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(di)
Cesare Alemanni
Ghiaccio nero
20 mag 2015
20 mag 2015
La carriera di Seth Jones, stella afro-americana dell'hockey su ghiaccio, è l'occasione per riscoprire la storia segreta della Coloured Hockey League.
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Cesare Alemanni
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C’è una domanda che il ventenne Seth Jones si sente ripetere fin da quando era un bambino: «Perché non giochi a basket?». Capitava che gliela rivolgessero ancora tre anni fa, quando Seth Jones era già considerato uno dei cinque giocatori di hockey under-18 più promettenti al mondo. E può darsi che, persino oggi che ha concluso la sua seconda stagione in NHL con i Nashville Predators (quarta scelta nel 2013), qualcuno, nel silenzio della propria testa, se la ponga ancora. «Già, perché non giochi a basket, Seth Jones?».

 

Le ragioni della persistenza di questo interrogativo sono almeno un paio. La prima è che Seth è figlio di Ronald Jerome “Popeye” Jones, attuale assistente allenatore degli Indiana Pacers, nonché ala grande da dodici stagioni NBA tra 1993 e 2004 (7 punti e 7 rimbalzi a partita di media in una carriera iniziata nell’Aresium Milano). La seconda è che, come suo padre, Seth Jones è un uomo di colore. Un afroamericano in uno sport in cui, per diversi motivi, gli afroamericani sono ancora visti come una stravaganza, se non peggio.

 

Ne sa qualcosa P.K. Subban, venticinquenne difensore canadese dei Montreal Canadiens, uno dei migliori in NHL al momento. Quando, nel maggio 2014, un suo goal ha deciso Gara-1 delle semifinali della Eastern Conference contro i Boston Bruins, nei minuti successivi alla partita erano due gli hashtag che proliferavano nell’area twitter di Boston. Il primo diceva #n***er, il secondo #whitesonly. Anche Subban infatti è di colore.

 

https://youtu.be/TuADxN3-Zws?t=40s

Sui lanciatori di banane P.K. Subban la pensava come Dani Alves due anni prima di Dani Alves.



 

Nonostante in seguito Subban abbia raccolto la solidarietà della stragrande maggioranza di tifosi, giocatori e dirigenti avversari, peraltro all’interno della rivalità storicamente più accesa nella storia dell’hockey professionistico, sembra esserci qualcosa di invincibilmente atavico, quasi cromatico, nel pregiudizio con cui molti guardano un atleta di colore che si cimenta in un qualsiasi sport che contempli la presenza di neve o ghiaccio.

 

Un po’ tutti all’epoca abbiamo sorriso con la storia vera della Nazionale di bob giamaicano, quella che debuttò alle Olimpiadi di Calgary '88, raccontata nel 1993 dal film Disney

. Ma, passati da un pezzo gli anni '90 e mentre il mondo si trasformava in un posto in cui si può sciare al coperto a Dubai, ad alcuni è legittimamente sorto il dubbio che non fosse poi così impossibile o assurdo voler scendere in bob in Giamaica e che, di conseguenza, le ragioni dello straniamento che ci provocava quella storia non risiedessero tanto in questioni climatiche, geografiche o logistiche, ma avessero semmai a che fare con qualcos’altro. Con un’immagine del mondo per cui il luogo naturale di una persona di colore è, per dirla molto brutalmente, una savana. O, quando va bene, un playground di periferia.

 

Il che evidentemente non è solo «as racist as you can get», è anche una vigorosa passata di spugna sugli ultimi cinque secoli di storia e sui responsabili delle azioni per cui, dal XVI secolo a oggi, sono vissuti milioni di uomini e donne di colore che, loro malgrado, con la neve sono stati costretti a convivere.

 



Paradossalmente però, e per quanto esistano ancora oggi dei portatori di razzismo come dimostra il caso Subban, tra i quattro sport più seguiti d’America (football, basket, baseball e hockey), proprio l’hockey storicamente si è dimostrato uno dei più aperti ai giocatori di colore.

 

Soprattutto perché l’epicentro di questo sport in Nord America è da sempre localizzato più in Canada che negli USA. Ovvero in un paese dove—principalmente per un’applicazione blanda e più che altro di seconda mano dei principi ispiratori delle “leggi Jim Crow”—già verso la fine dell' '800 le condizioni di vita delle popolazioni di colore erano sensibilmente migliori che negli Stati Uniti. Una circostanza che aveva portato molti afroamericani della prima e seconda generazione scampata alla schiavitù a cercare asilo nei climi rigidi di posti come la Nova Scotia, una delle tre province marittime del Canada, situata leggermente a nord-est del New England.

