in nave vanno bene se devi giocare a canasta o a tressette, non se devi disputare i campionati del mondo. Abbiamo fatto sosta alle Canarie: partitella su un campo vero, un giorno e via. Ci allenavamo sul ponte della nave, ma ben presto i palloni finirono in mare: un po’ per sbaglio, un po’ buttati apposta. Saltavamo la corda per fare fiato e per il resto non sapevamo come passare il tempo. Giocavamo a carte, contavamo le stelle, ma soprattutto ci annoiavamo».

La Sises era solo per la Nazionale?

«No, in seconda classe c’erano altri passeggeri. Ma non avevamo contatti. Noi eravamo in prima. Nessuna possibilità di mischiarsi».

E tra di voi che clima c’era?

«In campo qualche spintone lo prendi e lo dai, però finita la partita eravamo amici. Lorenzi, toscano impertinente, sfotteva e ogni tanto - sempre scherzando - veniva rimesso in riga. Era piacevole stare con loro, ma quel viaggio così lungo e vissuto in spazi stretti diventò pesante. E poi la nave ballava, avevamo lo stomaco a pezzi».

Finalmente terra.

«Il Brasile ci accolse con un calore stupendo. È stato emozionante vedere la gioia degli emigrati per il nostro arrivo. Ci allenavamo alla palestra Italia e ovunque andassimo eravamo circondati da connazionali in festa che confidavano in un nostro successo come una rivincita sul destino. Ma noi eravamo distrutti e la pessima condizione si manifestò in pieno all’esordio contro la Svezia. Loro, venuti in aereo, erano preparati e freschi. Noi no. Quel 3-2 ci condannò, la vittoria sul Paraguay di qualche giorno dopo fu inutile: Mondiale finito dopo due partite. Non ne potevamo più di tornare in Italia, decidemmo di rientrare in aereo: le 36 ore di viaggio invece dei 18 giorni furono un buon antidoto alla paura. Tranne che per Lorenzi e Carapellese, loro scelsero ancora la nave».

Foto LaPresse

Il Brasile però aveva lasciato il segno. «Paese stupendo, gente bravissima, donne bellissime». L’anno dopo Boniperti ci tornò con la Juventus per disputare la Copa Rio, una specie di Mundialito cui fu invitata con altre 4 europee (Sporting Lisbona, Olympique Nizza, Austria Vienna, Stella Rossa Belgrado).

«Arrivammo nell’indifferenza di brasiliani ed emigrati, snobbati dagli uni e dagli altri: la brutta figura del Mondiale era ancora fresca. Ma nel giro di pochi giorni cambiò tutto e fu fantastico. I brasiliani, che vivono per il calcio e lo mettono addirittura prima della famiglia, ci guardarono con crescente meraviglia soprattutto dopo il 4-0 al Palmeiras. Conquistammo la finale e la perdemmo proprio col Palmeiras dopo un doppio confronto (1-0 e 2-2) giocato al Maracanà davanti a 200 mila persone che non hanno smesso un minuto di cantare. Io fui il capocannoniere del torneo. Un’esperienza fantastica, ma fantastica fu tutta la tournée. Giocavamo bene ed eravamo travolti dall’entusiasmo, prima a San Paolo e poi a Rio. Un Paese magnifico che gioca un calcio ballato, paesaggi stupendi e ragazza bellissime».

Ce ne fu anche una che si innamorò di lei...

Ride Boniperti al pensiero di quella ragazza brasiliana che si materializzava al suo passaggio, che lo aspettava per ore seduta fuori dall’albergo… «Ma non ci ho mai parlato, erano i camerieri ad avvertirmi di quella presenza costante e silenziosa».

Che il Presidente non stia esagerando ricordando quella Copa Rio lo dimostra il viaggio di una troupe brasiliana, nella primavera del 2001, venuta in Italia a intervistarlo in occasione del cinquantenario. Il Brasile invitò la Juventus anche negli anni successivi. Divertimento in campo e divertimento fuoricampo, ricevimenti all’ambasciata e serate al night. O, per dirla alla Boniperti, al tabarìn.

Ma il viaggio dei viaggi è un altro. Dici Londra e lui si illumina. Dici Londra e lui è già ritornato al 21 ottobre 1953 e si rivede là, nello spogliatoio di Wembley, unico italiano chiamato dalla FIFA nel Resto d’Europa a sfidare l’Inghilterra nella celebrazione dei 90 anni di quella Federcalcio. Un 4-4 in casa dei maestri del calcio con una sua doppietta: «Una partita bellissima. L’emozione più grande della mia carriera».

Di quell’evento ricorda tutto, il suo raccontare parte da Torino e ha sempre il sapore della prima volta. «Il magazziniere mi ha preparato la valigia, sono passato in sede a ritirare il biglietto aereo e mio fratello mi ha accompagnato a Milano in aeroporto. Una volta sbarcato – avevo l’indirizzo dell’albergo – mi guardo attorno e vedo un signore col cartello Boniperti. Quello è qui per prendermi, mi dico, mi avvicino e gli faccio vedere il passaporto. Lui risponde ok e mi accompagna in hotel».

Foto LaPresse

Superato brillantemente il primo ostacolo linguistico, resta quello più grosso: come facevate a intendervi tra svedesi, jugoslavi, ungheresi e compagnia cantando?

«Non eravamo estranei. Molti di loro, da Beara a Ciajkovski, li conoscevo perché ci avevo giocato contro, Nordahl era già al Milan. In campo nessun problema, ho anche segnato due gol, si vede che sapevo giocare a calcio. Negli spogliatoi ci intendevamo a gesti. Ricordo che Posipal aveva una borsa di medicinali impressionante, c’era di tutto: per stiramenti, distorsioni, mal di stomaco, febbre, caduta di voce… Mai vista una dotazione così. Una sua pomata ha fatto piangere Nordahl: gliel’aveva data per alleviare un dolore alla coscia e non aveva fatto a tempo a mostrargli come spalmarla che già Nordahl se la sfregava con mano pesante sul muscolo. Il noooo urlato dal tedesco si sovrappose al grido dello svedese che guardava quella pelle arrossata, quasi ustionata, e piangeva dal male. Di Posipal ricordo anche che s’era portato in valigia un grosso salame».

Boniperti lo dice con orgoglio: «Ho segnato due gol a Wembley, il tempio del calcio. Li ho segnati agli inglesi, che in campo si sentivano i maestri e guardavano tutti gli altri dall’alto. Un’emozione che non si può raccontare. Al ritorno a Milano c’erano ad aspettarmi gli amici di Barengo e il mio papà. Nessun giornalista. Altri tempi. L’intervista me la fece l’Avvocato, mi convocò e volle che gli raccontassi tutto nonostante fosse venuto apposta a Londra per vedere la partita».

Due gol a Wembley li sogni anche la notte. E non c’è prodezza che regga il confronto. Londra è la cornice, anch’essa preziosa. «Viali, palazzi, parchi. Mi fa una grandissima impressione. Vieni via che ti senti padrone del mondo».

Sono trascorsi quasi sessant’anni, ma Boniperti parla al presente. Quando pensa a Londra vede il generale Montgomery che passa in rassegna le squadre a centrocampo prima della partita, ascolta il silenzio incredulo di Wembley ai suoi gol e vive ogni volta l’orgoglio di uscire dal campo imbattuto.

Lo ammetta Presidente: quando pensa a Londra lei si sente padrone del mondo come nel ’53…

Ti guarda, sorride e non dice di no.

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