 



 

È lì che—come raccontano in

gli storici dell’hockey George e Darril Fosty alle cui ricerche si deve per intero la scoperta di questa storia—nel 1894 si forma The Coloured Hockey League (CHL): una lega professionistica che anticipava di ventitré anni la fondazione della NHL, composta da 400 giocatori di hockey afrocanadesi divisi in una dozzina di squadre.

 

Nonostante nel Canada di fine '800 non esistessero esplicite leggi segregazioniste, era molto raro, per non dire impossibile, che un giocatore di colore fosse invitato a giocare in una squadra di bianchi. Per questo motivo alcuni ministri protestanti decisero di istituire un torneo per soli afrocanadesi. Pensato inizialmente come un modo per compattare i più giovani intorno alle piccole chiese della zona di Halifax, nel giro di pochi anni il torneo “oratoriale” si trasformò in una lega vera e propria, con tanto di stipendi e sponsor, nonché in una delle principali attrazioni sportive della regione, attraendo talvolta più di mille spettatori, spesso in gran parte bianchi.

 

Alla faccia della vulgata dell'epoca (il pregiudizio inverso per cui

i neri sono degli atleti naturali ancora non esisteva, anzi), secondo cui le persone di colore avevano le caviglie troppo delicate per pattinare e mancavano della memoria genetica per tollerare le basse temperature, gli afrocanadesi della CHL si dimostrarono invece abili quanto se non più dei loro corrispettivi caucasici.

 

Abili al punto da introdurre alcune innovazioni, nella mobilità dei portieri (la possibilità di “uscire” dai pali per intercettare il disco) e nella tecnica di tiro (lo

, un colpo secco con la mazza sollevata dietro il corpo), in seguito divenute canoniche ma all'epoca interamente rivoluzionarie, contribuendo così alla definizione dell'hockey moderno. In generale la CHL prese quello che era un gioco giocato in «a gentle manner», come scrivono i Fosty in

, e lo trasformò nello sport adrenalinico che conosciamo, all'incirca negli stessi anni in cui i nativi americani del Carlisle Indians Football Club stavano facendo qualcosa di molto simile nel football americano.

 

L’idea dello

, per esempio, a quanto pare venne a un tale di nome Eddie Martin. Il quale, nei mesi estivi, era un giocatore di baseball e quindi non fece altro che adattare a un rettangolo di ghiaccio un movimento di rotazione della mazza simile a quello a cui era abituato su un diamante d'erba.

 

Purtroppo, complici anche l'ostilità delle controparti bianche, che non accettarono mai la proposta di un campionato misto, e la Prima Guerra Mondiale che decimò il numero degli atleti della CHL (quarantotto di loro morirono nella sola battaglia di Cambrai), popolarità, spettacolo e innovazioni non contribuirono a lungo alla sopravvivenza della CHL, che si spense lungo il corso degli anni '20 portandosi nella tomba i nomi di Eddie Martin, di Henry Braces Franklin, il primo portiere a “uscire” dai pali, e di William “Hippo” Galloway, contemporaneamente il primo afroamericano a giocare in una lega professionistica di hockey e l’ultimo a giocare in una lega professionistica di baseball fino all’avvento di Jackie Robinson.

 



Mentre molti dei protagonisti della CHL morivano sui campi di battaglia europei, nel 1917 in Canada veniva fondata quella che tuttora è la più importante lega professionistica di hockey al mondo, la National Hockey League, che nel 1924 si allargò anche alle squadre statunitensi.

 


Willie O'Ree in azione.



 

Passarono però più di trent’anni prima che un giocatore di colore potesse mettervi piede. Si trattava del canadese Willie O’Ree. Soprannominato “il Jackie Robinson dell’hockey”, nel 1958 O’Ree fu chiamato proprio dai Boston Bruins (ironie della storia) per sostituire un giocatore infortunato. Nonostante fosse al 95% cieco da un occhio per essere stato colpito in faccia da un disco—cosa che aveva effetti non trascurabili sulla sua mira, che lo portarono essere definito “King of the Near-Miss”—O’Ree riuscì a nascondere il suo handicap e a costruirsi una carriera dignitosa. Soprattutto riuscì a dimostrare che, a differenza di quanto gli veniva urlato dagli spalti, «un nero non era solo buono per raccogliere il cotone».

 

Meno fortunato di O’Ree fu Herb Carnegie, un fuoriclasse assoluto a detta di tutti quelli che lo videro giocare ai tempi nelle leghe minori, al quale, nel 1949, venne preclusa la strada del professionismo con i New York Rangers su basi razziali. Carnegie era così forte che per lui si stendevano paragoni con Jean Béliveau, una specie di Wayne Gretzky degli anni '40 e '50, vincitore di 17 Stanley Cup (dieci da giocatore e sette da dirigente) e unico ex-giocatore di hockey a cui sia mai stata offerta la carica di Governatore del Canada. Così forte da spingere il presidente dei Toronto Maple Leafs, Conn Smythe—vincitore di 8 Stanley Cup, eroe di due guerre, l’uomo a cui è intitolato il trofeo per l’MVP delle Finali—a dichiarare: «Offro diecimila dollari a chi fa diventare bianca la pelle di Herb Carnegie».

 



Nei settant’anni trascorsi da quella frase di Smythe, la NHL ha visto transitare un numero crescente di giocatori di colore, alcuni entrati anche in Hall Of Fame, dal duro Val James, al portierone Grant Fuhr fino al rapidissimo Jarome Iginla. I quali, eccellenti o mediocri che fossero, fortunatamente col passare del tempo sono stati giudicati sempre più sulla base delle loro capacità e sempre meno per il colore della loro pelle.

 

Ciò non toglie che, paragonata a quella di sport come basket, football, baseball e calcio, la percentuale di afroamericani in NHL è molto più bassa. Una statistica che, in qualche modo, contribuisce ad alimentare in certe menti il luogo comune per cui tra ghiaccio e pelle scura esiste una scarsa affinità elettiva. A far persistere l’idea ridicola di una memoria genetica che, sul ghiaccio, gioca a svantaggio delle persone di colore.

 


Herb Carnegie, fuoriclasse mancato della NHL.



 

Le possibili spiegazioni di quella statistica sono ovviamente molto meno arcane. Da una parte c’è il fatto che, tra tutte le leghe professionistiche nordamericane, la NHL è quella che “importa” il maggior numero di giocatori dall’estero, e,

(Canada, Stati Uniti, Svezia, Russia, Repubblica Ceca, Finlandia e Slovacchia), solo gli Stati Uniti contano numeri significativi per quanto riguarda le minoranze etniche.

 

A questo si aggiunge un fattore sociale legato alla ben nota sovrapposizione, specialmente negli Stati Uniti, tra minoranze etniche e quartieri a fascia di reddito più bassa. Rispetto ad altri sport, per essere praticato l’hockey richiede infatti infrastrutture ed equipaggiamenti più specifici e costosi. Se la costruzione di un campo da basket, da calcio, baseball o football (sport, questi ultimi tre, che con un po' d’ingegno possono addirittura essere praticati senza alcuna infrastruttura e in tutte le condizioni climatiche), è una voce tutto sommato trascurabile di un bilancio municipale, il discorso è ovviamente diverso per un rettangolo da hockey, specialmente se si vuole che resti aperto dodici mesi l’anno.

 

Si crea così un circolo vizioso per cui pochi afroamericani (ma il discorso vale anche per altre minoranze) entrano in contatto con l’hockey da bambini e quindi ancora meno riescono a entrare in NHL diventando modelli con cui identificarsi per le successive generazioni. Un circolo vizioso che sostanzia lo stereotipo dietro a un hashtag come #whitesonly. Uno stereotipo che purtroppo non è presente solo tra alcune frange minoritarie del tifo ma anche tra alcuni giocatori, e, pur non rappresentando affatto la maggioranza del movimento, cattura la parte più ottusa e conservatrice del suo ethos.

 

Per combattere questo razzismo infestante, nel 1995 la NHL ha creato la "Diversity Iniziative", che, oltre ad aver arruolato tra i propri ambasciatori personaggi come Willie O’Ree, aiuta una serie di enti no-profit a divulgare l’hockey in contesti economicamente svantaggiati, sostenendo la costruzione di infrastrutture predisposte e fornendo l’equipaggiamento necessario a prezzi più accessibili.

 

Il tutto nella speranza che il prossimo Seth Jones, alla domanda «perché non giochi a basket?», possa rispondere: «Perché il palazzetto del ghiaccio era più vicino».

 
 

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